Qualche giorno fa, Joe Manchin, il senatore democratico della West Virginia, ha dato un colpo mortale al Build Back Better Act, un disegno di legge da duemila miliardi di dollari, una parte importante dell’agenda politica del presidente Joe Biden. Quasi in aperta sfida al proprio partito, il senatore democratico ha annunciato inoltre la propria decisione in un’intervista all’odiata – dai dem – Fox News Sunday. Il voto di Manchin è determinante al Senato dove esiste una sostanziale parità, ma ai democratici viene garantita la maggioranza grazie al voto – possibile in caso di parità – della vice-presidente Kamala Harris, che presiede l’istituzione.
Manchin aveva espresso da tempo dubbi sulle dimensioni dei finanziamenti previsti dal disegno di legge. In particolare sulle conseguenze dell’inflazione attesa e sulle misure previste per la transizione verso le energie pulite, un boccone troppo amaro per il senatore di uno stato la cui economia dipende dal settore del carbone, nel quale lo stesso senatore fa affari. Il Build Back Better Act infatti prevede cinquecento miliardi di dollari in agevolazioni fiscali volte a contenere le emissioni di carbonio. Ma c’è molto altro. Il disegno di legge infatti aiuta milioni di famiglie creando una scuola materna gratuita e rafforzando l’assistenza all’infanzia; rafforza i sussidi federali per l’assicurazione sanitaria; espande l’accesso a Medicaid negli stati che non l’hanno fatto; limita gli aumenti dei prezzi dei farmaci da prescrizione; aumenta gli aiuti per gli anziani, l’alloggio e la formazione al lavoro. Quasi tutto questo verrebbe pagato con maggiori tasse sui ricchi e sulle grandi aziende.
La decisione di Manchin ha scatenato enormi polemiche in campo democratico ma ha anche sollevato nuove domande sull’approvazione di altri potenziali disegni di legge, in primis quello sull’estensione del diritto al voto – mentre si moltiplicano i tentativi delle legislature statali di limitarlo – e delle modifiche all’ostruzionismo, il processo legislativo che permette ai senatori di discutere, ritardare o addirittura impedire un voto.
La Casa Bianca ha reagito con un comunicato stampa molto duro nel quale si avvertiva che la presidenza avrebbe continuato a fare pressioni sul senatore “per vedere se cambierà la propria posizione ancora una volta, per onorare gli impegni presi ed essere fedele alla propria parola”. Biden però non ne esce bene. Vi erano state trattative dirette tra il presidente e il senatore democratico. Ma l’ottimismo della casa Bianca è stato spazzato via in pochi minuti di intervista. Una gestione che mette in difficoltà anche la maggioranza bideniana nel partito. Nei mesi scorsi infatti i centristi e il gruppo dirigente dem avevano convinto i progressives del partito ad accettare la votazione separata del disegno di legge sulle infrastrutture – passato – e il disegno di legge più sociale. La sinistra del partito infatti non si fidava di Manchin (e della senatrice democratica dell’Arizona, Kyrsten Sinema) e temeva che una separazione dei due disegni di legge potesse costare il blocco del piano di investimenti sociali per i quali si erano battuti. Rassicurati, molti di loro avevano votato a favore. I timori si sono poi trasformati in realtà.
I progressisti del partito da tempo dicevano che erano state fatte troppe concessioni a Manchin, in particolare diminuendo il costo totale del disegno di legge, passato dai quasi tremila miliardi e mezzo ai duemila miliardi di oggi. Manchin dal canto suo sostiene che al di là della diminuzione totale dei costi, poche misure siano state prese per andare incontro ai suoi desiderata. O meglio, per ricercare i voti di parte dei repubblicani, visto che il senatore dem è un sostenitore della collaborazione con i colleghi GOP.
Al momento non si sa quale possa essere il destino del disegno di legge. Ma la vicenda non riguarda soltanto il ruolo futuro di Manchin all’interno del Partito democratico. Racconta molto dei cambiamenti e dell’evoluzione dei dem in questi decenni. Lo stato della West Virginia è stato infatti un bastione dei democratici. Qui il Partito democratico ha agito per decenni come un vero e proprio partito-stato.
