“Noioso e senza carisma” è il giudizio lapidario di Donald Trump nei confronti di un suo ex fedele alleato, il governatore della Florida Ron DeSantis. Un attacco dell’ex presidente contro un esponente della nuova classe politica repubblicana, in corsa per la rielezione. Trump sarebbe irritato dal fatto che DeSantis non abbia ufficialmente escluso la corsa per la nomination repubblicana per le elezioni presidenziali del 2024, un appuntamento verso il quale il percorso dell’ex presidente sembra al momento non avere molti ostacoli davanti a sé.
Alle critiche fatte trapelare alla stampa e non smentite, Trump ha fatto seguire anche un’intervista a One America News Network, il canale via cavo di estrema destra. Nell’intervista l’ex presidente ha definito come “politici senza palle” tutti coloro che si rifiutano di dire se hanno ricevuto il booster del vaccino contro il Covid-19. Ha quindi “invitato” questi politici a dichiarare se hanno ricevuto la terza dose. Anche se Trump non ha menzionato DeSantis direttamente, nelle ultime settimane il governatore della Florida ha evitato le domande sulla terza dose, fornendo risposte ambigue.
Molti possibili candidati alle presidenziali del 2024 hanno già dichiarato che non si presenterebbero qualora Trump si candidasse: dalla governatrice del South Dakota Kristi Noem ai senatori della Florida Marco Rubio e Rick Scott, dal senatore Tim Scott (South Carolina) a Josh Hawley (Missouri), dall’ex segretario di Stato Mike Pompeo ai senatori Ted Cruz (Texas) e Tom Cotton (Arkansas). Dei potenziali contendenti repubblicani, solo due non hanno esplicitamente escluso la candidatura nel caso in cui Trump si dovesse presentare: l’ex vicepresidente Mike Pence e appunto DeSantis.
Ma è DeSantis a impensierire Trump. In due sondaggi realizzati tra supporter repubblicani durante la conferenza annuale CPAC, che riunisce attivisti e politici conservatori del partito, Trump è arrivato in testa in uno. Nell’altro, senza la possibilità di scegliere Trump, è stato DeSantis a risultare il preferito. Il governatore della Florida ha anche ottenuto il 21 per cento nel sondaggio dov’era presente Trump: l’unico candidato diverso dall’ex presidente a ottenere un risultato a due cifre. In un sondaggio nazionale della Reuters, invece, pubblicato alla fine di dicembre, DeSantis era l’unico potenziale candidato diverso da Trump a raggiungere la doppia cifra, anche se il suo 11 per cento era molto lontano dal 54 per cento dell’ex presidente. Lo stesso sondaggio ha dimostrato che otto elettori repubblicani su dieci sapevano chi fosse DeSantis e il 66 per cento ne aveva un’opinione favorevole.
Si tratta pertanto dell’unico politico repubblicano che attualmente potrebbe rappresentare un problema per Donald Trump in vista del 2024. Soprattutto perché il governatore repubblicano cerca di impostare la propria candidatura più a destra dell’ex presidente. Dagli attacchi alla Critical race theory e alla cultura “woke”, dalla difesa delle restrizioni al voto all’insegnamento, DeSantis si è differenziato dall’ex presidente repubblicano, assumendo posizioni più radicali.
Ma è sul Covid-19 che Trump appare più debole rispetto all’appeal di DeSantis. Nel suo discorso sullo stato dello Florida, il governatore ha dichiarato infatti che:
La Florida è diventata la via di salvezza per coloro che sono infastiditi dagli obblighi e dalle restrizioni autoritarie, arbitrarie e apparentemente senza fine.
DeSantis ha aggiunto che la Florida è ora “lo stato più libero degli Stati Uniti”. Qualche giorno prima, senza nominare Trump, durante la registrazione del podcast Ruthless, aveva anche criticato la gestione iniziale della pandemia da parte dell’ex presidente.
Secondo il governatore infatti l’amministrazione avrebbe ascoltato troppo il dottor Anthony Fauci, direttore del Centers for Disease Control. Ha anche aggiunto che uno dei suoi più grandi rimpianti è stato quello di non aver parlato con maggiore forza nel marzo 2020, quando Trump aveva consigliato agli americani di rimanere a casa per rallentare la diffusione del coronavirus. DeSantis aveva imposto controvoglia il lockdown alla Florida per alcuni mesi, ma è stato uno dei primi governatori a togliere le restrizioni a metà del 2020. Durante l’ondata della variante Delta, DeSantis ha anche proibito alle aziende e alle agenzie governative di richiedere i vaccini per i propri dipendenti e alle scuole di obbligare gli studenti all’uso della mascherina.

