[seconda parte della conversazione]
Stranizza d’amuri (oltre che il titolo di una deliziosa canzone di Franco Battiato) è espressione siciliana che sta per innamoramento, considerato una forma di straniamento. “Nella teoria della letteratura, effetto di sconvolgimento della percezione abituale della realtà, al fine di rivelarne aspetti nuovi o inconsueti, che il narratore induce nel lettore attraverso varî procedimenti narrativi e stilistico-linguistici, quali il riferimento esplicito al tempo della narrazione e non solo a quello della vicenda narrata, e soprattutto l’azione sul linguaggio, con scarti dalla norma che mettono in questione i meccanismi della lingua stessa” (Vocabolario Treccani). Questo è sentimento radicale residente in tutti i siciliani, anche quando cercano di recidere il cordone ombelicale che li lega a una terra che non è mai solo d’origine, neanche quando si decide di vivere altrove acquisendo cittadinanze multiple.
Questo è il tema di una serie di conversazioni che pubblichiamo per celebrare il grande scrittore Vincenzo Consolo, raffinato scrittore, attento studioso e osservatore del passato nel presente, premessa del futuro. Siciliano di nascita e milanese d’adozione è mancato a noi tutti il 21 gennaio di dieci anni fa. Per celebrarlo è stato organizzato un denso un programma internazionale di appuntamenti culturali (tra incontri, pubblicazioni, conferenze, presentazioni di libri, spettacoli, proiezioni per le scuole) appositamente pensati e organizzati per ricordare il grande scrittore coordinato da Ludovica Tortora de Falco (presidente di Arapán Film Doc Production e autrice del docufilm L’isola in me: in viaggio con Vincenzo Consolo che ci offre inediti sguardi e traiettorie d’autore sull’isola e di riflesso sull’autore stesso). Il MESE CONSOLO – che inizia il 21 gennaio, giorno della morte, si conclude avanti/indietro il 18 febbraio, giorno della nascita – si tiene in Sicilia e in continente ed è con la partecipazione e la condivisione di Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori (FAAM) e dell’associazione Amici di Vincenzo Consolo (fondata per volontà di Caterina Pilenga, moglie dello scrittore a cui su suo invito aderii subito incondizionatamente). Il nostro contributo, collaterale rispetto al MESE CONSOLO, consiste in una serie di conversazioni sulla stranizza d’amuri che lega i siciliani a un’isola che non dà isolamento, anzi, è sempre stata un ponte tra civiltà e culture che si sono susseguite generando una complessa e variegata identità ibrida e multiforme.

La prima di queste conversazioni è con Nino Bertoloni Meli, nipote di Vincenzo Consolo, che ringraziamo per questa chiacchierata intorno alle radici familiari e regionali. Partiamo da un tema rognoso: quello del suo rapporto da siciliano con la dimensione mafiosa che è fenomeno radicato nell’isola grazie a un controllo capillare del territorio rurale prima e poi anche delle aree urbane. La mafia è malavita, corruzione, affari, ma anche ascensore sociale grazie al quale figure marginali della comunità acquistano visibilità e crescente “rispetto”. Quando si vede un giovane accompagnarsi a un mafioso (tutti sanno chi lo è e chi no) si comincia a prestare attenzione; all’inizio i giovani si accompagnano ai boss ma si tengono a rispettosa distanza quando questi parlano ad altri affiliati di pari grado, poi pian piano salendo di grado può star vicino e gli viene concesso di intervenire, è allora che gli si possono indirizzare richieste di favori o d’intervenire a dirimere contrasti. Quella del mafioso di calibro non è arroganza ostentata, non ne ha bisogno, perché il peso del suo ruolo “sociale” non è in discussione. Qual era il rapporto di tuo zio con la mafia? Hai ricordi di suoi racconti?
