Qualche giorno fa è morto Robert Jervis che a molti non dirà nulla ma è uno dei “mostri sacri” nel campo delle relazioni internazionali. Jervis è soprattutto l’autore di alcune pietre miliari delle scienze sociali: The Logic of Images in International Relations, System Effects: Complexity in Political and Social Life, Why Intelligence Fails: Lessons From The Iranian Revolution And The Iraq War, How Statesmen Think: The Psychology of International Politics. Solo per citarne alcuni. Nel 2014 Jervis aveva anche ricevuto la Laurea Magistrale Ad Honorem in Relazioni Internazionali Comparate dall’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Il suo libro più noto è però Perceptions and misperceptions in international politics (“Percezioni e percezioni errate nella politica internazionale”) che ha avuto un enorme impatto non solo sulla teoria delle relazioni internazionali ma anche sull’applicazione della psicologia allo studio del processo decisionale politico.
Dall’opera di Jervis si è sviluppata poi un’ampia letteratura sulla psicologia dei leader e sui problemi del processo decisionale in condizioni di informazione incompleta, di stress e bias cognitivo. Per esempio, in applicazioni più recenti delle idee di Jervis, alcuni sostengono che Saddam Hussein abbia invaso il Kuwait nel 1990 in parte perché ha frainteso i segnali dei leader americani riguardo all’indipendenza del Kuwait. Altri hanno studiato la psicologia dei leader degli Stati Uniti e dell’Iraq nel periodo che ha preceduto la Seconda Guerra del Golfo e sul ruolo dei pregiudizi cognitivi che ha spinto entrambi a valutare alcuni tipi di informazioni più di altre, indipendentemente dal fatto che fossero vere o meno.

Di base Jervis si chiedeva come i responsabili delle decisioni degli stati percepiscono gli altri, quali sono le fonti di errore più comuni e come possiamo fare meglio, visti i rischi associati alle percezioni errate (il libro è del 1976, in piena Guerra Fredda). Jervis dice quindi che i decisori non solo devono sforzarsi di percepire il proprio ambiente, ma devono anche tenere conto delle percezioni degli altri. Sottolinea soprattutto che il rischio è che la propria percezione e il successo della propria politica siano così forti da equiparare quella percezione alla razionalità. È il caso della Francia e dell’Italia negli anni Venti. Jervis dice che le percezioni che un paese ha su un altro paese diventano infatti spesso eccessivamente generalizzate e applicate in circostanze molto diverse. E, poiché l’Italia si era unita agli alleati nella Prima guerra mondiale, i francesi negli anni Venti sottovalutarono l’ostilità di Mussolini e credevano che prima o poi l’Italia avrebbe dovuto rivolgersi alla Francia per proteggersi dal pangermanesimo.
Jarvis però cita vari esempi ed è uno degli aspetti più interessanti dei suoi lavori. Per esempio, dice, quando uno stato si impegna in investimenti militari, non necessariamente a scopo offensivo ma per migliorare le proprie difese, altri stati a volte potrebbero prenderlo come un segno aggressivo o espansionista. Questi sospetti reciproci possono guidare la corsa agli armamenti e persino portare alla guerra, come è accaduto nella Prima guerra mondiale. Ma possiamo applicarlo anche ai giorni nostri e alla questione Nato-Ucraina e a quello che significa per la Russia quell’espansione in termini di sicurezza nazionale.
Jervis aggiunge anche che “un individuo è relativamente resistente a cambiare la propria posizione” e “l’informazione che suscita dissonanza”, cioè quella che contraddice la posizione dell’individuo “è anch’essa resistente al cambiamento”. In questo caso, l’individuo non può fare altro per ridurre la dissonanza che giustificare “ostinatamente la propria posizione stabilita” ma con un “successo decrescente”. A questo tipo di ostinazione, una forma di “anti-apprendimento”, Jervis suggerisce ai decisori di contrapporre l’ascolto degli argomenti della prospettiva che stanno rifiutando, le prove che dovrebbero esaminare più da vicino e le ipotesi che richiedono ulteriore riflessione.
Suggerisce anche di applicare tempo, energia e impegno per vedere il mondo come lo vedono gli altri, attraverso strutture diverse e di “empatizzare con il funzionamento dell’argomentazione degli altri”, combinato con la comprensione dei sistemi di credenze e dei valori delle altre persone, compreso il “ruolo delle emozioni e dei pregiudizi” e il “potere delle aspettative e dei bisogni”. Perché, dice Jervis, “in politica, come nella vita di tutti i giorni, le persone formano le loro idee e abitudini attraverso processi sociali” e “il nostro mondo è sociale in quanto il modo in cui pensiamo e agiamo non può essere compreso a prescindere dalle interazioni che li hanno nutriti”. Le persone “imparano, reagiscono e si formano da ciò che gli altri dicono e fanno loro e da come gli altri rispondono a loro”.
Ne concludeva che il successo nella “politica internazionale, come in gran parte della vita sociale, dipende dalla nostra capacità di cooperare con un’ampia gamma di altri attori: è un errore credere che l’evoluzione ci abbia selezionato per la brutalità”. Suggeriva quindi ai decisori di essere consapevoli degli errori percettivi comuni in modo da evitarli o compensarli.

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