La “bella anima sporca” di Pier Paolo Pasolini

GIANNI CHECCHIN
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Caro Pasolini,

mi rivolgo direttamente a te nella ricorrenza dei tuoi “cent’anni di solitudine”. Adotto questo malinconico espediente, invece del più tradizionale articolo, perché vorrei parlare di te e con te come si parla a qualcuno che esiste, che vive ancora, come una persona che avrei voluto conoscere non solo attraverso la sua opera ormai consegnata alla storia. So che questa lettera aperta, già nella sua intestazione, scatenerà le ire di molti fra coloro che ti amano, ti ammirano, ti ritengono il più importante intellettuale italiano della seconda metà del Novecento, e che in questi mesi ti dedicano libri, articoli, convegni celebrativi e, a volte, un po’ beatificanti. So anche, però, che a te sarebbe piaciuto “bella anima sporca”, perché questo in fondo tu stesso sapevi di essere. L’hai detto e scritto in mille modi diversi, ma la sostanza è quella; tu sei, o meglio avresti voluto essere, come i tuoi amati sottoproletari e borgatari, bello e sporco, se prendiamo queste parole come segni di una condizione esistenziale e di un destino accettato fino in fondo, in tutta la sua lucentezza e ambiguità.

Però tu sei anche un intellettuale (forse non il più importante della seconda metà del Novecento, ma sicuramente quello con cui è più interessante confrontarsi), con tutto ciò che questa antipatica parola si tira dietro. E quindi, come tutti gli intellettuali, oltre che “bello e sporco”, sei anche antipatico, come il tuo corvo parlante in Uccellacci e uccellini. Da ragazzo diventare un intellettuale mi sembrava la meta da raggiungere, io proletario, figlio di operai che si stava per iscrivere a Filosofia negli anni della contestazione. Ero quindi uno di quei giovani che tu, in una anche troppo famosa non-poesia, detestavi. Io, però, ero  un proletario. Mia madre, vedova, lavorava otto ore al giorno in una mensa aziendale di Porto Marghera per farmi studiare e io non capivo proprio perché tu ce l’avessi così a morte con noi che scendevamo in piazza per tutti quei più o meno confusi e nobili motivi che sappiamo. Poi, col passare degli anni, ho capito: ce l’avevi con noi proprio perché facevi fino in fondo, con partecipazione e sofferenza, il tuo lavoro, quello dell’intellettuale, appunto, che è un lavoro antipatico e “sporco”. Certo, allora decine di altri intellettuali vedevano in quei giovani l’avanguardia di una possibile Rivoluzione, ma tu facevi parte della categoria critica e diffidente nei confronti del movimento (come T. W. Adorno in Germania, che in una lettera a Marcuse, dopo l’episodio delle tette e ciò che ne era seguito, così scriveva: “…in esso (il movimento) agisce anche una piccola dose di follia, che è teologicamente affine al totalitarismo”; o come R.Aron che definiva il maggio francese un “rivoluzione introvabile”). Eri tra coloro che in certi momenti della storia si mettono un po’ di traverso rispetto agli eventi, con qualche pensiero fastidioso e irritante, consapevoli per altro di non poter influenzare nessuno, o quasi, tutt’al più in grado di provocare qualche polemica, guarda caso quasi sempre solo tra intellettuali. 

L’Espresso, 16 giugno 1968

Quindi, tanto per cominciare, soffermiamoci un po’ su queste figure, da me un tempo ammirate e con le quali, sia pure marginalmente, anch’io condivido qualche aspetto. Se ci pensi, suona quasi inopportuno definire intellettuali pensatori come Platone, Spinoza o Nietzsche, per parlare solo di qualche filosofo. Invece il termine sembra giusto per definire Voltaire, Sartre o Marcuse (faccio nomi grossi perché così si capisce meglio quello che voglio dire). Che cosa distingue, anche se a volte sottilmente, gli uni dagli altri? Ciò che distingue gli Spinoza dai Voltaire, i Nietzsche dai Sartre è che per i primi il “lavoro intellettuale” consiste prevalentemente nella produzione di, chiamiamole così per comodità, idee; la proccupazione fondamentale dei secondi, invece, è di farle circolare. I primi non hanno fretta, confidano nel lungo periodo, sanno che prima o dopo la “verità”, o la forza, di ciò che vanno dicendo si farà strada (“Pensieri con passi di colomba guidano il mondo”, diceva Nietzsche/Zarathustra);  i secondi hanno bisogno di mettere subito alla prova le loro analisi, sono immersi nel presente fino al collo, e in qualche modo sono anche diffidenti nei confronti di sé stessi e per questo devono confrontarsi continuamente. Questo del confronto è il vero tormento degli intellettuali (che però senza di esso non saprebbero letteralmente che fare), mentre lo è solo occasionalmente dei pensatori “creativi”. Bada bene, non voglio dire che i Sartre non sono “produttivi”; è che vivono in un mondo in cui è più importante mettere in pubblico ciò che pensano, e inevitabilmente si adattano e si aggiustano sulla realtà, soprattutto nello stile, che è sempre la spia di quel che è un uomo. Quindi Nietzsche sarà sempre “inattuale”; Marcuse è anche troppo “attuale”, nel senso di appiccicato al proprio tempo, tanto che adesso quasi nessuno lo legge più. Ecco, tu sei un intellettuale “sporco” (e questo è uno dei significati che voglio dare a questo aggettivo), anche perché non appartieni in pieno a nessuna delle due categorie. In fondo non hai, perdonami se lo dico così direttamente, nessuna idea originale (ma chi le ha più ormai da un secolo a questa parte?), e nessuno più di te aveva l’urgenza di dire ciò che pensava, ossessionato da quello che tu vedevi come un orrendo presente.