A dieci anni dalla morte di mio zio è stato encomiasticamente organizzato un programma delle attività per ricordarlo a Milano, Catania, Palermo, Sant’Agata di Militello, ecc. Il programma è molto interessante e spazia dagli spettacoli teatrali alla presentazione di testi di critica letteraria a tavole rotonde, e si svilupperà tra il 21 di gennaio (data della morte) e il 18 febbraio (data della nascita). Mi pare però manchi proprio l’argomento che hai voluto introdurre, probabilmente si è preferito mettere l’accento sul fronte della letteratura. L’impronta che lo zio ha voluto dare a questo tema è importante ed è una lacuna che mi dai modo di colmare. Si può partire dal famoso articolo di Sciascia sui professionisti dell’antimafia che gli procurò anatemi, critiche, scomuniche. In quell’occasione l’unico intellettuale a difenderlo fu Vincenzo Consolo. All’epoca non ero solo un nipote a lui molto legato ma anche un militante/militonto (viene da dire oggi pensando alle ingenuità per l’idealismo tipico di quell’età) e quindi parlavamo spesso di questioni politiche e sociali. Ero perplesso per quella presa di posizione e gli dissi “ma con tutti quelli con cui c’è da prendersela, proprio chi lotta contro la mafia doveva attaccare?” e lui mi rispose “Nino guarda che accusare Sciascia di fiancheggiamento o di mafiosità è una cosa obbrobriosa, non è ammissibile, Sciascia è lo scrittore che per primo ha portato il tema in letteratura ed è quindi anche grazie a lui che conosciamo la mafia, prima si diceva che la mafia non esisteva, poi ha assunto crescente evidenza”. Come ricorderai, la polemica andò avanti per tanto tempo. Tre anni fa andai a Milano per un convegno su mio zio e trovai lì una serie di amici anche di famiglia, da Nando Dalla Chiesa a Corrado Stajano, e proprio Stajano (che era uno degli amici stretti, metà siciliano e metà cremonese, anche se mio zio diceva che la sua metà siciliana la occultava) quando prese la parola raccontando che in seguito a quella polemica sui professionisti dell’antimafia la loro amicizia ne aveva sofferto, i rapporti si raffreddarono e non si parlarono per anni. Corrado proseguì rivendicando di avere avuto ragione e lo zio torto, insomma proprio non ci siamo.
Da allora ne abbiamo viste e sentite di tutti i colori, con professionisti dell’antimafia che si è scoperto di lettura essere professionisti della mafia, confermando che ci sono cose che non tornano. Lo zio non sopportava personaggi che andavano sopra le righe e parlavano di mafia per motivi politici e di carriera, non sopportava Leoluca Orlando che ebbe l’ardire di scomunicare Falcone in diretta tv perché aveva lasciato la procura di Palermo e se n’era andato a Roma al ministero di grazia e giustizia, non sopportava l’Orlando-gesuiti, dove vedevano gesuiti lui e Sciascia subito pensavano alle soperchierie di cui sino macchiati, alle persecuzioni, non a caso uno degli scritti più forti di Sciascia è Morte dell’inquisitore dove il frate eretico di Racalmuto Diego La Matina uccide il suo inquisitore spagnolo Juan Lopez de Cisneros, vicenda metaforica. Insomma, non sopportava tutto questo ambiente palermitano che si era creato intorno alla mafia in cui si decideva quello è mafioso e l’altro non lo è, si arrivò a insinuare dubbi anche sull’integrità di Macaluso, per via delle “coop. rosse”. Per non parlare di Michele Pantaleone che fu uno dei primi autori che scrisse di mafia, autore già negli anni Sessanta di libri come Mafia e Politica (1962) o Antimafia: occasione mancata (1969) e poi di dodici altri libri, oltre che di oltre cinquemila articoli e un migliaio di conferenze molte delle quali nelle scuole. Insinuarono che era quasi quasi imparentato e sembrava dimostrarlo quella cicatrice che gli segnava il viso e che in effetti era vera, se l’era procurata avendo protestato a un comizio di don Calogero Vizzini capomafia di Villalba.

Per il lettore non siciliano bisogna chiarire che si usava ferire al volto con un coltello, sfregio per antonomasia e punizione esemplare ed evidente, quasi un timbro, un marchio. In dialetto tagghiata di facci è sinonimo di sgarbo e sgarro, io stesso ne ricordo di persone con segnate da cicatrici in viso.
