L’amministrazione Biden deve fronteggiare una nuova e grave crisi di politica internazionale, questa volta scatenata dalla minaccia di un’invasione russa dell’Ucraina. In particolare nelle ultime settimane al centro dei negoziati e delle trattative con Mosca c’è il segretario di stato Anthony Blinken. Ma non è il solo. Il segretario alla difesa Lloyd Austin ha parlato telefonicamente con molti ministri della difesa europei sulle azioni destabilizzanti della Russia in Europa e discussioni simili con le controparti europee le ha avute anche Mark Milley, il capo degli Stati maggiori congiunti. Nel frattempo l’attivissimo consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan coordina chiamate con i partner europei e della Nato.
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Un team quello di Biden molto diverso da quello di Donald Trump. Non solo perché il presidente repubblicano ha cambiato con una certa frequenza i responsabili della politica estera e di sicurezza. Ma anche perché molti di loro erano ex militari oppure avevano un background nel mondo degli affari, con scarsa conoscenza del processo decisionale e, talvolta, del dipartimento di stato. Durante i turbolenti anni della sua presidenza, Trump è passato attraverso quattro consiglieri per la sicurezza nazionale, con membri anziani del suo staff che sono stati coinvolti in scandali. Michael Flynn rimase consigliere per la sicurezza nazionale per ventiquattro giorni e dovette dimettersi per le conversazioni avute prima della nomina con l’ambasciatore russo. H. R. McMaster, che gli succedette, durò molto poco e si dimise per contrasti con Trump sulla politica estera. Il terzo, John Bolton, fu licenziato via Twitter. Anche le procedure decisionali interne alla presidenza non rispettavano alcuna regola. Molto dipendeva dalle potenti fazioni in concorrenza tra loro sulla direzione da imprimere alla presidenza Trump: quella populista e nazionalista inizialmente guidata da Steve Bannon; quello internazionalista guidato da McMaster, il segretario alla difesa Jim Mattis, il segretario di stato Rex Tillerson e poi il chief of staff John Kelly. Accanto a queste fazioni c’era poi la famiglia: il genero di Trump, Jared Kushner, e sua figlia, Ivanka, che sono stati tra i principali attori della Casa Bianca, anche nell’ambito della politica estera.
Da questo punto di vista, la squadra di Biden è stata un ritorno alla normalità rispetto al caos trumpiano. O meglio il ritorno all’epoca di Obama. Anche nelle procedure decisionali, quando le troppe riunioni e il mancato rispetto delle catene di comando da parte soprattutto dei funzionari del Consiglio di sicurezza nazionale avevano sollevato numerose polemiche. Gli ex segretari della difesa Robert Gates e Leon Panetta nel 2014 avevano accusato l’amministrazione Obama di contattare direttamente i generali più importanti sulla strategia e di cercare di stabilire linee di comunicazione diretta con i comandanti sul campo, che dovrebbero riferire direttamente al segretario della difesa.
Per ora non sembrano esservi questi contrasti ma certamente la squadra di Biden è un prodotto dei think tank e delle amministrazioni precedenti, con straordinarie carriere professionali e tutte molto legate all’ex vicepresidente, sia in termini di relazioni personali sia in termini di vicinanza ideologica. Si tratta per lo più di democratici moderati e pragmatici che non rappresentano un punto di vista diverso rispetto a quello del presidente. E questo potrebbe essere uno svantaggio.
A differenza del presidente Trump, Biden si è infatti attorniato di persone con cui ha creato forti legami personali e visioni politiche comuni, nei molti anni in cui da senatore si è occupato di politica estera, soprattutto come presidente della potente commissione esteri del Senato. Il Congresso ha infatti un ruolo importante nella politica estera statunitense e in particolare proprio il Senato, a cui spetta la ratifica dei trattati internazionali e la conferma degli ambasciatori nominati dal presidente. Ma è il presidente, con i suoi consiglieri, i componenti del gabinetto e le nomine alla testa delle agenzie federali, il principale architetto della politica estera del paese.
