Ricordando Vincenzo Consolo. Parla il nipote Nino Bertoloni Meli [II]

Raffinato scrittore, attento studioso e osservatore del passato nel presente, premessa del futuro. Siciliano di nascita e milanese d’adozione è mancato a noi tutti il 21 gennaio di dieci anni fa. In questa seconda parte della conversazione con il nipote prediletto sfogliamo pagine inedite della sua famiglia.
GIOVANNI LEONE
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Al centro di questa seconda parte della nostra conversazione con Nino Bertoloni Meli è la famiglia di Vincenzo Consolo, il grande scrittore siciliano di cui ricorre il decennale della morte. Clicca QUI per leggere la prima parte dell’intervista.

La famiglia di Consolo, dunque. Mi pare di capire si sia sentita esclusa dal quadro delle celebrazioni del MESE CONSOLO.
Sì, ho voluto dar voce al disappunto della famiglia per il mancato coinvolgimento ma tengo precisare che non ha niente a che fare con questioni di eredità economica o materiale. Piuttosto ne ha con il lascito intellettuale e sul piano affettivo, del giusto peso che devono avere la famiglia e la Sicilia nel ricordo di Vincenzo Consolo. Comunque, bisogna riconoscere all’amica Ludovica Tortora De Falco che è stata molto brava a coordinare il tutto. È autrice di un docu-film che riguarda proprio i ricordi di Sicilia, la vita, le persone, i luoghi di Consolo che a mio zio piacque tanto e per questo cominciò a frequentare la casa degli zii a Milano. Il film è veramente ben fatto e piacevole, risultato non facile da ottenere perché essendo mono-biografico avrebbe potuto risultare noioso. Non lo è affatto.

Le vicende familiari e affettive sono complicate e toccano una rete di sentimenti privati e relazioni intime, un terreno minato che richiede di essere “bonificato” prima di poterci entrare. Torniamo a noi. Abbiamo accennato al piano politico e sociale, proviamo a scendere in campo letterario? Sciascia, Consolo e Bufalino, e poi Camilleri. C’è quella bella foto che ritrae sorridenti i primi tre, che memoria hai del loro rapporto?
Quando mio zio scomparve mi chiesero un ricordo che feci proprio a partire da quella foto che ritrae Sciascia, Consolo e Bufalino a Racalmuto, sorridenti e distesi, ma è una foto che non rende appieno quello che era in verità il loro rapporto, già allora in crisi tra Consolo e Bufalino per divergenze di vedute sul piano dell’impegno civico e politico, che riguardava in particolare l’assenza di prese di posizione sulla questione missili cruise proprio nel paese di Bufalino, Comiso. Mentre sia zio Vincenzo che mio fratello (malmenato) avevano partecipato alle manifestazioni contro la nuova base americana, che faceva della Sicilia un bersaglio. Oltre che in fotografia il trio si ritrova in teatro, quando il prof. Antonio di Grado (allora assessore alla cultura) convince il teatro Stabile di Catania a commissionare ai maestri tre atti unici messi in scena nel novembre nel 1989. Venni a vedere lo spettacolo e mi piacque molto, proprio perché le tre parti erano tra loro diverse come lo erano gli autori. Lo zio mise in scena Catarsi, struggente, perché a pochi è noto che si riferiva ai drammi delle sorelle. Questo richiamare fatti suoi non era un’eccezione singolare, di riferimenti biografici è ricca l’opera di Consolo; ad esempio, nella ferita dell’Aprile il riferimento è al dolore per la morte del padre.