Ricordo un episodio che indignò mio zio oltre misura tanto che nel 1991 scrisse una violenta presa di distanza che fu pubblicata sulla rivista Linea d’ombra di Goffredo Fofi perché, mi disse, aveva avuto difficoltà con i quotidiani con i quali collaborava (dal Corriere della Sera al Messaggero, dall’Unità a Avvenire, da L’ora a Euros e altri). Si trattava di una trasmissione coordinata dei programmi di Michele Santoro (Samarcanda su RAI 3) e Maurizio Costanzo (Maurizio Costanzo show su Canale 5) con una lunga non-stop con testimonianze, pentiti, contro-pentiti… mio zio la vide e ne uscì inorridito, tenendo conto che la sua poetica letteraria era diametralmente agli antipodi con la cultura televisiva e mass-mediologica, il titolo eloquente era Mafia e media. Consolo contesta di avere assistito a una gogna, a un processo sommario della piazza mediatica degno dell’inquisizione dove da un lato stanno i cattivi e dall’altro i buoni, che sono anche belli e criticano la mafia. Tra questi anche i conduttori e quindi quel Costanzo che lavora con Mediaset il cui proprietario è Berlusconi che dovrebbe stare al tempo stesso tra i buoni (per aver fatto fare la trasmissione) e tra i cattivi (perché è tra imputato). Pose l’attenzione sul fatto che chiunque può uscire massacrato da una trasmissione di questo tipo, estrapolando un singolo episodio dal contesto e a quel punto passò sul piano narrativo autobiografico per raccontare un’esperienza personale confessando di aver conosciuto don Calò Vizzini…

…prima di continuare vorrei aggiungere un elemento per chi non conosce a sufficienza Vincenzo Consolo. Il suo agire non è solo per una forma di garantismo ma specialmente di rigore, non era uno scrittore “di fantasia” ma una persona rigorosa che aveva optato per la forma del romanzo storico in cui coniugava vicende del passato – studiate meticolosamente con apposite ricerche – proiettate in vicende di attualità e nel presente, quindi stiamo parlando di un grandissimo intellettuale che restituiva in forma letteraria un dialogo che viaggiava nello spazio del tempo svelando e sviscerando eventi precisi, ed era per questo contrario a ogni forma di riduzionismo banalizzante, alla riduzione a una sentenza (nella doppia accezione di giudizio ma anche di affermazione lapidaria).
Hai colto il punto. La sua avversione al mondo massmediologico era legata alla dimensione poetica nel senso della struttura letteraria e dei contenuti di un autore che ha qualcosa da dire ed era agli antipodi sul piano temporale, nel senso che il giornalista di cronaca e attualità descrive quello che avviene qui ed ora per far sentire il lettore dentro alla notizia, senza distrarlo con riferimenti allargati al passato e al futuro che smorzerebbero il coinvolgimento e l’emozione. Non è che avversasse l’approccio dei massmedia, sia ben chiaro, semplicemente metteva in guardia sul rischio di identificare la notizia con la verità.

Questo del presente è un aspetto importante, di cui avevo parlato anche con Vincenzo. Vivere il tempo presente è giusto, ma senza ridurlo a un tempo interstiziale, volatile e sfuggente (in effetti non fai a tempo a pensarlo che è già passato) piuttosto è da considerarsi il fulcro del divenire, come esito di tutto ciò che ci ha preceduto e come anticipazione di quel che sarà, un tempo condensato insomma perché è qui e ora che si crea e si determina il nostro futuro a partire da ciò che è stato. Vincenzo Consolo era un uomo del presente, dell’eterno presente, quel tempo di mezzo che non separa ma unisce avendo in sé il futuro in nuce e il passato in luce, in questo senso il presente è sintesi, un condensato, un ponte: il presente come tempo assoluto.