Come dicevamo, la squadra di Biden ha anni di esperienza. Per lo più si tratta di veterani dell’amministrazione Obama, rispettati sia a Washington sia a livello internazionale, e sostenitori del ritorno al multilateralismo e alla stretta cooperazione con gli alleati. Sono soprattutto persone che Biden conosce bene e di cui si fida. In particolare, il segretario di stato Anthony Blinken ha una relazione di lunga data con Biden, tanto che la stampa ha parlato di una “fusione mentale” tra i due.

L’attuale segretario di stato proviene da una famiglia di diplomatici. Il padre e lo zio hanno servito come ambasciatori degli Stati Uniti rispettivamente in Ungheria e in Belgio. Il nonno, Maurice Blinken, scappò invece dai pogrom in Ucraina, prima di immigrare negli Stati Uniti. Sono questi legami con l’Europa che lo hanno reso noto come un europeista e un atlantista convinto, oltre ad essere un sostenitore del multilateralismo. Un’attenzione per le vicende europee che dipende anche da altre ragioni familiari. Non solo la tragica storia del nonno ma anche l’influente secondo marito della madre, il potente avvocato polacco-americano Samuel Pisar, sopravvissuto all’Olocausto e confidente di vari presidenti francesi.
Blinken entra al dipartimento di stato negli anni Novanta e lavora per il presidente Bill Clinton. Successivamente entra nello staff della commissione esteri del Senato, della quale Biden da senatore del Delaware era membro rispettato e influente. Quando Biden divenne vicepresidente, Blinken lo segue alla Casa Bianca come consigliere per la sicurezza nazionale. Poi Obama lo scelse come vice Consigliere per la sicurezza nazionale e, nell’ultima parte della presidenza, vice segretario di stato. Blinken è stato centrale nella squadra di politica estera di Obama e ha avuto un ruolo centrale nella risposta all’annessione della Crimea da parte della Russia e al sostegno dei separatisti in Ucraina. Nel 2014, dichiarò a un evento del Brookings Institute che isolare la Russia era importante poiché “un modo in cui il presidente Putin e la Russia definiscono il potere è l’influenza geopolitica che la Russia è in grado di ottenere” e che “minare politicamente la Russia nella comunità internazionale e isolarla politicamente diminuisce questo potere”.
Quando Hillary Clinton perse le elezioni contro Trump, Blinken ripara nel settore privato. Nel 2017 fonda la WestExec Advisors, una società di consulenza di strategia politica, assieme a Michèle Flournoy, per lungo tempo considerata da Biden come possibile segretario alla difesa. WestExec diventerà in breve tempo una importante società di consulenza, con personale composto da ex diplomatici, militari ed ex assistenti della Casa Bianca. Blinken è anche socio della società di private equity Pine Island Capital Partners, a sua volta partner di WestExec. Il segretario di stato è stato in questa veste consulente di aziende come AT&T, Boeing, FedEx, Facebook, LinkedIn, Microsoft, Uber, Blackstone, Lazard, Royal Bank of Canada, e il conglomerato multinazionale SoftBank, che fa molti affari con l’Arabia Saudita.
In realtà molti membri dello staff di Biden che si occupano di politica estera provengono da WestExec e Pine Island. Per esempio, Avril Haines, l’attuale direttrice della National Intelligence, che è stata direttrice della WestExec, oltre che consulente di Palantir, la discussa società specializzata nella raccolta e analisi dei dati. O David Cohen, vice direttore della Cia. E molti altri: Lisa Monaco, vice ministro delle giustizia; Chris Inglis, il National Cyber director; Julianne Smith, l’attuale ambasciatrice alla Nato; e Jen Psaki, l’addetta stampa e il volto pubblico della Casa Bianca. Ma ce ne sono altri otto in posizioni di governo o nelle agenzie, nominati da Biden. Blinken ha anche portato l’assistente esecutiva di WestExec Sarah McCool al dipartimento di stato come direttrice della programmazione.