Disperatamente volevi avvertirci del disastro che ci veniva incontro, volevi che prendessimo coscienza di una realtà che stava macinando in modo subdolo la nostra umanità,  ed in questo sei un vero intellettuale moderno.  Nello stesso tempo la tua critica si fondava su categorie e valori che tu stesso sapevi essere obsoleti, ma per te anche gli unici a dare un senso, diciamolo con semplicità, alla vita degli uomini. Il tuo mondo contadino, paleo-operaio, il tempo del Mito e dell’Origine, in base al quale giudicavi il ripugnate universo consumistico, tu, nel profondo della tua anima, sapevi benissimo che non era mai esistito, ma era là, saldo e immutabile, nel tuo “Iperuranio storico” (perdona l’ossimoro, ma per chi come te pensa che la contraddizione, non quella dialettica, sia vitale, credo sia anche accettabile). Altro che “materialismo storico”! Di materiale nella tua opera ci sono i corpi, degli esseri umani, ma anche i corpi delle case, delle strade, dei paesaggi desolati dei tuoi film più belli; tutti quei corpi, cioè, destinati a svanire dalla nostra presenza ed esperienza, e a rimanere però in eterno come “il sogno di una cosa”. Il tuo giovane, antico marxismo, forse, è tutto qui, ed è già molto; molto più, probabilmente, di tanti disincantati raffinati marxismi artificiosi. (Per chi non lo sapesse il titolo del tuo primo romanzo è una citazione dalla lettera di Marx ad A. Ruge del settembre 1843; avevate più o meno la stessa età).

Perdonami, ma devo insistere ancora un po’ su questo tuo aspetto. In un’intervista televisiva su Totò tu definisci il “comico” in un modo che, secondo me, va bene anche per definire te come intellettuale. Tu affermi che “un comico esiste in quanto cliché di sé stesso”; è un momento inderogabile, a un certo punto “non può più uscire da sé stesso”. Vale anche per te. Il tuo essere un intellettuale significa non poter più uscire dal ruolo, o se vuoi dal compito che ti sei assegnato, o che il destino ti ha consegnato, o dalla posa che da un certo momento hai assunto, perché forse avevi capito che solo così ti avrebbero ascoltato. E non intendo tanto la coerenza, la fedeltà alle proprie idee, tanto meno una maschera, quanto l’identificazione totale con la propria immagine, e quindi in un certo senso il suo irrigidimento. Totò è grande perché qualunque cosa faccia (recitare in un film scadente, o in un tuo film, fare l’ospite di Mina a Studio Uno, fare il Principe de Curtis) non può uscire da Totò. È diventato quel che si dice, in modo magniloquente, un’icona. Lo stesso vale per te. Che tu scriva poesie, romanzi, articoli di giornale, saggi di letteratura, che tu giri un film o partecipi al Processo alla tappa di Zavoli, ripeti il tuo cliché, che è ciò che ci permette di riconoscerti subito, dalle prime parole, dalle prime immagini. E se vogliamo dire qual è il tratto di questo cliché che balza agli occhi in ogni circostanza, è che tutto ciò di cui parli ti riguarda profondamente, nell’intimo, senza quasi presa di distanza, diversamente da ciò che fanno quasi sempre tutti gli intellettuali. Il famoso “spirito critico”, di cui pretendono essere le sentinelle, esige da loro un certo distacco. Sartre, in una frase famosa, così si esprimeva : “L’intellettuale è colui che si occupa di ciò che non lo riguarda.” Da qui il tipo di engagement di cui il filosofo francese è il campione. Niente di più lontano, quindi, dal tuo cliché. Questo non significa che non eri in grado di avere uno sguardo lucido sulla realtà. Anzi, era proprio quella “passione” che muoveva la tua “ideologia” e ti ha permesso, in un certo senso quasi imbrattandoti di quella realtà, di capire cose che ad altri, preoccupati di non sporcarsi più di tanto le mani, sfuggivano.