Hai nuovamente colto perfettamente. Ciò detto torniamo all’episodio che lui racconta per poi arrivare alla conclusione di questo saggio. All’età di dieci anni (1943) accompagna suo padre, commerciante, a comprare dei sacchi di lenticchie a Villalba ma dopo averli caricati sul camion sono fermati dai carabinieri e la merce viene sequestrata, mentre cercano di risolvere la questione viene loro consigliato di rivolgersi a don Calò (considerato all’epoca il capo dei capi di Cosa Nostra). Così funzionavano le cose a quel tempo. all’epoca. Vengono condotti allora da don Calogero Vizzini, il quale li ascolta e poi li tranquillizza, dicendo “tra mezz’ora vi pigliate le vostre cose e tornate a Sant’Agata” nel frattempo guardalo zio bambino e gli dice che ha una bella faccia da birbante, gli dà un buffetto sulla guancia e gli regala un dolcetto. Di questo episodio si sarebbe potuto fare una scusa per accusarmi di contiguità e fiancheggiamento mafioso, e lui infatti ci scherza su e celia tutta la situazione. L’articolo si conclude con il riferimento alla vicenda dell’ex-ministro Calogero Mannino detto Lillo e dice che a un certo punto Santoro lesse le dichiarazioni di un pentito che accusa Mannino di essere un mafioso, fatto sta che 7 milioni di persone hanno ascoltato, nel frattempo la magistratura ha assolto Mannino: ora chi glielo va a dire a tutti quegli spettatori?, commenta amaro lo zio E siamo solo all’inizio del calvario di Mannino, perché è una delle prime associazioni a cui ne seguono altre fino a scagionarlo del tutto.

Hai detto che l’incontro con don Calò avviene nel 1943, ed è l’anno in cui gli americani sbarcano nell’isola, c’era un controllo del territorio garantito essenzialmente dall’organizzazione mafiosa, in quel vuoto di potere quello mafioso è quasi un potere “riconosciuto”.
Da quello che si capisce questi fatti venivano considerati la normalità della convivenza civile cioè c’era sì il carabiniere, il podestà (poi sindaco) ma poi c’era un ente extra istituzionale che dirimeva i contrasti e decideva come procedere.
A questo proposito può risultare utile precisare che la mafia non è fenomeno uguale ovunque e privo di declinazioni in relazione ai contesti locali, ha sì un’organizzazione unitaria e coordinata ma ha tanti volti, si adatta. La mafia catanese, ad esempio, era completamente diversa da quella palermitana, il suo grande potere non veniva dalla violenza ostentata ma dalla subdola penetrazione della città grazie a un radicato sistema di relazioni creato dal boss Benedetto (Nitto) Santapaola. Per lunghi anni le vittime di omicidio erano mafiosi, si preferiva evitare il clamore di omicidi eccellenti che invece si susseguivano a Palermo lasciandosi dietro una scia di sangue. Ricordo che, per quanto efferati, gli omicidi erano tra malavitosi, circostanza che portava a dire che a Catania c’era delinquenza ma non mafia. Lo descrive con disarmante efficacia Sebastiano Ardita (oggi membro del CSM ma allora “giudice ragazzino”) nel libro Catania Bene. Eccezione che conferma la regola era stata la strage del casello di San Gregorio a Catania (10 novembre 1979, uccisi i carabinieri di scorta e rapito il boss del clan dei cursoti Angelo Pavone, detto faccia d’Angelo, ucciso qualche giorno dopo) e poi quella della circonvallazione di Palermo fatta per fare un favore a Santapaola (16 giugno 1983, ucciso Alfio Ferlito del clan Puntina-Pillera, alleato di Bontade e della mafia perdente a Palermo), gli omicidi degli agenti erano necessari per il successo delle azioni. Gli omicidi più efferati venivano raccontati ma non ostentati, come quello dei minorenni fatti sciogliere nell’acido perché avevano avuto l’ardire di scippare la madre del boss Santapaola. Gli intrecci, le connivenze, le complicità arrivavano/arrivano a livello inimmaginabili. La questione mafia-antimafia è questione complessa che non si può liquidare con un titolo di giornale forse infelice, non era infatti una battuta ma una critica strutturata, utile a provocare un dibattito che tuttavia fu ridotto alla contrapposizione di schieramenti mentre bisogna riconoscere che a quell’epoca c’era effettivamente chi cominciava a fare dell’antimafia una sorta di vessillo, anzi una medaglia. Questa mia non è teoria ma testimonianza di vissuto.