L’altra figura chiave nella politica estera di Biden è il consigliere per la sicurezza nazionale Jack Sullivan. Il quarantacinquenne, uno dei più giovani a ricoprire il ruolo di consigliere per la sicurezza nazionale, è considerato un “genio” nel campo della politica estera. Biden lo definì come uno di quegli intelletti che compaiono una volta sola in una generazione. Hillary Clinton, per la quale ha lavorato e avrebbe dovuto ricoprire lo stesso ruolo che oggi svolge con Biden, se la democratica avesse vinto contro Trump, lo definiva “un potenziale futuro presidente”. Come molti della squadra di Biden ha studiato in un’università della Ivy League (Yale), ha frequentato anche l’università di Oxford, grazie alla prestigiosa borsa di studio Rhodes, ed è poi ritornato a Yale per iscriversi alla facoltà di legge.
Dopo Yale entra subito in politica nel mondo dei democratici come assistente di Amy Klobuchar, la senatrice del Minnesota ed ex candidata alla primarie democratiche del 2020. È grazie a Klobuchar che Sullivan entra in contatto con il mondo dei Clinton, che faranno la sua fortuna e carriera politica. Hillary Clinton infatti lo vuole accanto a sé nella campagna per le primarie del 2008. È Sullivan che prepara l’allora senatrice di New York per i dibattiti contro Obama e gli altri dem. Quando Clinton perde le primarie, Obama lo recluta per svolgere lo stesso ruolo nei dibattiti con il candidato repubblicano John McCain.
Dopo la vittoria di Obama, pensa di tornare in Minnesota, il suo stato d’origine, per coltivare una carriera politica – all’epoca sembra intenzionato a correre per un seggio da deputato – ma la neo segretaria di stato Clinton gli offre, a solo trentadue anni, un posto creato appositamente per lui come vice-capo dello staff con delega alle politiche presso il dipartimento di stato. Qui diventa un po’ l’ombra di Clinton e la personalità nella squadra del segretario di stato che meglio ne interpreta la linea più dura e interventista, spesso in contrasto con quella di Obama. Nonostante faccia parte del mondo clintoniano, Sullivan però coltiva una rete di relazioni con il mondo dell’allora presidente democratico. E quando Clinton rifiuta un rinnovo del ruolo, dopo la vittoria di Obama del 2012, Sullivan riesce a rimanere nell’amministrazione. E qui incontra Joe Biden, del quale diventa il principale consigliere per la sicurezza nazionale. In questa veste segue le trattative sul nucleare con l’Iran, fino alla quasi alla fine della presidenza. È stato anche uno dei pochi alla Casa Bianca di Obama coinvolti nello sforzo di ristabilire i legami degli Stati Uniti con Cuba.
Lascia prima della fine del mandato per tornare a Yale ad insegnare. Ma Hillary Clinton, candidata alle primarie e poi alle presidenziali, lo assume. Ne diventa ancora una volta il principale consigliere in tema di politica estera e di sicurezza. E molti lo vedono già consigliere per la sicurezza nazionale della nuova amministrazione democratica. Trump però vince le elezioni e Sullivan torna all’insegnamento e alle consulenze nel settore privato (Uber e Microsoft).
Quando Biden si candida presidente, Sullivan fa parte di quel gruppo di persone che consiglia l’ex vicepresidente sulla politica estera e di sicurezza, capitanato dal futuro segretario di stato Blinken e la futura direttrice della National Intelligence Avril Haines. Un ruolo che gli vale poi la nomina a consigliere per la sicurezza nazionale, quando Biden diventa presidente.
Qualcuno ha indicato che Sullivan condivide molte idee di Hillary Clinton in tema di politica estera. Ma soprattutto, come Clinton, è molto pragmatico e non si fa guidare dall’ideologia, come ha ricordato in un discorso tenuto all’Università del Minnesota nel 2013:
Rifiutate il cinismo. Rifiutate la certezza. E non siate degli idioti. Ora, quando vi dico di ‘rifiutare la certezza’, non intendo i vostri principi fondamentali. Si può e si deve essere certi di quelli … Ma nella politica pubblica, i principi indicano semplicemente la strada, non forniscono risposte specifiche su cosa fare in circostanze specifiche.

Accanto a Blinken e Sullivan si muovono in questi giorni altre figure importanti della squadra di Biden. Decine di chiamate sono state fatte infatti dal principale vice consigliere per la sicurezza nazionale Jon Finer e dal sottosegretario di Stato Victoria Nuland. Finer è un ex giornalista del Washington Post che ha anche coperto la guerra tra Russia e Georgia nel 2008 e poi è entrato nell’amministrazione Obama, dove è stato chief of staff dell’ex segretario di stato John Kerry.