Passando in treno, nei giorni d’oggi, da Casarsa, dove PPP visse da ragazzo e dove è sepolto.

Ecco, tu sei un intellettuale che rivendica continuamente questo ruolo e al tempo stesso vi si sente a disagio e quasi lo rifiuta. Sei un po’ come Rousseau. In te la cultura ti porta a contestare la cultura, almeno una certa “cultura” (o forse sarebbe meglio dire civiltà, ma non mi sembra adesso il caso di aprire il tema dell’opposizione Kultur/Zivilisation), quando questa entra in un inevitabile, devastante conflitto con la “natura”. Permettimi però di aggiungere anche che il tuo interesse e il tuo amore per quei mondi del sottoproletariato e della civiltà contadina che stavano scomparendo sotto i colpi del consumismo, o comunque stavano per trasformarsi in qualcosa che aborrivi, non erano esenti da un certo compiacimento, direi di tipo antropologico, e quindi nella sostanza occasioni di un tipo particolare di esercizio del potere. Nei tuoi “ragazzi di vita” amavi la violenta, per te ancora autentica, adesione alla carnalità della vita, ma lo facevi dal di fuori, anche se ti piaceva pensare di essere in sintonia con loro, di partecipare alla loro esistenza solo perché quando avevi tempo e voglia li frequentavi. In fondo non li amavi davvero; se tu li avessi davvero amati avresti continuato a farlo anche quando sono diventati “immondizia umana”, come tu scrivi nell’ Abiura dalla “Trilogia della vita”. In un certo senso erano per te un po’ come il popolo dei Nambikwara per Lévi-Strauss. Le borgate romane erano i tuoi “tristi tropici” e tu ne eri il poeta-antropologo, quindi solo un po’ meno freddo dei professionisti. Per essere ancora più antipatico (ma, credimi, ti voglio davvero bene e ti ammiro), aggiungerei una sottolineatura che fa lo psicoanalista Recalcati in un bel testo che ti ha recentemente dedicato e che mi sento di condividere. Ed è questa: nella poesia La realtà confessi la tua “necessità di moltiplicare infinitamente gli oggetti del godimento” (così Recalcati), e questo ti avvicinerebbe all’“anima nichilistica del discorso capitalista (…), il volto bulimico e insaziabile del capitalismo ipermoderno”. “Il segreto del suo fantasma individuale incrocia qui, in modo altamente paradossale, la perversione di fondo di quel discorso.” Non aggiungerei altro, anche perché tutto questo mi mette un po’ a disagio, così come mi mettono a disagio i tuoi viaggi-reportage in alcuni paesi del Terzo Mondo. In quest’ordine di esperienze e di racconti fatti da scrittori ti confesso che preferisco, per esempio, Verso la cuna del mondo del decadente Gozzano al tuo L’odore dell’India; mi sembra intellettualmente più onesto e umanamente più vero.