Dal 1933 ad oggi, i democratici hanno governato infatti per sessantotto anni, i repubblicani per venti. Dalle elezioni presidenziali del 1932 al 1996, i candidati democratici hanno vinto tutte le elezioni tranne quelle per il secondo mandato di Eisenhower (1956), per il secondo mandato di Nixon (1972) e per il secondo mandato di Reagan (1986). Anche quando i candidati democratici hanno perso, come è accaduto a Walter Mondale nel 1986 contro Reagan, la sconfitta è stata però meno ampia che in altri stati. Nella legislatura statale, entrambe le camere sono rimaste in mani democratiche dopo il 1933 per ben 82 anni. E i senatori federali del West Virginia sono stati entrambi democratici dal 1959 al 2015.
Oggi invece lo stato della West Virginia è uno stato solidamente repubblicano. O meglio, trumpiano. Ad esempio, molte delle contee che hanno respinto Reagan con un ampio margine dandogli solo il 30 o 40 per cento di voti nel 1986 hanno votato per Donald Trump con oltre il 70 o addirittura l’80 per cento dei voti. Tanto che il West Virginia è stato il secondo miglior stato vinto da Trump nelle elezioni del 2016 e del 2020 dietro solo alla roccaforte repubblicana del Wyoming. La forza di Trump è così grande nello stato che il governatore democratico eletto nel 2016, Jim Justice, ha pensato di passare dal partito che lo ha fatto eleggere al partito dell’allora presidente repubblicano.
Che cosa è accaduto?

Lo stato della West Virginia – nato dalla separazione delle contee occidentali della Virginia all’epoca della guerra di secessione – fa parte di quella regione geografica legata ai monti Appalachi che condivide anche aspetti comuni in campo sociale e politico. In parte coincidente con la Rust Belt, l’area che ha sperimentato il declino industriale dagli anni Ottanta, si sviluppa dal sud dell’Ohio passando per la Pennsylvania, poi verso il Kentucky, il Tennessee e appunto lo stato della West Virginia. Un’area ricca di risorse naturali – il carbone innanzitutto -, estremamente povera e uno dei luoghi chiave nella storia del sindacalismo statunitense.
Secondo la maggior parte degli studiosi, il passaggio dello stato dai democratici ai repubblicani, e soprattutto a Trump, è dovuto in gran parte a questioni sociali e culturali. I voti guadagnati dai repubblicani tra il 2008 e il 2016 sarebbero il risultato dell’ansia economica, della “minaccia” all’identità rurale, etnica e razziale dello stato, del populismo anti-élite (che ha anche radici nel Partito democratico).
Prima di Trump, in realtà, il solo repubblicano non in carica a vincere le elezioni nello stato fu George W. Bush nel 2000, quando Al Gore perse a sorpresa lo stato che avrebbe potuto consegnargli la presidenza.
Parte della ragione della sconfitta fu, senza dubbio, il carbone. Repubblicani e democratici legati all’industria del carbone e ai sindacati organizzarono una vera e propria campagna contro l’ambientalista Gore e le decisioni dell’amministrazione di Bill Clinton. Dopo aver raggiunto il picco nel 1998, la produzione di carbone aveva iniziato a diminuire, a causa della concorrenza del gas naturale a basso costo, dell’esaurimento delle riserve più facili da estrarre. Ma anche dei nuovi obblighi federali voluti dall’amministrazione democratica che avevano reso più severi i controlli sulle emissioni. Accanto al carbone, furono poi determinanti gli sforzi della National Rifle Association e dei gruppi antiabortisti. Con l’aumento d’importanza nazionale dei temi sociali, come il possesso di armi da fuoco e l’aborto, gli elettori della West Virginia, economicamente “liberal” ma socialmente conservatori scelsero il “cristiano rinato” Bush.