Allarghiamo ora il quadro. Era facile finire sotto il tiro dei “professionisti dell’antimafia”, che con insinuazioni, sembravano meritoriamente portar luce nelle zone d’ombra. Non era sempre così. Leoluca Orlando attaccò Falcone per avere abbandonato Palermo, ricordo anche insinuazioni su un personaggio di spessore e d’integrità come Macaluso, su La Torre non mi risultano ma non mi avrebbero stupito. Questo clima creava confusione e disinformazione. A un certo punto si arrivò ad attaccare tutti quegli scrittori impegnati che pubblicavano con Mondadori, che era ormai la maggiore casa editrice italiana. Mio zio pubblica con loro il primo romanzo (La ferita dell’aprile) poi passa con Einaudi e poi torna con Mondadori, ma se la rideva dicendo che Berlusconi neanche sapeva cosa pubblicasse perché è un imprenditore non un editore, entrato nel campo dell’editoria come estensione del suo impegno nei media anche per influenzare e condizionare. Noi scrittori – diceva – non abbiamo rapporti con Berlusconi ma con fior di funzionari e direttori editoriali che c’erano prima e dopo, Berlusconi acquista e cambia i vertici amministrativi ma non la struttura operativa.
Per questo queste illazioni lo facevano sorridere. Mi raccontò un episodio. Dopo avere acquisito la Mondadori Berlusconi organizza una cena per le festività natalizie con tutti gli scrittori ed in quella occasione avvicina mio zio con Gianni Letta, che lo porta da mio zio che già conosceva e lo presenta dicendo che era il fiore all’occhiello della casa editrice. Il cavaliere si rivolge allora dicendo “ah il dottor consolo, siamo onorati di averla tra i nostri autori, però le confesso che i suoi scritti sono difficili… “e mio zio lo fermò subito dicendogli “tranquillo non è necessario che lei approfondisca più di tanto, pensi alla salute…”. Di tutta questa vicenda che finì sui giornali, non ricordo se addirittura furono fatti appelli chiedendogli di cambiare casa editrice, non deve pubblicare ma insomma per dire come quando sembrava in conflitto con il blocco dell’antimafia regolarmente seguivano accuse, basate su allusioni o su contestazioni etiche infondate. Mi pare che qualcosa di analogo fosse venuto fuori anche con Saviano, poi a un certo punto ci fu chi teorizzò che una cosa era scrivere sui giornali dove Berlusconi detta la linea politica, altra cosa è la casa editrice. Il tema Saviano fa venire in mente un altro problema…

Interessante ascoltare le tue parole che sono il tuo vissuto, non un racconto creativo.
Un giorno mi chiamò mio zio (allora abitavo a Milano poi mi trasferii a Roma) dicendomi “sai che ho dovuto fare? avevo fatto una prefazione al libro di Saviano e ho dovuto ritirarla di corsa perché Saviano ha affermato (intervista su Panorama del 2009 NdR) che il leghista Maroni è stato il migliore ministro dell’Interno che l’Italia abbia mai avuto”. Nello stesso periodo c’era stata una polemica dei soliti fessacchioni con lo zio perché aveva detto “se vince la Lega a Milano emigro in Svizzera!”. Era ovviamente una frase metaforica, un’iperbole che solo chi non voleva capire non capì, lui intendeva dire mi metto in autoesilio politico se addirittura i cittadini milanesi sostengono questi della Lega. Dopo la morte dello zio, Pisapia, allora sindaco di Milano, durante un doveroso ricordo in comune stigmatizzò quelle polemiche. Saviano era stato per vari mesi ospite da mio zio e Caterina, che l’avevano preso in simpatia dandogli ospitalità. Lui aveva insegnato loro l’uso del computer, avendo una padronanza informatica che loro non possedevano, basti pensare che lo zio scriveva ancora a macchina con la sua lettera 43.