Nuland è anch’essa un nome noto dell’amministrazione Biden ed è sposata con lo storico Robert Kagan. Fu vice direttrice del dipartimento ex affari sovietici durante la presidenza di Clinton e consigliere del vice presidente Dick Cheney. Con Bush ha esercitato un ruolo influente durante l’invasione dell’Iraq ed è stata poi nominata dal presidente repubblicano ambasciatrice a Bruxelles presso la Nato. Con Obama è diventata assistente del segretario di stato per gli affari europei ed eurasiatici, gestendo le relazioni diplomatiche con i paesi europei e con la Nato. È stata la persona di riferimento dell’amministrazione per la crisi ucraina del 2014. Fu lei che stabilì le garanzie di prestito all’Ucraina e l’assistenza non militare all’esercito ucraino. In Ucraina è anche nota per aver discusso nel 2014 con l’allora ambasciatore degli Stati Uniti nel paese di chi avrebbe dovuto partecipare al governo di unità nazionale. La registrazione della telefonata è stata poi pubblicata su Youtube.
Molti altri hanno anche lavorato a stretto contatto con le loro controparti europee e tra queste vi sono l’assistente segretario di stato per gli affari europei ed eurasiatici Karen Donfried, ex presidente del German Marshall Fund; la vicesegretaria di stato Wendy R. Sherman, legata a Madeleine Albright; e gli ambasciatori recentemente confermati alla Nato e all’Osce, Julianne Smith e Michael Carpenter. Carpenter è stato consigliere di Biden durante la presidenza di Obama, mentre Smith faceva parte della squadra che consigliava l’ex vicepresidente durante la campagna elettorale del 2020.
Del gruppo che si sta muovendo accanto a Biden sulla vicenda russa vi sono anche Lloyd Austin, il segretario alla difesa, e Mark Milley, il capo degli Stati Maggiori congiunti. Milley è stato nominato da Trump, contro l’avviso dell’allora segretario alla difesa Jim Mattis. Il rapporto con l’ex presidente repubblicano si è incrinato con le proteste di Black Lives Matter nell’estate del 2020. Milley ha infatti resistito con forza ai tentativi di Trump di mettere le truppe in servizio attivo nelle strade per sopprimere le proteste e ha sostenuto il cambiamento dei nomi delle basi dell’esercito intitolate ai generali confederati. Quando poi in giugno 2020 Trump inscenò la foto davanti alla chiesa, dopo che la polizia aveva cacciato i manifestanti a colpi di lacrimogeni, Milley chiese pubblicamente scusa, distanziandosi dalle scelte del presidente. Fu Milley tra le altre cose a rassicurare la controparte cinese dopo le elezioni presidenziali, quando le autorità della Repubblica popolare temevano un attacco da parte di Trump al fine di dichiarare la legge marziale e restare presidente.
Austin, un altro consulente della società Pine Island, è un generale in pensione e cattolico praticante, il primo Afro-americano a ricoprire il ruolo. Anche la selezione di Austin, come le altre compiute da Biden, sembra essere stata basata sulla profonda connessione personale con il presidente. L’allora vicepresidente conobbe Austin durante l’amministrazione Obama, quando seguiva la politica irachena e Austin era un comandante in Medio Oriente. Come ha spiegato lo stesso Biden in un pezzo per The Atlantic, i due hanno trascorso innumerevoli ore insieme, sul campo e nella Situation Room della Casa Bianca. Biden ne ha salutato il ruolo critico nella “più grande operazione logistica intrapresa dall’esercito in sei decenni”, il ritiro dall’Iraq. Una situazione che ha forgiato la loro relazione. Austin ha poi terminato la carriera militare al Comando Centrale. Di Russia si è poco occupato, se non in relazione al supporto russo in Siria, ed è stata una delle molte critiche ricevute al momento dell’esame della sua nomina, accanto alla scarsa conoscenza delle problematiche legate alla Cina.


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