Roma in noir

Una metropoli senza più identità, sfocata e feroce, tra nuova e vecchia criminalità nell’ultimo romanzo di Massimiliano Smeriglio, “Se bruciasse la città”.
CARMINE FOTIA
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Se bruciasse la città (Giulio Perrone editore) di Massimiliano Smeriglio, europarlamentare della sinistra movimentista, è un bel noir metropolitano che esplicitamente s’ispira ai grandi maestri del genere: da Izzo a Winsolw, a Ellroy. È un genere che io amo moltissimo, in particolare Don Winslow, ma soprattutto Jean-Claude Izzo, irraggiungibile maestro del genere che con la trilogia di Marsiglia ha scritto la più potente e struggente storia noir mai scritta, secondo la mia modestissima opinione di lettore.

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Smeriglio completa con questo romanzo una sorta di trilogia metropolitana, iniziata con Garbatella Combat Zone (Voland) e Suk Ovest, banditi a Roma (Fazi). I personaggi non sono gli stessi, salvo una fugace apparizione di due protagonisti del primo. Il mondo nel quale si muovono, la periferia romana di quel quadrante che si allunga verso il mare di Ostia, è lo stesso, ma non è più uguale. Quella di Garbatella Combat Zone era una periferia più urbana, popolare, strutturata, politicizzata. Questa di Se bruciasse la città è ipermetropolitana, plebea, destrutturata, disincatata.

Da questo margine, come una tribù di indiani, si muovono all’assalto della città nemica ragazzi “dispari”, chiamati così perché nati in una borgata abusiva, in una via che ha solo numeri dispari. Ma la loro disparità non è solo una questione di numeri, è antropologica. È il punto di vista di chi vede il mondo da un margine estremo, quello nel quale lo ha relegato il mondo dei pari che sono i benestanti, i ricchi, i potenti. La scena che descrive meglio questo conflitto è quella dello scontro tra il protagonista del romanzo, Roberto, criminale di mezza età che esce dal carcere e torna a casa per regolare i vecchi conti, e una banda di giovani benestanti che si divertono con una selvaggia versione metropolitana della caccia alla volpe, con i poveri animali inseguiti e annientati dalle loro moderne automobili. Roberto ne salva alcune che poi, mentre mette a ferro e fuoco Roma, alleva con amore e compassione.

Massimiliano Smeriglio

Al fianco di Roberto, una banda di giovani criminali, di cui fanno parte anche i suoi nipoti. Marco, l’io narrante del romanzo, detto il tibetano per affinità con il cane di quella razza. La più sveglia è però la sorella Meri, che si è laureata e si rivela un genio della logistica. Meri ha un’intuizione vincente: piuttosto che scannarsi con le altre bande per il controllo dei traffici, essere la piattaforma di distribuzione per tutte le bande: una sorta di Amazon del crimine romano, dove custodire i prodotti prima di avviarli nella catena distributiva. L’idea è talmente forte e vincente da scatenare la guerra con la banda che pensa di poter controllare la città e vuole togliere loro il controllo della borgata. 

È come se, anche nel crimine, come nell’economia e nella società, si scontrassero la vecchia organizzazione taylorista che corrispondeva al modo di agire della Banda della Magliana, concentrata sul prodotto, e che nel romanzo è rappresentata dai nemici dei giovani dispari, e la nuova organizzazione dei dispari dove la logistica è più forte del prodotto. Roberto, il vecchio criminale, è in qualche misura l’inconsapevole deus ex-machina che muove queste due potenti logiche criminali a scontrarsi, spargendo sangue e fuoco sulla città. 

Al termine dello scontro, pur lasciando sul campo tanti fratelli della borgata, vincono i dispari. Ma non c’è alcuna città da conquistare, non ci sono mura da abbattere, ma solo distanze immense, vuoti, che i nostri protagonisti osservano dal margine della loro prateria. Non hanno bisogno di aggredire la città, perché la città – intesa come centro motore e organizzatore della vita sociale, con le sue strutture, le sue gerarchie – non esiste più, inghiottita da quell’immenso “deserto sovraffollato” di cui parlava Baumann.

Ha scritto profeticamente Walter Siti nel Contagio:

Le borgate ormai sono un bersaglio immaginario anche per chi ci vive; l’anticamera anarchica della perdita di sé, il limite oscillante tra una solitudine impossibile e una società infelice – in cui è esplosa la loro famosa vitalità. Il segreto di una civiltà al tracollo è la consistenza liquida: una geografia collosa, un’identità fondente e una criminalità liquida.

E dunque non c’è felicità neppure nella vittoria perché “siamo dispari per davvero: bianchi, neri, mulatti, maschi, femmine, senza Dio. Soprattutto senza Dio”. 

Roma in noir ultima modifica: 2022-02-08T19:00:48+01:00 da CARMINE FOTIA

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