Più DeSantis sfida le soluzioni convenzionali alla pandemia di Covid-19 – “Noi avevamo ragione e loro avevano torto”, ha dichiarato -, più mette in difficoltà Trump. L’ex presidente infatti sembra stia cercando da tempo di cambiare la narrazione sulla gestione della pandemia da parte della sua amministrazione. Trump ha recentemente dichiarato che il vaccino impedisce alle persone di essere ricoverate in ospedale o di morire per la malattia. Un risultato che secondo l’ex presidente sarebbe frutto anche dei suoi sforzi per accelerare la ricerca sul vaccino. In un’intervista con Candace Owens, una personalità dei media di destra, l’ex presidente ha anche detto che “il vaccino ha funzionato” e ha respinto tutta una serie di teorie della cospirazione.
Nonostante queste dichiarazioni, Trump comunque non ha incoraggiato la propria base a farsi vaccinare. Ma a qualcuno dei suoi sostenitori questo cambio di marcia non è piaciuto. A dicembre, l’ex presidente è stato fischiato dal pubblico a un suo evento, dopo aver rivelato di aver ricevuto la terza dose. Da qui gli attacchi di Trump ai politici che non dichiarano se hanno ricevuto la terza dose, come DeSantis.
La posizione più radicale del governatore della Florida sembra piacere soprattutto a una parte dei social media conservatori coinvolti nel movimento anti-vax e che minimizzano l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. DeSantis ha anche ospitato alcune celebrità di questo mondo conservatore a Tallahassee. Molti di questi sono stati ferventi sostenitori di Trump nel passato. Ma oggi il rifiuto del governatore di rendere obbligatori vaccini e mascherine e le critiche costanti e durissime al presidente Joe Biden sembrerebbero avere fatto breccia in un gruppo essenziale per DeSantis al fine di espandere ulteriormente la propria influenza.
Al di là di DeSantis, quello che sembra chiaro è che il trumpismo, nei contenuti e nello stile di leadership, non è più un corpo estraneo al Partito repubblicano, come poteva apparire nel 2016. Anzi. Il vantaggio di molti giovani politici repubblicani è quello di propagandare le stesse idee dell’ex presidente repubblicano, senza tuttavia quegli aspetti più aspri propri della personalità di Trump. E forse per questo anche più efficaci, almeno nel futuro, una volta che la stella di Trump si sarà eclissata.
Se è vero che la presenza di Trump è un ostacolo per l’affermazione di questa nuova classe dirigente, tuttavia il peso dell’ex presidente nel partito è indicativo del percorso che ormai i repubblicani sembrano aver intrapreso. Nonostante infatti la sconfitta, Trump è in una posizione molto più forte di quanto i suoi critici vogliano ammettere. Non solo infatti ha ottenuto quasi dodici milioni di voti in più rispetto al 2016, stabilendo un record per un candidato repubblicano. Ma è stato a un passo dalla rielezione per soli 42.918 voti in totale provenienti da tre Swing States. Malgrado la bassissima popolarità, l’alta partecipazione elettorale dei Democratici e i sette miliardi di dollari spesi per sconfiggerlo.
Di norma, il presidente sconfitto esce di scena e il partito cerca di re-impostare la propria strategia, prendendo atto degli elementi che ne hanno portato alla sconfitta. L’ultima volta era successo nel 2012 con la sconfitta di Mitt Romney. La situazione è invece molto diversa oggi. Persone fedeli a Trump stanno cercando di ottenere il controllo delle posizioni elettorali chiave. Molti aspiranti a cariche o che già ne hanno una evitano di attaccare l’ex presidente poiché sarebbero vulnerabili in primarie nelle quali gli attivisti repubblicani ne segnerebbero quasi certamente la morte politica.
La base del partito infatti rimane fedele all’ex presidente. E non solo la base. I sondaggi indicano che circa due terzi degli elettori repubblicani credono che l’elezione di Joe Biden sia stata illegittima. E sono ormai molto pochi i candidati alle elezioni di metà mandato che non sostengano che la vittoria democratica sia avvenuta tra diffusi brogli elettorali. Come ha sottolineato inoltre FiveThirthyEight, i repubblicani a livello federale e statale mantengono le posizioni di Trump sulle questioni dell’identità e della razza, che sono una grande parte della ragione per cui il partito ha difficoltà a crescere con gli elettori delle minoranze e con i bianchi che hanno un titolo di laurea.