Insomma, s’era stretto un rapporto ma, tornando al rigore di cui parlavi, ma Vincenzo Consolo non guardava in faccia a nessuno. Inoltre, Saviano non solo aveva fatto quelle affermazioni su Maroni ma in un’altra intervista si vantava di avere tra i suoi intellettuali di riferimento Ezra Pound e Celine. A quel punto la misura era colma e ritirò la prefazione. Saviano ovviamente si guardò bene dal rendere pubblica la polemica, lo chiamò dicendo “Enzo scusa da te non me lo sarei mai aspettato…”, più che chiarirsi decisero di tenere la questione riservata ma il rapporto si esaurì, anche perché Saviano imbocca proprio la strada che mio zio aborriva, preferendo alla via dello studioso quella del cosiddetto professionista dell’antimafia, sempre in televisione a pontificare, ecc. Con Saviano il rapporto non è mai stato recuperato a differenza che con Stajano con il quale i rapporti sono tornati buoni nonostante questi non avesse mai rivisto le sue convinzioni. La divergenza di vedute su di una singola questione non è ragione sufficiente per rompere rapporti, a meno che questa non comprometta i rapporti alla radice determinando un dissenso che si allarga alla persona nel complesso.
Tutti questi discorsi sono perché nell’encomiabile e importante iniziativa messa in piedi dall’amica Ludovica Tortora de Falco per ricordare Consolo (se non fosse stato per lei non sarebbe successo niente), mi pare manchino alcuni tasselli come quello del dibattito sulla mafia, del rapporto con la famiglia e con Sant’Agata di Militello prima che Consolo emigrasse a di Milano. Non vorrei sembrasse una questione personale ma rimuovere ogni riferimento alla famiglia impoverisce l’inquadramento della figura dello scrittore, che non può prescindere dalla storia personale. Analoga rimozione troviamo nella biografia pubblicata sull’oscar Mondadori, dove il curatore prof. Turchetta, che ha fatto un ottimo lavoro, è stato di fatto “costretto” a rimuovere quasi tutto quanto precede l’arrivo di Consolo a Milano nel 1968 cioè quando aveva già 35 anni, come se la vita precedente non esistesse.
A nessuno è venuto in mente di raccogliere la testimonianza di chi aveva vissuto con lui quel tempo, come suo fratello Melo a cui era molto legato oppure me (mio fratello, purtroppo, nel frattempo era scomparso, entrambi siamo stati cresciuti dai Consolo, per cause familiari che non è il caso qui di ricordare). Allo stesso modo non si possono tacere le vicissitudini politiche, come quelle che riguardano Caterina Pilenga o me stesso, che fui arrestato in casa sua per motivi politici (assemblee e manifestazioni non autorizzate) dato che a quel tempo ero dirigente del Movimento Studentesco e caporedattore della rivista Fronte Popolare. Mi ero rifugiato in casa di Caterina ma dalla Sicilia continuavano a chiamarmi per accertarsi che stavo bene, il telefono che era sotto controllo e una mattina all’alba vennero ad arrestarmi. Anni dopo fermarono anche mio fratello ma a Comiso, dove si teneva una manifestazione contro l’installazione dei missili Cruise a cui partecipava anche lo zio
Questa storia di Comiso mi porta al rapporto con Bufalino, messo in crisi proprio dal fatto che era benché fosse di Comiso ma non aveva preso posizione alcuna su una questione sulla quale lo zio riteneva non si potesse non prendere posizione. Ecco, questo è un altro capitolo su cui c’è tanto da dire.
Questo sarà l’argomento della seconda parte della conversazione.

Immagine di copertina: Riunione estiva di famiglia. Da sx: Consolo, la moglie Caterina, Rossella fidanzata e poi moglie di Nino, Nino Bertoloni Meli, la madre Felicetta, sorella di Vincenzo, Rino, fratello di Nino.

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