Tieni conto che erano i tre scrittori e intellettuali al vertice della scena letteraria siciliana. Il fenomeno Camilleri non era ancora deflagrato ma poi comunque con lo zio si detestarono cordialmente per divergenze che questa volta non era sull’impegno politico e sociale come con Bufalino, ma per questioni letterario-linguistiche. Mio zio sosteneva che uno scrittore è tale se se la sua opera introduce una novità anche sul piano del linguaggio che dev’essere adeguato alla materia trattata, tanto è vero che L’olivo e l’olivastro inizia con questa frase famosa che dice “ora non può narrare”; è un attacco fulminante che significa che le enormità accadute a Palermo, in Sicilia e anche fuori dalla Sicilia costringono lo scrittore non ad ammutolirsi stare muto ma a trovare un linguaggio adeguato a esprimere quei fatti. Anche nel Sorriso dell’ignoto marinaio – ma questa volta alla fine – riporta alcune frasi scritte da carcerati sui muri delle celle, non propone quello come modello letterario ma afferma che per affrontare temi particolari quali quelli dei suoi libri ci vuole un altro modo. In questo contesto il linguaggio di Camilleri può andar bene per un pubblico televisivo, Consolo saltava sulla sedia quando sentiva definire una ragazza picciotta, manco nei bar si usa un linguaggio simile. Probabilmente arrivò all’orecchio di Camilleri che rilasciò un’intervista che, ripensandoci oggi, rispondendo indirettamente con una ironica immagine letteraria raccontando (cito a memoria) “me ne stavo seduto in poltrona a leggere e accanto a me stava una pila di libri da leggere in cima alla quale stava Il sorriso dell’ignoto marinaio, allungo la mano e mi trovo una bavosa lumaca che stava camminando sulla copertina, ritrassi subito la mano…”, insomma esprimeva ribrezzo.

Ricordo che il giorno dopo chiamai lo zio che mi disse “gli avranno raccontato quello che vado dicendo di lui e ha voluto rispondere così, che vuoi che gli risponda, non m’interessa…”. Credo non si siano mai incontrati di persona. Si stupiva che un autore cresciuto nella terra di Pirandello non avesse preso nulla da lui. Certo poi Camilleri scrisse tanto e vendette altrettanto; viene in mente una frase caustica di Sciascia che disse “chi non ha nulla da dire scrive molto”, non ricordo se la disse in una delle occasioni in cui lo incontrammo a Roma quand’era deputato, insieme a Lino Iannuzzi che era una miniera di racconti, un giornalista d’altri tempi, e si ‘divertivano’. 

È noto che dal punto di vista letterario lo zio era legatissimo a Verga e Pirandello, per Vittorini aveva avuto un interesse poi scemato. Con Verga c’erano affinità anche biografiche, forse anche perché nel periodo milanese Verga capisce che per esprimere quel che sentiva dentro doveva tornare alle origini, alla sua terra. Lo chiamava Giovannino, quasi fossero amici d’infanzia. In qualcuno dei suoi saggi lo ha pure raccontato dicendo che arrivato a Milano capì tante cose che stando in Sicilia non capiva appieno ed è fenomeno tipico in chi si allontana, che conoscerai di certo anche tu. Poi c’è Pirandello su cui è inutile dilungarsi. Questi erano i suoi due riferimenti.

Nino Bertoloni Meli, a destra, in piedi. Da sinistra la cognata Luciana, lo zio Enzo (Vincenzo Consolo), il figlio Giuseppe, la moglie di Nino, Rossella, il figlio Daniele.

Altro personaggio che pesa nel percorso di Enzo Consolo è il barone Lucio Carlo Francesco Piccolo di Calanovella, cugino di Tomasi di Lampedusa che proprio a villa Piccolo a Capo d’Orlando scrive il Gattopardo, non fu un caso che il personaggio fosse il principe di Salina, ispirato all’isola che aveva di fronte all’orizzonte in mare. A lui si riferisce il racconto Il Barone magico in Le Pietre di Pantalica (vedi nel sito ufficiale di Vincenzo Consolo).
I due fratelli Piccolo, Lucio e Casimiro erano soliti venire a Sant’Agata di Militello nel negozio degli zii a comprare scorte di pasta che caricavano su di un camioncino, e alla domanda a cosa servisse tutta quella pasta risposero “è ppi cani” (è per i cani). Effettivamente entrando a Villa Piccolo sopra Capo d’Orlando c’è un’area che è un piccolo cimitero canino, qui seppellivano infatti i loro cani accomunati da un nome conciso di tre lettere (tipo big, buc, pac).

