Sono almeno cinquantasette le persone candidate per una carica a livello federale, statale o locale che hanno partecipato all’assalto a Capitol Hill il 6 gennaio dello scorso anno. Secondo Politico, che ha riportato per primo la notizia, non è nemmeno una novità. Già l’anno scorso sono state undici le persone che hanno partecipato all’assalto e che sono state poi elette a varie cariche, dalla legislatura statale al consiglio comunale, al consiglio scolastico.
Tra gli assalitori del 6 gennaio, più di venti sono in corsa per il Congresso, la legislatura statale o una carica statale. E tra questi ve ne sono due che sono effettivamente entrati nell’edificio del Campidoglio. Inoltre, almeno cinque di loro si stanno preparando per gare governatoriali. È il caso di Doug Mastriano, un senatore statale della Pennsylvania e uno dei leader nel movimento nazionale che grida alle frodi nelle elezioni del 2020. Di tutti questi candidati almeno tre devono anche far fronte a dei processi per quegli eventi.
Il 2022 è però un importante anno elettorale. A novembre si terranno le elezioni di metà mandato e la posta in gioco è alta. Si deciderà infatti il controllo della Camera dei rappresentanti e del Senato. Ma anche chi sarà il governatore in trentasei dei cinquanta stati. Storicamente, queste elezioni vanno molto bene per il partito che non è alla Casa Bianca. E vi è qualche timore, anche in campo repubblicano, che il “mito della vittoria rubata”, che Trump e i suoi accoliti al Congresso e a Fox News continuano a ripetere, potrebbe consegnare il potere legislativo del paese nelle mani di un Partito repubblicano, se possibile, ancor più trumpiano.
Oggi, questo mito, sostenuto da teorie del complotto, sembra aiutare e non danneggiare il partito. È il caso di Joe Kent, un candidato repubblicano per il Congresso nello stato di Washington. Kent ha raccolto più di un milione di dollari per la sua campagna, più di qualsiasi sfidante non in carica alla Camera nello stato. Non è un caso: Kent ha fatto del mito delle elezioni rubate il messaggio principale della sua campagna. Kent insiste che Trump ha vinto e ritiene il repubblicano Loren Culp “il vero governatore” dello stato di Washington. Anche se Culp ha perso contro il democratico Jay Inslee nel 2020 con un margine di 545.000 voti. Ma Kent ritiene che 400.000 voti siano stati aggiunti in maniera fraudolenta.
Secondo The Guardian, la presenza di candidati estremisti sarebbe però il frutto di una strategia. Con questo obiettivo sarebbero in prima linea impegnati due alleati chiave di Trump: Steve Bannon e Michael Flynn. I due starebbero concentrando le loro forze nel reclutare alleati per posti chiave a livello locale e distrettuale, per costruire alleanze politiche su questioni come i vaccini obbligatori e l’obbligo di mascherina. Bannon, ex consigliere politico di Trump, e Flynn, ex consigliere per la sicurezza nazionale del presidente repubblicano, dimessosi ventidue giorni dopo l’assegnazione dell’incarico per aver mentito sui suoi colloqui con un diplomatico russo, sono stati graziati da Trump dopo le elezioni presidenziali del 2020. Flynn ha anche prestato “giuramento” alla teoria del complotto QAnon e suggerito al presidente, mentre cercava di ribaltare i risultati delle elezioni, di sospendere la costituzione, mettere a tacere la stampa e tenere una nuova elezione sotto l’autorità militare.
Al di là dei candidati più radicali, i repubblicani stanno comunque affrontando primarie sempre più affollate in vista della scelta dei candidati per le varie competizioni elettorali di novembre. E sempre più dure. In alcuni stati – Georgia, Arizona, Michigan, Nevada, Pennsylvania e Idaho – le primarie per la candidatura a governatore stanno diventando soprattutto un test di fedeltà all’ex presidente Donald Trump.

In Georgia il governatore Brian Kemp, che vinse nel 2018 delle elezioni molto contestate contro la democratica Stacey Abrams, si trova a fronteggiare la candidatura dell’ex senatore David Perdue, sconfitto ad inizio anno dai democratici. Una vittoria storica che ha assicurato la “maggioranza” dem al Senato. Kemp, un tempo fedele sostenitore di Trump, è caduto in disgrazia presso l’ex presidente repubblicano per non aver impedito il risultato favorevole a Biden, che ha consegnato lo stato ai dem nel conteggio per il collegio elettorale. Sostenuto da Trump, Perdue ha dichiarato che se fosse stato governatore dello stato non avrebbe certificato i voti a favore di Biden.
In Arizona, le primarie per la scelta del candidato governatore vedono sei persone in lizza. E tra queste Kari Lake, un’ex anchorwoman e sostenitrice di teorie del complotto. Anche Lake è sostenuta da Trump. Un appoggio che ha portato la candidata al primo posto nei sondaggi, anche se più della metà degli elettori delle primarie rimangono indecisi.
In Michigan sono invece dodici i repubblicani che aspirano alla candidatura a governatore per sfidare la democratica Gretchen Whitmer. Nel febbraio del 2020, l’allora presidente Trump si era schierato con i manifestanti – alcuni dei quali erano armati – nell’assalto alla legislatura statale (“Liberate Michigan”). Mesi dopo Whitmer era scampata al rapimento da parte di estremisti di destra. Dei candidati repubblicani in Michigan, la metà ritiene che Biden abbia vinto le elezioni in maniera fraudolenta.