In realtà, mentre i Democratici si ostinano a bollare – e a ragione – il trumpismo come l’espressione temporanea e, allo stesso tempo, reazionaria e radicale del Partito repubblicano, i repubblicani guardano ai mutamenti in corso come una nuova fase del partito.

L’ha illustrato qualche tempo fa il deputato Jim Banks in un promemoria per Kevin McCarthy, il leader del partito alla Camera e probabile futuro Speaker, se i democratici dovessero perdere le elezioni di metà mandato. Banks, che guida il comitato repubblicani di studi alla Camera, ha consegnato un rapporto dal titolo indicativo: “Cementing GOP as the Working-Class Party”, ovvero “Consolidare il Partito repubblicano come il partito delle classi popolari. Dice inflate Banks che
Alcune professioni hanno sostenuto in modo schiacciante il presidente Trump nel 2020. Tra coloro che hanno donato alla campagna presidenziale: il 79 per cento dei meccanici ha fatto donazioni a Trump, il 21 per cento a Biden; il 60 per cento dei piccoli imprenditori ha donato a Trump, il 40 per cento a Biden; e il 59 per cento dei custodi ha fatto donazioni a Trump, il 41 per cento a Biden. [….] Il 94 per cento dei professori universitari ha fatto donazioni a Biden, il 6 per cento a Trump; l’86 per cento dei professionisti del marketing ha donato a Biden, il 14 per cento a Trump; il 73 per cento dei banchieri ha donato a Biden, il 27 per cento a Trump.
Un cambiamento epocale secondo Banks. Se infatti nel 2012, “Wall Street” ha contribuito con circa sei milioni di dollari alla campagna di rielezione di Barack Obama e ha dato più di tre volte quella cifra a Mitt Romney, nel 2020 ha donato quattro volte di più a Joe Biden che a Donald Trump. “Un’inversione di paradigma”, come lo definisce, che nel sistema del Collegio elettorale per l’elezione del presidente, rende competitivo il Partito repubblicano che, per rappresentazione demografica, è in declino. Aggiunge poi il rapporto che il successo elettorale del partito
[…] sarà determinato dalla nostra volontà di abbracciare la nostra nuova coalizione. I repubblicani della Camera possono ampliare il nostro elettorato, aumentare l’affluenza alle urne e riprendersi la Camera ribattezzando e riorientando con entusiasmo il Partito delle classi popolari.
Pertanto il Partito repubblicano deve mettere in evidenza “l’elitarismo culturale ed economico che anima il Partito democratico” e “abbracciare l’agenda che ha differenziato il presidente Trump nel 2016 e completarla con nuove idee”. Quell’agenda che ha ruotato attorno alle politiche per riportare la produzione negli Stati Uniti e creare dei posti di lavoro americani (e per gli americani, bianchi sarebbe da aggiungere):
Per troppo tempo entrambi i partiti hanno sostenuto l’esternalizzazione di posti di lavoro all’estero in nome della crescita economica. La verità è che i lavoratori americani hanno perso i loro posti di lavoro, mentre i pochi già ricchi hanno approfittato di questo declino. Abbiamo bisogno di esporre la fedeltà dei Democratici a questi ricchi. E dobbiamo contrastare l’abbraccio dei Democratici alla globalizzazione, sviluppando un serio e espansivo programma politico Made in America.
Banks indica anche i temi dell’agenda trumpiana del partito: linea dura sull’immigrazione; politiche commerciali protezioniste verso la Cina; lotta al “wokismo”; contrapposizione tra “Main Street” e “Wall Street”, utilizzando l’esempio dei lockdown per limitare la diffusione del Covid-19 come espressione della volontà dei Democratici di danneggiare la classe lavoratrice; e infine la promozione di politiche contro il Big tech per arrestare i tentativi di soppressione delle idee dei conservatori nei social media.
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Che sia Trump o un altro a rappresentare il Partito repubblicano nel 2024, il sisma politico dell’elezione del 2016 non sembra essere un’eccezione. È probabile che diventi la normalità. Con conseguenze tutta da verificare per la democrazia americana.


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