Nelle ultime settimane sono quattro le persone che hanno deciso di lasciare i loro incarichi nello staff della vicepresidente Kamala Harris. Tra questi la consigliera e portavoce Symone Sanders e Ashley Etienne, direttrice della comunicazione di Harris. Mentre la vicepresidenza si è affrettata a dichiarare che queste partenze erano state pianificate da tempo, stampa e classe politica le considerano la prova delle difficoltà che la prima vicepresidente donna – e la prima Afro-Americana a ricoprire il ruolo – sta sperimentando.
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Già in estate lo staff di Biden era intervenuto per aggiungere due “fixers” democratici, in grado di mediare e risolvere alcuni problemi legati alla comunicazione esterna della vicepresidente. CNN ha recentemente riportato che lo staff di Harris l’ha esposta più volte a situazioni critiche e che i membri della sua famiglia hanno spesso voce in capitolo in modo informale all’interno del suo ufficio. I media hanno notato anche che i problemi con il personale sono stati una caratteristica di ogni ruolo che ha ricoperto, da procuratore distrettuale di San Francisco al Senato degli Stati Uniti.
Ma non è solo una questione di comunicazione. Harris è stata parzialmente esclusa da molti degli incontri con i legislatori che hanno portato all’approvazione del Build Back Better, il gigantesco piano per le infrastrutture recentemente approvato. E, sempre secondo CNN, la vicepresidente avrebbe espresso delle critiche per non essere stata coinvolta dal presidente Biden sul ritiro dall’Afghanistan. Una situazione che, dicono, dipende anche dalla relazione difficile con alcuni membri dello staff della Casa Bianca. Tanto che, sempre secondo CNN, la stessa vicepresidente avrebbe confidato che si sente limitata in ciò che è in grado di fare politicamente.
Che la vicepresidente sia in difficoltà lo testimoniano anche i sondaggi. Secondo il Los Angeles Times, che traccia la popolarità della vicepresidente, il 41 per cento degli elettori registrati ha un’opinione favorevole di Harris e il 52 per cento un’opinione sfavorevole. Nella comparazione con i precedenti vicepresidenti, il quotidiano della California nota che la preferenza netta di Harris è leggermente inferiore a quella dell’ex vicepresidente Mike Pence a questo punto dei rispettivi mandati. Molto al di sotto delle valutazioni rispetto ai tre precedenti vicepresidenti (Al Gore, Dick Cheney e Joe Biden stesso). La dinamica però discendente avviene a giugno, quando comincia anche un leggero declino per Joe Biden. Attualmente la valutazione favorevole del presidente è del 44 per cento e la sua valutazione sfavorevole è del 53 per cento. Harris si colloca quindi tre punti sotto Biden.
Quali sono le ragioni di queste difficoltà? Secondo Cook Political Report, Harris si trova al centro del dibattito perché Biden è debole. Se la presidenza non fosse in una dinamica discendente non si sentirebbe parlare delle difficoltà di Harris. Un’opinione condivisa anche dal San Francisco Chronicle, secondo il quale la popolarità di Harris riflette più come gli elettori si sentono su Joe Biden e la sua amministrazione che una critica alla vicepresidente.
Tuttavia molti hanno notato che le difficoltà di Harris sono legate anche all’agenda che Biden le ha assegnato. Secondo The Atlantic, Biden ha messo la vicepresidente in una posizione impossibile che l’ex senatrice ha accettato per spirito di servizio. I due temi di cui si occupa Harris, immigrazione e diritto al voto, sono infatti tra i più complessi e ardui da risolvere.