Anche nelle primarie repubblicane della Pennsylvania per il governatore, i candidati cercano il sostegno di Trump, mettendo in dubbio la lealtà degli altri nei confronti dell’ex presidente. In che modo? Si accusano reciprocamente di non aver fatto abbastanza per sostenere la battaglia dell’ex presidente repubblicano contro le “presunte” frodi.
In Idaho, Trump sostiene la vice governatrice in carica Janice McGeachin, in corsa contro l’attuale governatore repubblicano Brad Little. McGeachin ha spesso combattuto con Little, arrivando al punto di emettere ordini esecutivi che vietavano maschere e obblighi di vaccinazione, mentre Little era fuori dallo stato. Little è un conservatore repubblicano che ha firmato leggi che vietano alle donne transgender di competere negli sport femminili e l’aborto dopo che un battito cardiaco fetale viene rilevato.
Ma Trump non è presente soltanto nelle primarie governatoriali. Anche in quelle per il senato federale l’ex presidente cerca di far sentire la propria voce in opposizione ai repubblicani tradizionali. In North Carolina, ad esempio, dove ha scelto il deputato Ted Budd contro l’ex governatore Pat McCrory, sostenuto dalla leadership repubblicana.
E in Alaska. Qui, Trump ha deciso di appoggiare Kelly Tshibaka contro la repubblicana Lisa Murkowski. Murkowski è una dei sette repubblicani al Senato che hanno votato per la condanna di Trump nel secondo processo di impeachment a febbraio.
Posizioni quelle di Trump che serviranno per misurare la forza del presidente in vista di un possibile ritorno nel 2024. Sostegni che lo hanno messo in rotta di collisione anche con il suo ex vicepresidente Mike Pence, che ha detto ai governatori repubblicani in carica a novembre che li avrebbe sostenuti, e con il Senate Leadership Fund, un super PAC allineato con il leader della minoranza al Senato Mitch McConnell, che sosterrà i senatori in carica.
Un quadro che la dice lunga sulla forza di Donald Trump all’interno del Partito repubblicano. Che non sembra essere diminuita dopo gli eventi del 6 gennaio e il secondo impeachment. Anzi. Una quota considerevole di repubblicani ritiene vera la teoria della cospirazione che il 6 gennaio sia stata un’operazione di false-flag perpetrata dai democratici (il 41 per cento secondo un sondaggio YouGov/CBS News). Secondo una recente indagine di Npr/Ipsos, due terzi degli elettori repubblicani ritiene che le elezioni siano state “rubate“ a Trump.
E se qualche politico repubblicano cerca di deviare dalla linea trumpiana, viene messo subito in riga. È quello che è accaduto all’ultraconservatore senatore del Texas Ted Cruz.

Durante un’udienza al Senato per ricordare gli eventi del 6 gennaio, Cruz ha dichiarato che gli Stati Uniti avevano subito l’anno precedente un “violento attacco terroristico”, quando gli assalitori hanno dato la carica contro la polizia e invaso Capitol Hill. Il senatore del Texas ha ripetuto quello che aveva già detto l’anno precedente. Anche se poi, assieme ad altri – pochi – senatori repubblicani aveva votato per ribaltare i risultati in Arizona e Pennsylvania.
Tuttavia, la reazione alle sue parole è stata questa volta diversa. Segno dei tempi. Il giorno dopo infatti Tucker Carlson, uno dei maggiori “editorialisti” di Fox News, ha rimproverato Cruz per la presa di posizione che, pensa, scorretta. Carlson da mesi cerca di sminuire l’assalto Campidoglio. A novembre un suo “documentario”, in onda sui canali della Fox, ha descritto gli eventi del 6 gennaio come un’operazione di false-flag, preparata dal Deep State. A settembre inoltre in un processo contro Carlson per calunnia, la giudice distrettuale Mary Kay Vyskocil, nominata da Trump, ha dichiarato che il tenore generale dello show di Carlson è sufficiente a informare uno spettatore che Carlson non sta “affermando fatti reali sugli argomenti che discute ma si sta invece impegnando in esagerazioni e commenti non letterali”. Un’affermazione della giudice che si appoggia sugli argomenti stessi forniti dagli avvocati della Fox. In breve: non si può credere letteralmente alle parole che escono dalla bocca di Carlson. Ma nonostante questo il suo show “giornalistico“ va in onda.
La dimostrazione del potere di Carlson e di Fox sull’elettorato repubblicano l’ha data però lo stesso Cruz. Dopo gli attacchi del presentatore, il senatore del Texas ha chiesto di apparire nella trasmissione di Carlson per dire che “il modo in cui ho formulato le cose è stato approssimativo, ed è stato, francamente, stupido”. Un autodafé che Carlson però non ha accettato: “non le credo”, ha detto rivolto al senatore che si sforzava di separare “il numero limitato di persone” che hanno preso d’assalto il Campidoglio dalle “migliaia di pacifici manifestanti che protestavano a sostegno di Trump”.
Un contrasto quello tra Carlson e Cruz che fornisce un’idea del processo di radicalizzazione del Partito repubblicano, dei meccanismi che favoriscono il trumpismo e il ruolo che Fox News sta svolgendo. Una radicalizzazione dalla quale Trump spera di trarre vantaggio. Perché la polarizzazione dovrebbe favorire una maggiore partecipazione dei suoi sostenitori. Senza i quali i repubblicani non trumpiani – se ormai ve ne sono – avranno difficoltà a vincere in molti stati.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!