Dal 2000 nessun democratico ha più vinto quindi le elezioni presidenziali nello stato. Anzi, la situazione è peggiorata. Con la perdita dei posti di lavoro nelle industrie del carbone sono diminuite anche le adesioni ai sindacati, al spina dorsale del Partito democratico nello stato. I nuovi e duri regolamenti sul carbone dell’Agenzia per la Protezione Ambientale voluti da Barack Obama hanno colpito duramente l’economia dello stato. I sindacati che hanno sostenuto Obama nella campagna del 2008 hanno pagato il loro supporto in termini di iscrizioni, in un contesto già di declino. Il resto l’hanno fatto il gas naturale, appunto, più economico del carbone, e l’automazione del settore. La produzione di carbone è infatti diminuita del 30% dal 2010 e l’occupazione nelle miniere di carbone del 27%. Nella contea di Boone tra il 2010 e il 2015 si sono persi 4.000 posti di lavoro legati al settore di carbone in un’area dove vivevano 24.000 persone. Un disastro economico. E sociale.
Lo stato della West Virginia – così come molti altri stati della Rust Belt – si è ritrovato infatti con alcuni dei più alti tassi di disoccupazione, secondo il Bureau of Labor and Statistics. Situazione esacerbata anche dall’epidemia di oppioidi della regione. Il tasso di overdose legato all’uso di oppioidi leciti e illeciti è aumentato drasticamente nell’ultimo decennio negli Stati Uniti e l’epicentro è stato proprio il West Virginia con i più alti tassi di overdose. Dal 2010, inoltre, la West Virginia è l’unico stato che ha perso popolazione, secondo l’Ufficio del Censimento degli Stati Uniti.
Non fu quindi una sorpresa quando, alle elezioni di metà mandato del 2014, i repubblicani presero il controllo della legislatura statale per la prima volta in 83 anni e, a livello nazionale, conquistarono anche i tre seggi dello stato alla Camera per la prima volta dal 1921. Con la vittoria dei repubblicani, iniziarono però anche i cambiamenti alle leggi sul lavoro e in particolare sulla rappresentanza sindacale per favorire il ritorno della produzione, nel frattempo spostatasi in aree come il Wyoming, dove i sindacati erano meno forti. Grazie all’aiuto repubblicano, le compagnie rimaste in West Virginia hanno fatto poi il resto, appaltando la produzione a lavoratori non sindacati, indebolendo ulteriormente il potere dei sindacati statali.
È in questo contesto che arriva Donald Trump che promette che “i minatori della West Virginia, della Pennsylvania e dell’Ohio” che “ricominceranno a lavorare”. Le sue promesse di riportare i posti di lavoro nelle fabbriche, rivitalizzare l’industria del carbone e adottare politiche commerciali protezionistiche gli portano il consenso degli elettori. Complice anche la gaffe di Hillary Clinton che in uno slancio ambientalista fece campagna nello stato promettendo di mettere fuori gioco “molte compagnie del carbone” e “molti minatori”.

Una storia complessa quella dello stato della West Virginia, ma esemplare dei processi di ri-allineamento dei due partiti lungo l’asse destra-sinistra. La progressiva scomparsa dei conservatori nel Partito democratico e il conseguente spostamento a sinistra (e a destra da parte dei repubblicani) hanno però conseguenze. Soprattutto nel sistema federale statunitense. Il Partito democratico oggi rappresenta sempre più la popolazione liberal e progressista del paese. Ma sempre meno quegli elettori conservatori ex democratici, che risiedono in stati che possono essere fondamentali per vincere le elezioni presidenziali oppure ottenere il controllo del Senato.