I problemi nei sondaggi per Harris sono infatti iniziati con la sua visita in Messico e Guatemala in estate. Biden l’aveva incaricata di occuparsi delle “cause profonde dell’immigrazione”, una missione quasi impossibile sulla quale molti presidenti hanno infranto le loro promesse elettorali. In questa veste Harris si è recata in America Centrale e ha dichiarato che l’obiettivo dell’amministrazione democratica era quello di affermare il controllo sui confini degli Stati Uniti e aveva invitato i migranti a non partire. Dichiarazioni che avevano suscitato enormi polemiche in campo democratico, con le critiche di Alexandria Ocasio-Cortez. La gestione delle relazioni diplomatiche con le nazioni dell’America centrale escludeva però un suo ruolo sul confine meridionale degli Stati Uniti. E quando la crisi dei minori non accompagnati ha investito ad inizio anno l’amministrazione democratica, Harris ne ha subito le conseguenze senza però poter intervenire, per ragioni di fedeltà. Una situazione difficile che si è ripresentata qualche mese dopo con le migliaia di cittadini di Haiti accampati in condizioni squallide e oggetto di polemiche tra democratici per il trattamento che la polizia aveva riservato loro.
Anche sul tema dell’espansione dei diritti al voto, i risultati sono assenti. Il presidente democratico ha sostenuto il For the People Act, che cercava di espandere il diritto al voto dei cittadini americani. Si trattava di una legislazione particolarmente importante per gli Afro-Americani che costituiscono la spina dorsale dell’elettorato democratico. Il disegno di legge era stato approvato dalla Camera ma è stato poi bloccato al Senato dove erano necessari i sessanta voti per l’approvazione per aggirare l’ostruzionismo del Partito repubblicano. I democratici hanno quindi presentato un nuovo disegno di legge, il Freedom to Vote Act o John Lewis Voting Rights Act, basato sulla proposta del senatore democratico del West Virginia Joe Manchin, che all’epoca aveva rifiutato di votare per il For the People Act, poiché diceva che non aveva un sostegno bipartisan. Il disegno di legge contiene molte delle stesse disposizioni del For the People Act, anche se ha ristretto alcuni dei termini per placare i democratici moderati: amplia la capacità degli elettori di votare per corrispondenza, stabilendo standard nazionali di base che consentono il voto anticipato senza scuse per tutti gli elettori aventi diritto; rende il giorno delle elezioni un giorno festivo legale; stabilisce la registrazione automatica degli elettori; ripristina il diritto di voto alle persone con condanne penali che hanno completato le loro condanne, ma non a quelle che stanno ancora scontando la pena; interviene sulla definizione delle circoscrizioni elettorali per applicare criteri di riorganizzazione uniformi.
La legislazione è passata alla Camera ma giace ferma al Senato dove democratici e repubblicani hanno lo stesso numero di senatori. Inoltre per passare la legislazione sarebbero necessari sessanta voti per aggirare l’ostruzionismo. Si tratta di una legislazione storica di riforma elettorale sulla quale Harris si è impegnata molto. Ma l’assenza dei voti al Senato la rende praticamente carta straccia. E la situazione non migliorerà il prossimo anno con le elezioni di metà mandato. La sfida di Harris è quella di trovare un ulteriore compromesso su questa legislazione per avere il sostegno di almeno dieci repubblicani ed aggirare l’ostruzionismo. Ma non c’è alcun segnale di collaborazione da parte repubblicana sul tema. Oppure c’è un’altra opzione: eliminare il filibustering – l’ostruzionismo – che consentirebbe a una semplice maggioranza di approvare la legislazione al Senato. Biden però non supporta l’eliminazione dell’ostruzionismo.

Esiste anche un problema storico della vice-presidenza. Nei duecento anni di storia della carica, la vicepresidenza è mutata. E molto. John Adams, il primo vicepresidente del paese, definì l’incarico come “il più insignificante che l’invenzione dell’uomo abbia mai concepito”. Daniel Webster, uno dei senatori più importanti del diciannovesimo secolo, rifiutò la nomina Whig per la vicepresidenza affermando di non voler essere sepolto prima di essere davvero morto. Ed è stato pressoché così per gran parte della storia del paese. Il Ventesimo secolo ha però visto dei cambiamenti nel governo. La presidenza ha iniziato a essere il centro dell’attenzione dei media. E con la crescita dell’importanza del presidente è cresciuto anche l’attenzione per la vicepresidenza, per la persona che avrebbe potuto sostituire il presidente (così come sono diventate più complesse le procedure di scelta del vice da parte del candidato presidente).
