Tu cosa fai? Ti ho chiesto, accaldata, la prima volta che abbiamo fatto la strada insieme di ritorno da “Zumba” in quello che sarebbe diventato, negli anni, il nostro appuntamento fisso del mercoledì sera.
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Mi hai risposto “insegno disegno e pittura, tengo corsi nella scuola qui accanto”. C’è voluta una certa insistenza per comprendere che, oltre alla didattica basata sull’innovativo metodo di Betty Edwards, “Disegnare con la parte destra del cervello”, all’antitesi del generico “faccio cose, vedo gente” di morettiana memoria, eri una delle personalità più originali che già dominavano la scena artistica nazionale. Quella reticenza, quel pudore nel raccontarti, tipico peraltro di chi ha deliberatamente scelto il mezzo artistico per comunicare le proprie istanze, mi aveva fatto immediatamente intuire di trovarmi di fronte a una personalità complessa, un’artista decisamente concettuale.
Chiariamo subito, per chi ci legge e non ti conosce, che il “mezzo artistico” con cui tu ti esprimi non è necessariamente e soltanto quello visivo. Nel tuo sito, giustamente, la produzione è suddivisa in “lavori video, lavori sonori, lavori bidimensionali”.
Preciso, inoltre, che quello che segue è il condensato di una chiacchierata tra amiche, perché non sono una critica d’arte, né ho le competenze tecniche per ambirvi, ma semplicemente una curiosa. Da profana, ho fatto un’incursione nel sito MariateresaSartori dove, fra gli altri, è possibile visionare la tua ultima produzione Il suono di Dante. Ho studiato, letto critiche, per poi deliberatamente decidere di prescindervi. Volevo arrogarmi il privilegio di chiedere direttamente all’artista di esporre il pensiero alla base delle sue scelte artistiche; nel contempo, offrirti il punto di vista di un “non addetto ai lavori”, l’opportunità di verificare, de visu con il fruitore dell’opera, se in che misura fosse “passato il messaggio”.
Allora eccoci qui, finalmente, nella tua casa studio nel centro di Venezia. Pareti foderate di libri, un pianoforte (che suona tuo figlio, tu non conosci il pentagramma, anche se la musica è parte fondante della tua poetica), grandi tele di dipinti non tuoi e una “penombra d’artista” accentuata dalla luce obliqua di un pomeriggio tardo novembrino.
Mi sono sempre chiesta come sia successo che da laurea in lingue e letterature germaniche, una tesi su Freud, sia iniziata la tua carriera artistica. Vorrei mi spiegassi la genesi di questo percorso.
Da bambina disegnavo tantissimo perché sentivo l’esigenza di dare forma ai mondi e alle esperienze che facevo, anche per mettere ordine alle cose che vivevo. Crescendo la passione non si è spenta. Ho continuato frequentando corsi di pittura, incisione, il corso libero del nudo all’Accademia delle Belle Arti di Venezia, tecniche di affresco a Milano dove ho vissuto per un certo periodo. Parallelamente l’interesse per la linguistica mi ha portato alla laurea in germanistica con una tesi su Freud e la psicologia dell’arte. È sintomatico che l’elaborato fosse corredato da una serie di acqueforti, una per ogni concetto freudiano esposto, circostanza che molto meravigliò il corpo docenti.
Questo è interessante perché è una prima chiave di lettura di quanto poi diventerà una delle tue tematiche di ricerca e sperimentazione, l’esigenza alla base di gran parte della tua produzione artistica: tradurre in segno visivo quanto è all’apparenza intraducibile perché privo di connotazione visiva (lo scorrere del tempo, un fenomeno sociale, la melodia e il ritmo di una composizione musicale, il suono del vento, il flusso dei turisti in Piazza San Marco o di uno stormo di piccioni, lo sciabordio incessante delle onde del mare, la ritmica e l’armonia degli sguardi dei tuoi studenti mentre ti ritraggono, il contrappunto originato dall’imbarco/sbarco di viaggiatori dal pontile al vaporetto…).
Infatti, e a seconda della tematica mi servo di mezzi diversi approdando a esiti formali diversi, dalla fotografia stenopeica, al disegno, al video, all’opera sonora.

