Gl’italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione. Questo è ben naturale, perché la vita per loro val meno assai che per gli altri, e perché egli è certo che i caratteri più vivaci e caldi di natura, come è quello degl’italiani, diventano i più freddi e apatici quando sono combattuti da circostanze superiori alle loro forze. Così negl’individui, così è nelle nazioni. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci.
Gl’italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi. (…) Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciscuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia. (Giacomo Leopardi)
Non sei né giovane né vecchio
Ma è come se dormissi dopo pranzo
Sognando di entrambe queste età.
(T. S. Eliot, Gerontion))
Per l’uomo di vent’anni ogni anziano è il nemico… (G.Papini)
Tra qualche giorno sarà primavera, arriverà quindi aprile, “il più crudele dei mesi”. Dopo i lunghi giorni delle incertezze, delle paure e delle sciocchezze, avremo tutti modo di sentire rimescolarsi nel nostro sangue “ricordo e desiderio”. Forse riusciremo anche a dimenticare per un po’ che qualcuno o qualcosa ci ha appena mostrato “il terrore in un pugno di polvere”. L’estate farà il resto. Il sole e il mare ci permetteranno di crederci ancora quasi invulnerabili, in ogni caso pronti a godere dopo il castigo.
Comincio questa lamentatio (perché di questo si tratta) ricordando che quest’anno ricorre il centenario della pubblicazione di The Waste Land, l’opera poetica che più di qualunque altra, al di là del suo valore artistico, ci ha detto dove siamo arrivati da tempo, noi del Vecchio Mondo. E allora, all’insegna di Eliot, provo a fare qualche riflessione su quel terreno sul quale stiamo ancora barcollando e scivolando, forse più di allora, quando era appena finita la catastrofe che, come scriveva Valéry, ci aveva brutalmente sbattuto in faccia qualcosa di inaudito, e cioè che “noi, le civiltà, ora sappiamo che siamo mortali”.
È passato un secolo e quel duro ma necessario sapere è stato dimenticato molte volte o, meglio, nascosto sotto il tappeto del timore e dell’indifferenza, salvo tornar fuori ogni tanto come la polvere della nostra cattiva coscienza.

L’ultimo episodio, tutt’altro che secondario, di questo oblio lo stiamo ancora attraversando. A distanza di tempo cerco di ricordare quel che mi veniva da pensare più di un anno fa, quando, dopo l’ubriacatura estiva, seguita al primo lockdown, nell’autunno del 2020 ci ritrovammo a fare i conti con le nostre incapacità e la nostra sventatezza. Da quell’ “inverno del nostro scontento” , che seguì il brusco risveglio dal torpore di una vita impoverita ma sentita come piena, abbiamo assistito a molti cambiamenti, nelle singole persone, nella società, al governo, di questo nostro sciagurato paese che oscilla sempre, come aveva visto bene Leopardi, tra anarchia, cinismo e servitù, senza sapere mai a cosa decidersi.
Allora cominciai a pensare a quel che ci stava accadendo partendo dai giovani. Quel che segue è in fondo la ripresa di una pagina di diario di quei giorni.
Partiamo da una premessa che dovrebbe essere ovvia: così come l’età matura o avanzata non è necessariamente portatrice di saggezza, anche la giovinezza non è per nulla garanzia di sano e vitale rapporto con l’esistenza. Anzi, diciamolo subito, la giovinezza è in sé un rapporto tendenzialmente distruttivo con la vita.
Senza scomodare più di tanto Freud, si dovrebbe tener conto del fatto che la pulsione di morte è più forte proprio nella persona giovane, nella quale, per altro, è più forte anche il principio di piacere. Può sembrare una contraddizione ma non è così; meno presente è il principio di realtà, più alte sono le aspettative e la determinazione nel perseguire l’obiettivo del piacere, e questo a tutti i costi. Che ne siamo consapevoli o meno, la cosiddetta sensazione di invulnerabilità nei giovani è soltanto l’altra faccia della loro aggressività.
Prendiamo la guerra in corso, considerandola non dal lato politico ma da quello antropologico. Soltanto qualche vecchio generale malato, o qualche capo di stato con pulsioni imperiali, la desidera e se sono i giovani che vanno a farla non è soltanto per ovvie ragioni fisiche e perché il potere li obbliga. No, la guerra ai giovani piace (così come piacciono le risse e i pestaggi, che in fondo sono forme inferiori e vili della guerra, una loro imitazione); rischiare la vita e dare la morte fa parte del loro essere giovani. Non ci si può fare nulla; è la natura, la loro natura, l’altra faccia “romantica” dell’amore ecologico.