Sembra di ricordare Massimo Troisi nel film ricomincio da tre, dove vuole chiamare Ugo il figlio e non Massimiliano, nome conciso che permette un’immediatezza altrimenti impossibile nel chiamarlo.
Questi cani venivano trattati bene come dimostra la pasta che andavano a comprare, all’epoca ce n’era di serie A e B che costava meno. Per i cani solo pasta di serie A. Lucio Piccolo fu una figura importante. Nella casa dello zio a Sant’Agata c’è ancora alle pareti una foto di Lucio piccolo nella sua villa in uno dei pomeriggi in cui radunava intellettuali, compreso Sciascia. Era un personaggio, come si usa dire. A noi ragazzi sembrava un tipo strano, bizzarro, ricco di famiglia, non lavorava, scriveva poesie piuttosto complicate, ermetiche. Altra cosa era il rapporto con Sciascia, parlavamo di Macaluso e viene in mente un suo libro Sciascia e i comunisti con una copertina che vale il libro, con il maestro vestito con giacca e cravatta, seduto su di uno scoglio dell’estremità della Sicilia, di fronte all’isola delle correnti, uno scoglio che guarda verso il Mediterraneo e l’Africa.

Lo zio Enzo con Giuseppe e Daniele

Ne avevamo accennato, chiacchierando prima della video intervista che ho fatto a Macaluso a proposito di mio padre, della Sicilia, del rapporto tra politica e cultura, indispensabile per far fiorire cultura politica e politica culturale. Dici bene, la copertina è molto bella, a me ricorda il Viandante sul mare di nebbia dipinto da Caspar David Friedrich nel 1818, ci sono numerose differenze e affinità, che sembrano pensate anche se probabilmente non lo sono. Entrambi affrontano il mare. Uno sta di fronte a un mare di vapore nuvoloso in un tumulto in contraddizione con il suo lento movimento che forma, un mare incerto che è necessario attraversare, superando la paura del vuoto e l’incertezza dell’incognito per raggiungere le altre vette o anche per tornare a valle; il mare di Sciascia è invece calma piatta, trasparente, ammantato di cielo e luce spendente. Altre differenze sono nella postura e nello sguardo: Friedrich ci volta le spalle ma non ci esclude, sta sulla stessa roccia in cui stiamo anche noi osservatori; mentre Sciascia è in posizione quasi frontale e guarda di lato, getta uno sguardo obliquo che spinge noi tutti a girarci, noi che occupiamo una posizione incerta, anfibia, potremmo essere su di uno scoglio vicino oppure anche in barca. Entrambi hanno in comune di avere fissato il momento della pausa prima di riprendere il cammino, una pausa che al moto da evidenza e forza: in ogni caso il destino del ricercatore è di muoversi, andare oltre, oltre-passare e infatti lo sguardo non indugia in superficie, ma all’orizzonte dove cielo e mare si abbracciano.

Immagine di copertina: Vincenzo Consolo con i nipoti, Giuseppe e Daniele, e con il fratello Melo, in piedi.

Ricordando Vincenzo Consolo. Parla il nipote Nino Bertoloni Meli [II] ultima modifica: 2022-01-25T17:50:33+01:00 da GIOVANNI LEONE
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1 commento

Rosalia Gentile 30 Gennaio 2022 a 22:03

Il volto privato di un artista non si può costruire sulla base di quello che definirei “essere un conoscente “, sono troppe le vicissitudini private, i dolorosi trascorsi che hanno segnato la vita di Vincenzo Consolo. Mi colpì molto il giorno dei suoi funerali che tutti lo chiamassero Enzo, come si fa con un compagno di scuola. Bellissimo ritratto questo di Ninni Bertoloni, pudico e molto sentito.

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