Allora parliamo di alcuni lavori esposti alla mostra “Dire il tempo. Roman Opalka Mariateresa Sartori” alla Fondazione Querini Stampalia nel 2019, a cura di Chiara Bertola. Ho il ricordo di una grande tela bianca con delle “tracce” che rappresentavano l’andamento dei flussi turistici in Piazza San Marco…
Sì, in quel caso mi ero avvalsa della collaborazione del fisico teorico Bruno Giorgini e del suo gruppo “Fisica della città” dell’Università di Bologna che aveva realizzato riprese video dall’alto di quanti transitavano in piazza San Marco durante il carnevale, per poter elaborare modelli matematici predittivi sullo spostamento delle persone. I loro filmati sono il punto di partenza di un lavoro meticoloso e piuttosto ossessivo. Con un foglio trasparente appoggiato sul monitor ho seguito con un pennarello per un tempo predefinito lo spostamento di ogni singola persona. Al termine di questa osservazione, allo stacco del foglio, il risultato è la rete di quanto è accaduto in quel determinato lasso spazio-temporale.

Benché l’ausilio di software ad hoc avrebbe consentito senz’altro una resa più precisa, ciò che mi premeva era invece la registrazione manuale, attraverso la mia mano e i miei occhi, avvalendomi della tecnologia, certo, ma in modo rozzo e meccanico.

I segni grafici dei flussi registrati sono stati infine trasposti con la tecnica della quadrettatura su grandi fogli per giungere “attraverso gli umani sensi” ad una rappresentazione “sufficientemente fedele” del fenomeno. Per me “sufficientemente” è molto importante. Mi preme la tensione verso non il raggiungimento, se mai fosse possibile, dell’oggettività. Il tendere verso l’oggettività è anche il tentativo (anch’esso inarrivabile) di annullare in qualche modo la soggettività....
…una sorta di naturalismo! Mi viene in mente David Hockney. Nel suo caso, l’obiettivo di rendere quanto i sensi percepiscono, si è tradotto principalmente nel cercare di riprodurre “quanto più fedelmente” la visione percepita dall’occhio umano. Penso a un capolavoro indiscusso come “A bigger Grand Canyon”, ben sessanta tele affiancate che ritraggono il Grand Canyon ciascuna da una diversa prospettiva e in momenti temporali differenti. Da qualche parte ricordo di aver letto che Hockney, focalizzandosi sullo studio della fisiologia dell’occhio, sarebbe giunto alla conclusione che la teoria della prospettiva, secondo i canoni classici della pittura figurativa, non sarebbe fedele alla percezione visiva che invece è in grado di sovrapporre, in un limitatissimo intervallo temporale, molteplici prospettive con diversi punti di fuga. Siccome anche l’immagine fotografica patirebbe tale limite che si traduce nella bidimensionalità dell’immagine ritratta da unico punto di fuga, quello del fotografo, non sarebbe il medium in grado di registrare la veridicità. Tu invece fai uso della fotografia stenopeica, le foto esibite sempre alla mostra alla Querini Stampalia che ritraggono piante, ma anche particolari di dipinti della Fondazione stessa.
L’uso della fotografia stenopeica risponde all’esigenza di registrazione di ciò che è; non mi interessa inventare. L’utilizzo di un mezzo rudimentale, vicino alla fisiologia umana, non è casuale: una scatola di cartone, (la testa) bucata nel centro (l’occhio), mentre la carta fotosensibile all’interno è la retina. Le variabili che intervengono sull’immagine sono infinite e contribuiscono al risultato finale. In qualche modo la traccia che viene impressa sulla carta fotosensibile è insieme imprecisa e fedelissima.



Galleria Studio G7, Bologna
Proprio ieri sono stata a vedere la mostra di Bruce Nauman alla fondazione Pinault. Lui utilizzava la telecamera (spesso anche dall’alto) nel suo studio e la lasciava filmare ciò che accadeva… compariva un topolino, la finestra sbatteva… però ciò che è interessante, nel tuo caso, che questa esigenza di oggettivazione della realtà mediata attraverso i sensi, includa anche l’interesse per il ritmo, l’accento, l’armonia, il fraseggio insiti nel fenomeno che stai osservando. È peculiare che, malgrado questa sensibilità, non abbia invece rivolto i tuoi interessi alla composizione musicale…
La musica è una mia grande passione! Eppure, pensa, non so nemmeno leggerla…. Ma proprio questa ignoranza del sistema canonico di lettura, mi ha spinto a cercare di tradurre a mio modo ciò che sentivo, trasformandolo in opera grafica. Potrei citare, per farti un esempio, il progetto realizzato durante la mia permanenza presso la residenza d’artista a Digne Les Bains, nel sud della Francia.