(Tornando per un momento alla Grande Guerra e ai piani alti dell’intellighentzia europea di quegli anni, si vada a leggere quel che scriveva nel primo dopoguerra il giovane Ernst Jünger in Tempeste d’acciaio e in La battaglia come esperienza interiore. Un solo piccolo esempio della prosa di quello che diventerà uno dei pensatori più importanti e anche più inquietanti del XX secolo: “La guerra è umana quanto l’istinto sessuale: è legge di natura, perciò non ci sottrarremo mai al suo fascino. Non possiamo negarla, altrimenti finiamo divorati”.)
Anche l’affetto dei bambini per i vecchi va un po’ ripensato. I bambini sono affascinati dai vecchi perché sono così diversi da loro, come strane figure mitologiche. Li guardano con curiosità, vogliono anche loro bene, certamente, ma come si vuol bene ai personaggi della fiaba preferita.
Poi ci sono anche i meno giovani che si comportano da incoscienti, ma lo fanno venendo meno alla loro natura di adulti, ignorandola da grandi imbecilli o adeguandosi all’andazzo pseudoideologico dei nostri tempi che vorrebbe tutti giovanilmente pronti a giocarsi la vita pur di negare l’ineluttabilità dell’invecchiare. Ed eccoli andare in palestra, fare inutili corsette per dimostrare a se stessi e agli altri chissà cosa. Non ho nostalgia dei vecchi di paese seduti la sera davanti alla porta di casa a chiacchierare, lavorare all’uncinetto o intagliare un pezzo di legno per un giocattolo da regalare al nipotino, ma credo che le coppie di anziani che si sfiniscono nell’esibizione del loro giovanilismo siano se non altro patetici di fronte a quell’antica dignità. “Ripeness is all…”, ammoniva il vecchio King Lear, per bocca del giovane Edgar.

Traballante e insicuro sulle proprie basi esistenziali, quel soggetto non ben definito che, in mancanza di parole e concetti adeguati, ci ostiniamo a chiamare “uomo” è totalmente in balia dei fantasmi di desiderio che lo attraversano e lo permeano intossicandolo. Se è vero che l’uomo è ciò che desidera, se è vero che il contenuto del soggetto dipende dalla natura dell’oggetto desiderato, allora nel nostro tempo, qui e ora, siamo in presenza di una particolare metamorfosi dell’antropogenesi descritta da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito. L’“uomo” con cui abbiamo a che fare è il perfetto nichilista, ovviamente del tutto inconsapevole di esserlo e proprio per questo “perfetto”, compiuto. Nietzsche ammoniva che “l’uomo preferisce ancora volere il nulla piuttosto che non volere…” e si riferiva agli ideali ascetici; ora, di fronte alla pandemia, nella fase seguita al lockdown, l’“uomo” si comportava come se pensasse che “è meglio morti che poveri e annoiati”. Hegel ci diceva che il passaggio all’umano consisteva nel rischiare la propria vita biologica in nome di un valore di puro prestigio, nel riconoscimento. Oggi assistiamo alla caricatura di questo processo. La vita è messa a repentaglio in nome del diritto al benessere economico e al diritto di divertirsi. E qui si impone, com’è evidente, il primato della giovinezza, ma si tratta di un’idea malata di giovinezza che contagia tutta la società. La malattia è evidente nella poco nobile angoscia di chi sente minacciata la “libertà” di andare a zonzo nei centri commerciali, frequentare pizzerie e discoteche, sciare. Se la vita è messa a repentaglio per questi “valori”, il nulla, un nulla meschino, è dietro l’angolo.

Sono un vecchio professore e ho passato la vita in mezzo ai giovani, da quando avevo anch’io poco più di vent’anni. Credo di conoscerli abbastanza bene e ho frequentato generazioni anche molto diverse tra di loro. Li ho amati e li ho detestati; li ho amati perché per una persona sana di mente non è possibile fare altrimenti e li ho detestati per lo stesso motivo: rappresentano quanto di meglio e quanto di peggio c’è nell’umano, inestricabilmente mescolati. Il meglio è facilmente riconoscibile ed è sostanzialmente lo stesso in ogni tempo, il peggio varia a seconda delle epoche e mostra la direzione della strada che di volta in volta si sta percorrendo.
