Dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà per tagliare il superfluo e tenere il necessario. Non si fa la transizione senza cambiare niente e senza rinunciare a niente: le cose le decidiamo noi. Non è che bisogna per forza chiamare in ballo Biden o Draghi.
È molto chiaro il messaggio lanciato da Luca Mercalli a conclusione della presentazione delle opere selezionate all’interno di “Climate ChanCe”, il IX Concorso di comunicazione creativa tenutosi venerdì 3 dicembre all’Ateneo Veneto e organizzato da Shylock Centro Universitario Teatrale di Venezia (Shylock C.U.T. di Venezia), in collaborazione con Università Ca’ Foscari Venezia, Europe Direct Venezia Veneto del Comune di Venezia e Ateneo Veneto.
Se è infatti evidente che i risultati della COP26 sono stati deludenti e che sono molte le contraddizioni alla base delle scelte politiche ed economiche con cui i governi stanno affrontando la transizione, per Mercalli le persone possono fare la differenza. Certamente non prese singolarmente, ma innescando comportamenti collettivi su vasta scala.
Decidere di non acquistare prodotti in negozi che tengono spalancate le porte per invogliare i clienti a entrare, sprecando inutilmente energia tanto d’estate, con l’aria condizionata, quanto d’inverno, col riscaldamento che va, può fare la differenza. Decidere di consumare l’aperitivo dentro il bar e non fuori, rendendo inutili i funghi riscaldanti che dissipano il 99 per cento dell’energia che consumano, può fare la differenza. O ancora, se proprio si deve andare a sciare, chiedere che venga usata la sciolina che non contiene perfluorati, per evitare che poi i residui rimangano sulla neve e dunque nell’acqua che poi penetra i terreni e raggiunge le falde, può fare la differenza.

Questi sono solo piccoli esempi di buone pratiche emersi nel corso degli interventi di Mercalli e degli altri relatori, che però ognuno di noi può mettere in atto: siamo tutti consumatori, almeno nei cosiddetti paesi sviluppati, e siamo abituati a farci guidare dal marketing e dal mercato. Invece possiamo capovolgere la situazione, scegliendo cosa consumare, come, in che quantità e da chi acquistare.
Ai liceali in sala, Mercalli ha lanciato un invito provocatorio, quanto accorato: “Ricucite i jeans che avete comprato appositamente già rotti!”. Farsi guidare dalla moda e comprare un capo che ha appositamente una vita più breve, perché già usurato o rotto, non è più accettabile oggigiorno. Non lo era nemmeno quarant’anni fa, ma oggi che siamo con l’acqua alla gola, a maggior ragione. Mercalli l’ha spiegato bene il perché, descrivendo cosa c’è dietro alla produzione di un normale paio di pantaloni: i pesticidi per la coltivazione del cotone in Kazakistan che poi inquinano le acque, il trasporto della materia prima da lì al Bangladesh, la tintura del tessuto, magari con possibili composti tossici che, a loro volta, ricadono nelle acque, la possibilità del coinvolgimento del lavoro minorile. “E noi ci permettiamo pure di comprare questi pantaloni già strappati?”
È necessario tornare a produrre oggetti che durino più a lungo e recuperare, aggiustare il più possibile. Ricucire, come insegna “No more time” di Francesca Catellani, una delle opere d’arte del Concorso: fotografie di pezzi di terra, stampate su pezzi di carta grezza, che sono, appunto, stati ricuciti dall’autrice con fili di cotone e lana, nei lunghi mesi di isolamento e pandemia, per sanare, idealmente, le ferite che inflitte alla terra.

E non si può più fingere di non sapere. Mercalli non ha usato mezzi termini, prendendo spunto dal video “Notizie dal 2050” di Margherita Caruso, con l’attrice Rossella Guidotti, che ha riscosso i maggiori apprezzamenti della giuria del Concorso:
Noi non vogliamo sapere abbastanza, ma le informazioni le abbiamo tutte. E questo non da oggi, ma da fine Ottocento È di quell’epoca lo studio di Svante Arrhenius sulla chimica dell’atmosfera e l’incidenza della CO2 sul clima. E risale a metà degli anni Cinquanta del Novecento la conferma empirica di tali teorie, a opera di Charles Keeling, che ha attrezzato il primo osservatorio per misurare la CO2 nell’atmosfera alle isole Hawaii, costruendo la prima serie di dati che è ancora attiva oggi. Non è un problema di contenuti, ma di psicologia sociale. C’è la negazione del problema. Sappiamo anche cosa bisognerebbe fare, ma non vogliamo farlo.
Bisogna invece svegliarsi da questa inconsapevolezza intollerabile. Perché viviamo nello stesso stato di cecità volontaria, di cui parla Primo Levi ne “I sommersi e i salvati”, riferendosi agli anni Trenta. Servirebbe – ha concluso sempre con riferimento a quegli anni – una nuova chiamata alle armi, come quella che fece Winston Churchill, che parlò di lacrime, sangue, fatica e sudore, non disse alla sua Nazione: andrà tutto bene. Disse che la vittoria doveva essere raggiunta ad ogni costo. Be’, è la stessa sfida di oggi. Da questa dipende la nostra sopravvivenza.
Non a caso il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, all’apertura della COP26 ha detto che stiamo usando la natura come un “cesso” e, in chiusura, che stiamo ripetutamente bussando alla porta della catastrofe. Non esattamente un vocabolario che ci si aspetterebbe da un diplomatico. Ma questo è.

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