Tradurre in forma grafica il suono delle mie passeggiate: ecco, io esco, sento i miei passi, poi si sente in lontananza il fiume… Tentativi di passare da una modalità sensoriale acustica alla modalità visiva del segno. Passi sul selciato, passi sulla ghiaia, passi sulla terra.

Per ogni suono ho cercato il pattern visivo più consono e corrispondente… per distinguere il canto degli uccellini mi sono avvalsa della collaborazione di un ornitologo… ad esempio Il canto dell’usignolo ha un andamento melodico marcato che ho tradotto in forme a onda punteggiate dagli squittii…

Ma ho tentato di tradurre in forma visiva anche il principio compositivo Brahmsiano realizzando un grande graffito durante l’ascolto (per più di due anni) della Quarta sinfonia.

L’altro tema fondamentale delle tue creazioni: quello della lingua che si collega agli studi di linguistica ma anche alle neuroscienze. Senz’altro chi si avvicina a te per la prima volta, rimane colpito dai “progetti sonori”. Voglio citarne due. La prima è la registrazione “Preghiera a mia madre perché muoia”. Ricordo al proposito di aver sentito questa poesia nel corso dell’intervista che ti fece su Radio Rai 3 Guido Barbieri nel programma “Stanze d’artista”. Cito testualmente dal tuo sito: si tratta di una poesia di Mariangela Gualtieri che è letta con particolari accorgimenti da una interprete che ignora la lingua italiana. L’intento è di slegare la comprensione di un testo intenso e struggente da qualsiasi aspetto legato all’emotività individuale, ma il risultato, seppur straniante alle orecchie dell’ascoltatore, inaspettatamente non spegne la tensione emotiva che accompagna l’opera”.
Il secondo lavoro si intitola “Il suono della Lingua”, opera che fa parte della collezione permanente della Fondazione Querini e che si compone di undici tomi, corrispondenti ad altrettante lingue, in cui attori madrelingua recitano poesie private del significato attraverso un particolare procedimento. Anche qui il risultato sorprendente e voluto, è che ciascun idioma è riconoscibile ed è intatta l’espressività del testo. Spiegami allora: com’è nata questa intuizione e la ricerca del suono di ogni lingua?
Ascoltavo distrattamente la radio, era Vittorio Sermonti che recitava la Divina Commedia e improvvisamente sono stata folgorata dalla bellezza del suono, dalla melodia della lingua italiana! Stavo percependo la mia lingua come puro flusso sonoro, esattamente come l’infante ascolta le conversazioni tra gli adulti in una lingua di cui ancora non comprende le singole parole ma che gli è già enormemente familiare dal punto di vista ritmico-melodico.

È una modalità percettiva che perdiamo irrimediabilmente e per sempre nel momento in cui il significato (per ovvi motivi e per fortuna!) prende il sopravvento. Per poter tornare al nostro primo approccio alla lingua ho messo a punto un dispositivo per eliminare il significato mantenendo intatto il suono, la melodia e il ritmo. Sono intervenuta sul Canto notturno di un pastore errante di Giacomo Leopardi, scambiando le consonanti tra di loro, ma mantenendo intatta e invariata metrica, sintassi e rima. Un attore l’ha quindi recitata come avesse il significato originario. Il risultato è qualcosa di completamente incomprensibile ma assurdamente familiare. Ho pertanto “ripulito” del significato, il testo, rendendone soltanto il flusso sonoro. Le lingue private del loro significato ci portano in zone remote, verso qualcosa che si era perduto, il timbro originale della lingua materna, quando la musica del suono era tutto perché il significato non aveva ancora spodestato la meraviglia del suono, del ritmo, della melodia.
Mi sembra un procedimento complicatissimo… hai avuto l’ausilio di un linguista?
No, al contrario, non è difficile! Prendi la parola “forse”, diventa “sorfe”, cioè sposti le consonanti, però mantieni inalterati tutti gli altri parametri. Alla fine, il risultato è una parola che “potrebbe” essere italiana. Ho rielaborato in questo modo ogni singola parola, un procedimento che ha suscitato l’interesse anche di eminenti linguisti, Marina Nespor, per esempio, che ha scritto un testo nel libro che è uscito per l’occasione su questo mio lavoro. Anche Andrea Moro che si è interrogato dal punto di vista delle neuroscienze per comprendere cosa si attivi nel cervello nel momento in cui si ascolta una frase sintatticamente corretta ancorché priva di significato.
In ogni caso si può dire che l’aspetto sperimentale nei miei lavori si rivela essere quasi sempre imprescindibile… Ed è sempre fonte di sorpresa e di divertimento.
Con il tuo ultimo lavoro, “Il suono di Dante”, hai voluto riprendere questo filone di sperimentazione. Mi spiace non avervi potuto assistere, lo scorso settembre, alla Fondazione Querini Stampalia. So che recentemente hai portato questa performance sonora a Berlino e a Mosca (nel mitico Teatro Electro Stanislawskij!), a New York solo in forma digitale causa covid, ottenendo ovunque consensi entusiastici…
Sì, è stata un’esperienza complessa, ma affascinante. In questo caso si è trattato, diciamo, di un dittico sonoro. Tre attori, Elettra de Salvo, Gustavo Frigerio, Savino Liuzzi (e con la collaborazione di Armand Deladoey), leggono il terzo canto dell’inferno epurato dal significato come avesse il significato originario. Subito dopo, senza alcuna interruzione, tre musicisti (violoncello, percussioni, sassofono) suonano il brano di Paolo Marzocchi, composto sulla base della prosodia della lettura del canto trasformato. A Berlino e a Mosca, rivolgendoci ad un pubblico anche non italofono, per il quale ascoltare un canto trasformato privato di significato ed un canto “giusto” non poteva fare alcuna differenza, abbiamo proposto come cappello introduttivo, l’ascolto di un frammento del canto letto da Vittorio Sermonti, accompagnato dal testo in italiano e la relativa traduzione nella lingua del paese ospitante. Dunque dalla parola alla musica… la frase semantica si “sfa” gradualmente in musica.