Il fatto è che ci sono molte ragioni per le quali vecchi e giovani sono irrimediabilmente avversari. Una di queste la sottolinea Jean Améry in un bel libro sull’invecchiare. I vecchi hanno a che fare con il tempo; quello trascorso, più o meno pieno e intenso, e quello che ancora resta, un futuro nella maggior parte dei casi già definito; i giovani hanno a che fare con lo spazio, il mondo da occupare, dove trovare un posto, che spesso è ancora occupato da un vecchio. È questa la ragione per cui sono ossessionati dai territori, dai luoghi in cui stare o passare il tempo, siano questi la discoteca, il bar, i campi sportivi, le palestre, le piste da sci, ma anche la scuola, luogo di passaggio per eccellenza. La scuola lo è sempre stata in qualche modo, ma questo, che era solo uno dei suoi tanti aspetti, ora è diventato quello dominante. La maggior parte dei ragazzi non vede l’ora di uscire da quello che percepiscono come un universo concentrazionario da attraversare il più presto possibile e con il minor danno. Là fuori c’è il “mondo vero” che li aspetta, magari percepito come un po’ inquietante e incerto, ma sicuramente il loro vero spazio in cui aggirarsi liberamente. La scuola per loro è artificio e niente di quello che vi accade è davvero reale, se non quanto in essa vi è rimasto di coercitivo (regole, orari, compiti, interrogazioni). Non facciamoci ingannare dai casi, per altro sempre più rari, di ragazzi che “amano” la scuola e che addirittura sembrano provare nostalgia per il tempo trascorso lì dentro. A parte l’essere eccezioni, la loro affezione è frutto di un equivoco, quello di vivere contemporaneamente in due spazi, uno bene o male strutturato (il “dentro” famiglia-scuola-famiglia) e un altro indeterminato (il “fuori” attraente-respingente).
La volontà di sapere, che se è autentica credo debba essere profondamente intrecciata a molti turbamenti e fonte di veri pericoli per i nostri idola, è quasi del tutto assente nelle nuove generazioni e anche in quelle un po’ meno nuove. Da molto tempo è stata sostituita, a tutti i livelli, da una volontà di potere (non di potenza!) che ritroviamo, in una forma per me disperante, anche nel rapporto che i giovani hanno con la conoscenza e la cultura in generale. In fondo è una vecchia storia; si cerca di conoscere ciò che serve a “governare” la vita, il resto può essere, quando va bene, al massimo uno svago e un diversivo. Ogni tanto bisognerebbe ricordarlo a chi si occupa di educazione.
Sono convinto che la didattica a distanza non ha prodotto e non produrrà nessun danno irreparabile alla formazione dei “nostri ragazzi”, né alla loro psiche, che già da molto tempo s’imbambola per ore davanti al computer e alle altre macchinette. Un po’ di tempo sottratto al Grande Gioco delle Finzioni, cercando di capire Kant o la trigonometria non farà loro male. (E poi, come ha detto un mio vecchio amico, non è forse il libro la più antica forma di DAD?) In ogni caso, questa situazione, sicuramente negativa, ci mette però di fronte, tutti, alla debolezza strutturale e concettuale dei fondamenti del nostro sistema educativo. La nostra “scuola in presenza” è già da tempo malata e la “scuola in assenza” ne è soltanto la caricatura, un’inevitabile cattiva imitazione che però rivela la natura dell’originale e, come in un calco, ne mette a nudo tutte le mancanze, i vuoti. Aggiungo che in questo momento mi sembra del tutto secondario, e comunque fuorviante, insistere sull’aspetto socializzante della scuola, che pure ha la sua indiscutibile rilevanza. Mi pare che la sua funzione più importante non sia la stessa di una bocciofila (se ne esiste ancora qualcuna), dei corsi di ballo per pensionati o di un centro sociale. O no?
E poi, come sempre, è anche una questione di qualità, carattere e tempra delle persone. Andate a vedere chi aveva diciassette o diciotto anni in Italia fra il ’42 e il ’44, in piena guerra, quando saltavano le sessioni d’esame, non c’erano i temi della maturità, non si faceva il computo delle assenze, si veniva promossi o bocciati coi voti del primo trimestre e, ovviamente, non c’era la DAD. Hanno frequentato a salti la scuola e si sono diplomati e poi laureati in quegli anni, o poco dopo, uomini e donne come Rossanda, Vasoli, Nono, Camilleri, Sartori, Scalfari, Calvino, Napoleoni, Volponi, Sellerio, Basaglia, Sgalambro, Chinnici… e tantissimi altri di tutte le discipline, umanistiche e scientifiche, che io non conosco, ma che sono stati poi dei maestri nel loro campo. Una bella infornata di giovani teste ben fatte, ragazzi che in momenti più difficili di questo nostro hanno continuato a studiare e a pensare, e qualcuno ha trovato anche il tempo di andare in montagna coi partigiani. Certo, non è del tutto corretto fare questo tipo di confronti (e poi quelli citati facevano parte di una élite; poi c’è il problema dell’istruzione di massa che non può essere sottovalutato, ecc. ecc. ), ma sarà necessario, prima o dopo, cercare di capire che tipo di mutazione antropologica ci sta investendo, al di là del maledetto virus!? Non ci sono soltanto le varianti del covid.