In questo quadro s’inserisce la famiglia Manchin, una vera e propria dinastia politica nel piccolo stato di montagna. Il senatore è infatti originario di Farmington, una piccola città mineraria della West Virginia. Il nonno Giuseppe Mancini, calabrese, era immigrato negli Stati Uniti nel 1904. Qui a soli undici anni cominciò a lavorare nelle miniere di carbone e partecipò alla creazione di un sindacato locale. Successivamente aprì un’officina di riparazioni auto e poi una drogheria. I nonni materni di Manchin venivano invece dalla Cecoslovacchia. Sindacati, lavoratori nelle miniere, famiglie cattoliche e di immigrati erano parte della coalizioni rooseveltiana che consentì ai democratici di esercitare il potere per lungo tempo, tenendo uniti gli interessi dei progressisti e degli immigrati del nord con il sud segregazionista.
La politica entra a far parte della vita dei Manchin da subito. Lo zio del senatore era un figura nota del Partito democratico dello stato. È grazie a lui, si dice, che John Kennedy vinse le primarie democratiche nello stato. Quando l’attuale senatore Manchin entra in politica, nel 1982, lo fa dalla porta principale, anche se la storia della famiglia è una storia molto rappresentativa del mito americano della terra delle opportunità. Joe Manchin viene eletto alla Camera dei deputati dello stato nel 1982, poi nel 1986 passa al Senato statale. In questi anni comincia il suo business con la Enersystems coal brokerage, l’azienda di famiglia che si occupa di intermediazione nella vendita del carbone. È considerato già allora un democratico conservatore: contro l’aborto e a favore del porto d’armi, più orientato al business che ai sindacati. Non si tratta però di una mosca bianca ma della realtà del Partito democratico nel Sud e nel Deep South. Qui la componente “liberal” del partito è molto ridotta, mentre moderati e conservatori la fanno da padroni. Tuttavia in molti stati della regione dell’Appalachia, l’unità di sindacati e democratici conservatori consente ai dem di essere imbattibili. Questa capacità dei democratici di tenere uniti liberal e conservatori, soprattutto nel Sud del paese ha consentito al Partito democratico di conservare il controllo della Camera dei rappresentanti dal 1931 fino al 1995 (tranne quattro anni) e di vincere in stati che oggi sono considerati bastioni repubblicani (vedi il Texas).
Manchin lancia la propria carriera politica anche in opposizione interna ai sindacati ed è stato sempre considerato come un candidato degli interessi commerciali. Questo fu un problema in occasione delle primarie per la scelta del candidato governatore nel 1996. I sindacati infatti si schierarono con la sua avversaria, Charlotte Pritt, figlia di minatori di carbone, insegnante ed espressione dell’area liberal del partito. Manchin conduce un campagna molto negativa contro Pritt, su tematiche conservatrici, e perde le primarie. Tuttavia la candidata liberal sarà sconfitta, anche dopo il rifiuto di Manchin di appoggiarne la candidatura. Il futuro senatore diventa poi governatore dello stato nel 2005 ed è noto per il potere che esercita sul partito statale, dalla scelta del presidente del partito alle candidature. Quando si candida a senatore federale nel 2010, Manchin conta su una macchina politica ben rodata che tende a premiare i moderati dem dello stato. Anche se forse è sbagliato parlare di moderati dem in questo caso. Come è stato sottolineato più volte, Manchin è un West Virginia Democrat. Non è solo questioni di avere posizioni più conservatrici sui temi sociali. È il prodotto di una “macchina politica” profondamente radicata nello stato che lo porta ad essere al Senato in testa alla classifica dei finanziamenti ottenuti dalle aziende del settore del combustibile fossile.
Oggi il senatore Manchin è ciò che resta dell’onnipotente Partito democratico statale. Ma è anche il simbolo delle scelte che il Partito democratico si troverà ad affrontare. Smettere di guardare alla Rust Belt – e ai lavoratori dipendenti bianchi – e concentrarsi sugli Stati del Sud e dell’West che stanno cambiando demograficamente e rapidamente? Oppure cercare di vincere, mantenendo unita una coalizione dai liberal di New York ai conservatori del West Virginia? Per ora sembrano aver scelto la seconda strada. E Manchin è là per ricordare loro che questa strategia, già in crisi, potrebbe non sopravvivere al trumpismo.


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