Attori a sinistra: Savino Liuzzi, Gustavo Frigerio, Elettra de Salvo, Musicisti a destra: Ruth Velten (Sassofono), Zoé Cartier (Violoncello), Sabrina Ma (percussioni), direttore: Arno Waschk
Direi geniale! Allora, se ho ben compreso, il video come “Studio n. 10 in Si minore op.25 Omaggio a Chopin” (in questo momento esposto nel celebre museo Chopin di Varsavia) dove due performer, sempre su tua indicazione, vengono ripresi di profilo mentre dialogano ed il sincrono dei movimenti si interfaccia perfettamente con la musica di Chopin è in qualche modo il rovescio della medaglia della performance dantesca!
Hai ragione! Non me n’ero accorta, ma è proprio così…Fin da bambina ho sempre pensato che certi brani di Chopin fossero dialoghi tra persone, non imitassero o sembrassero, ma fossero…
Però si potrebbe obiettare – è abbastanza ovvio – che vi sono letture dove il significato è essenziale per la sua comprensione.. penso alla istruzioni per assemblare un pc o un mobile Ikea! Allora penso che la tua ricerca sia indirizzata e coerente con il tuo interesse preminente per la parte emozionale della lingua, dove l’intonazione, il ritmo, la durata e l’accento del linguaggio parlato, la “prosodia” appunto parla alla parte emotiva del cervello! Quando invece ci rivolgiamo all’altra parte, quella razionale le cose cambiano. Ma qui mi fermo. Ci addentriamo nelle neuroscienze…
La mia operazione non vuole affatto negare l’importanza del significato! Non solo per le istruzioni Ikea…Nella poesia e nella letteratura la vera meraviglia consiste nell’indissolubile intreccio tra significato e suono, tra prosodia e aspetti legati al significato che le parole evocano. Il mondo dei significati presenta una ricchezza inesauribile e permea l’uomo rendendolo creatura speciale tra le creature del mondo. Ciò che m’interessa è la possibilità di tornare a una modalità percettiva perduta. Come si può negare la bellezza del suono dei verbi in –are in italiano? Come dare il senso del tempo infinito se non con il meraviglioso suffisso ARE? Camminare, andare, guardare, sognare… quando nelle poesie o nella canzoni trovo le A aperte di are, verbo all’infinito, mi si apre il varco verso il mondo del suono senza significato e dalla soglia provo una specie di vertigine. Restare in bilico tra questi due mondi è entrare in possesso di due diverse chiavi per la ricezione e la comprensione dell’unico mondo nel quale viviamo.
Mi sorge spontanea allora un’ultima domanda: ma qual è la differenza tra arte e sperimentazione?
Ma l’arte è sempre ricerca (più o meno sperimentale)! Se non lo fosse sarebbe qualcosa di morto.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!