Inserendo poi nella lamentatio il riferimento ai costumi degli italiani, forse qualcuno ricorda che a ridosso delle vacanze di Natale di quell’anno si è dato il teatrino insopportabile di un dibattito in malafede che vedeva affiancate e contrapposte varie tipologie di aperturisti (a seconda degli interessi e delle proprie paturnie e ossessioni, con aspetti a volte da ripicche tragicamente infantili: “se si apre questo perché no quest’altro?!”) . Mi sembrava che tutti, secondo presunte logiche di cui non erano nemmeno padroni, cercassero di occultare l’evidenza di un disastro sociale e ideologico in cammino da ben prima della pandemia e che questa aveva reso dirompente.
Poi mi era capitato sott’occhio l’ultimo rapporto del CENSIS e vi leggevo, senza tanta sorpresa, che gli italiani avrebbero adottato in maggioranza il principio del “meglio sudditi che morti”, disposti
a rinunciare alle libertà personali in nome della tutela della salute collettiva, lasciando al Governo le decisioni su quando e come uscire di casa, su cosa è autorizzato e cosa non lo è, sulle persone che si possono incontrare, sulle limitazioni della mobilità personal.
Falsi e bugiardi, perché bastava vedere quello che accadeva per le strade e le piazze delle nostre città in quei giorni di fregola da shopping e da aperitivo. In ogni caso è uno strano paese questo, che percepisce il rispetto delle proprie regole come sudditanza; non solo, più di un terzo dei nostri connazionali era
pronto a rinunciare ai propri diritti civili per un maggiore benessere economico, introducendo limiti al diritto di sciopero, alla libertà di opinione, di organizzarsi, di iscriversi a sindacati e associazioni.
Poi sono arrivati i vaccini e si aperta la nuova fase, dentro la quale ancora ci dimeniamo, o come rassegnati o come ossessionati, difficilmente mettendo in campo, per motivare le nostre scelte, istanze diverse da quelle di un inguaribile, radicato individualismo. Il “meglio sudditi che morti” non è, come sembra, in contraddizione con il “meglio morti che poveri e annoiati” di cui sopra (a cui in tempi di contestazione del vaccino e del green-pass andrebbe aggiunto, per alcuni, un “meglio morti che asserviti a un potere bio-politico”). Sono varianti di una costante oscillazione. Si tratta sempre delle “usanze” e delle “abitudini” di cui parlava Leopardi. Il carattere degli italiani è “plastico”, si adatta al momento; si sbandierano principi in cui non si è creduto fino a un momento prima, pronti a non crederci più un momento dopo.
Il fatto è che siamo “ brava gente” a momenti alterni, a seconda di quel che ci è più conveniente: “sentimentali”, a volte in maniera indecorosa, ma più spesso cinici, come appunto ci ricorda il Poeta o, nel migliore dei casi, come diceva Prezzolini, oscillanti fra l’essere fessi e l’essere furbi. Da quel rapporto risultava anche che quasi la metà degli italiani sarebbe favorevole alla pena di morte. E anche questo la dice lunga sulla confusione e sullo sbandamento etico e politico della nostra coscienza collettiva.
Forse l’umanità ha bisogno di un lungo, lunghissimo anno sabbatico.

P. S. Nell’introduzione al rapporto CENSIS dell’anno 2021 si insiste sul rapporto degli italiani con l’“irrazionale”. Il discredito che, spesso ingiustamente, accompagna questa parola è qui del tutto appropriato. In questo caso, infatti, non c’è niente di nobile, accostabile, per capirci, alle credenze della Grecia arcaica, al misticismo medievale o a certi aspetti di filosofie tardo-romantiche. Qui l’irrazionalismo si manifesta nelle forme pacchiane che sono frutto soltanto di ignoranza, sottocultura da internet e cattive letture, cioè la vera “distruzione della ragione”.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!