Nonostante i mutamenti, il requisito fondamentale della posizione è pero quello di restare lontano dai riflettori e di sostenere il presidente e la sua agenda. Certo negli ultimi decenni, dice l’editorialista del Los Angeles Times Mark Z. Barabak, i vicepresidenti sono stati scelti in particolare anche per “fare qualcosa che il presidente non può fare o non può fare molto bene”. Gore fu scelto dall’allora governatore dell’Arkansas Bill Clinton per l’esperienza nella Camera dei rappresentanti; Biden stesso per l’esperienza trentennale in Senato; Mike Pence per garantire stretti legami con la componente evangelica del Partito repubblicano. E Dick Cheney ha trasformato l’ufficio del vicepresidente, prendendo il controllo sia della politica nazionale che del processo decisionale. Ma se il presidente sceglie anche il vice per fare quello che non sa o non può fare, quale ruolo Biden aveva immaginato per Harris? Perché ad esempio l’attuale presidente ha passato trentasei anni al Senato (Harris solo quattro) e, quindi, non ha bisogno della vicepresidente per risolvere problemi legislativi, com Biden stesso fu per Obama.
Per alcuni c’è anche il fattore donna che conta nelle critiche che Harris riceve. Secondo Barabak, il fatto che la vicepresidente sia “la prima donna e la prima persona di colore a ricoprire questo ruolo comporta maggiore attenzione – e scrutinio – rispetto ai suoi predecessori maschi bianchi”. A sostegno della tesi, molti notano il fatto che la vicepresidente sia seguita dai media in quantità che prima non erano comparabili:
È un enigma difficile da risolvere per Harris. Le persone si aspettano che la vicepresidente faccia la storia ogni giorno, quando in realtà sta cercando di svolgere i compiti di un ruolo secondario. Harris non viene giudicata solo per come si sta comportando nei tradizionali doveri di vicepresidente.
The Atlantic suggerisce poi che conti l’elemento sessista poiché gli uomini vedono Harris sfavorevolmente con un margine di 18 punti rispetto alla media. Una versione avallata anche dalla Casa Bianca. La portavoce di Biden, Jen Psaki, ha affermato di ritenere che il sessismo e il razzismo abbiano contribuito all’intensità delle critiche affrontate dalla vicepresidente Kamala Harris.
Ma l’attenzione per Harris forse è dovuto anche al fatto che è considerata come la potenziale erede di Joe Biden. Nel 2024 infatti Biden avrebbe ottantadue anni e, nonostante lo staff presidenziale indichi la sua volontà di ripresentarsi, rimane un’incognita pesante sul futuro del Partito democratico.
In campo democratico la debolezza della vicepresidente ha dato il via a speculazioni rispetto a quello che per alcuni potrebbe essere un problema nel 2024. Se Biden decide di ripresentarsi, non ricandidare Harris alla vicepresidenza potrebbe essere interpretato come un messaggio di fallimento. Se Biden dovesse rinunciare, Harris è nella posizione migliore per succedergli ma dovrebbe probabilmente affrontare delle primarie, con enormi rischi politici per lei stessa e per i democratici. Nel frattempo, infatti, mentre Harris è diventata il volto delle questioni – immigrazione e diritto al voto – più polarizzanti, un ex rivale presidenziale, il segretario ai trasporti Pete Buttigieg, sta girando il paese per parlare di infrastrutture. E in campo democratico qualcuno sta pensando all’ex sindaco come un possibile sostituto, come vice oppure come candidato presidente. Nonostante le difficoltà di Buttigieg con l’elettorato Afro-Americano.
Quindi si sono avanzate varie ipotesi per offrire una via d’uscita onorevole per Harris, se il calo di popolarità dovesse continuare. Come la nomina a giudice della Corte Suprema: sarebbe la prima Afro-Americana a ricoprire il ruolo. Altri hanno indicato una soluzione Blair-Brown: un accordo che consenta a Biden di ripresentarsi nel 2024 e, in caso di vittoria, dimettersi qualche anno dopo per lasciare a Harris. Fantapolitica? Può darsi. Ma il segnale che per l’amministrazione Biden le cose non stanno andando come i democratici si erano auspicati.


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