Da questo disagio provo a uscire passando bruscamente a un’altra ossessione della tua vita intellettuale, ricordando la tua critica feroce e impietosa della televisione, tema che comunque si lega al precedente. Avevi certo le tue ragioni, come l’avevano molti altri tuoi colleghi in quegli anni, per evidenziare gli aspetti negativi dei mezzi di comunicazione di massa, ma devo dirti che su alcuni punti ti sbagliavi o, meglio, omettevi o non vedevi. Forse non ti sei accorto che tra il ciarpame al servizio del potere di omologazione passava anche qualcos’altro. Quando mia madre, che sapeva appena fare la sua firma, tornava dal lavoro seguiva il programma del maestro Manzi, quello di Non è mai troppo tardi, e come lei tantissimi italiani qualcosa hanno imparato. E non mi dire che essere in grado di leggere un libro, fosse anche un romanzetto rosa, o anche solo Grand Hotel, o riuscire a scrivere una lettera decente, significa essere inesorabilmente assoggettati alla sotto-cultura dominante che fa strage della vecchia cultura popolare. (Tra l’altro, uno dei primi libri che mia madre, con l’aiuto del maestro Manzi, è riuscita a leggere per intero è, guarda caso, un romanzo della tua amica Maraini). Per quanto mi riguarda personalmente, io sarò per sempre grato a chi ha voluto i grandi sceneggiati di Bolchi, Majano, Cottafavi, D’Anza, Landi, ecc., che da ragazzo mi hanno spinto a leggere, più di quanto non abbia fatto la scuola, i grandi romanzi. Gli attori erano oltretutto quanto di meglio poteva offrire il teatro di quegli anni. Il vecchio Karamazov avrà per me sempre il volto di Salvo Randone, Kirillov quello di Warner Bentivegna, Anna Karenina quello di Lea Massari,  e questo ogni volta che rileggerò quei capolavori. E a proposito di teatro, qualcuno ricorderà la straordinaria stagione dei Giovedì della Prosa. Ho imparato allora, da quell’appuntamento settimanale che non perdevo mai, a conoscere Goldoni, Ibsen, Čechov, Pirandello, Eduardo, Arthur Miller, Tennesse Williams, Eugene O’Neill, Strindberg, Osborne, Beckett ecc. ecc., ad ammirare lo straordinario talento di interpreti come Paolo Stoppa, Rina Morelli, Gianni Santuccio, Romolo Valli, Rossella Falk, per fare solo qualche nome. Quando mai avrei potuto, io giovane proletario, assistere a quelle opere da una platea teatrale? Non solo, ho capito cos’era il cinema d’autore guardando avidamente il ciclo dedicato a Bergman negli anni Sessanta; Il settimo sigillo e Il posto delle fragole sono diventati allora per me il metro di valutazione di un film. Ma poi c’era anche il Maigret di Gino Cervi, il Nero Wolf di Tino Buazzelli, ma anche il teatro divertentissimo di Gilberto Govi… Serate indimenticabili, incollati alla tv, io mia madre e mio fratello, una famiglia del “popolo” che, tra l’altro, conosceva molto bene quel mondo contadino che tu hai mitizzato, che per noi aveva certamente ancora il fascino delle serate da filò a sgranare pannocchie di granturco o delle giornate piene di sole della vendemmia, ma che ci aveva lasciato addosso anche la paura che ci incuteva il vecchio Attilio quando, bestemmiando, sbatteva contro il muro i gattini appena nati. L’età del pane, quella dei “consumatori di beni estremamente necessari”, tu l’hai conosciuta solo dal di fuori, come anche tu ammetti un po’ sbrigativamente nella lettera a Calvino dell’8 luglio 1974.  Da poeta-antropologo, quale tu sei, vi hai visto solo il lato buono (compreso nel “buono” anche quello “feroce”, che però, in quanto aspetto inevitabile del “naturale”, tu hai poeticizzato). Ma, ti assicuro, non c’era niente di poetico nella cupa violenza che attraversava spesso i campi e negli incesti che si consumavano in stanze fredde o al caldo delle stalle. Materia forse da poeta tragico, non certo da poeta elegiaco, quale tu sei, nonostante tutto.

A questo proposito, devo dirti qualcosa sulla tua poesia. Da giovane non l’amavo molto; mi sembrava irrisolta, velleitaria e a volte sciatta, prosaica, e nello stesso tempo presuntuosa. Il mio poeta di riferimento, in Italia, era Montale che tu definivi un “pessimista metafisico”, adagiato nel fondo della sua riservatezza borghese. Lui ti aveva risposto nella Lettera a Malvolio e quello che diceva del tuo “materialismo storico mescolato al pauperismo evangelico” mi sembra ancora oggi una buona, anche se parziale e leggermente malevola, sintesi della tua visione del mondo. A distanza di tempo, però, devo ammettere, per quel che vale la mia opinione, che alcuni tuoi versi rimarranno come prova folgorante di come si possa fare poesia civile in un paese che ne sa fare poca e spesso brutta. Sarà forse perché abbiamo cominciato con quell’ingombrante monumento, che è come se avesse toccato già all’origine tutte le corde della nostra lingua poetica al loro livello più alto, lasciando pochi margini a chi è venuto dopo. In alcuni di quei margini si sono ritagliati un posto altissimo in pochi e a fatica. Il canto della pietas civile e dell’indignazione, però, dove lo troviamo? Nel Novecento, sicuramente, tu sei il più deciso nel far risuonare quelle corde, e il più alto. Basterebbe Le ceneri di Gramsci per riservarti un posto d’onore, che forse tu rifiuteresti.

“Cos’è che rende scontento il poeta?” Ti chiedevi parlando del tuo documentario La rabbia, in cui a un certo punto Giorgio Bassani legge una tua poesia dedicata a Marilyn Monroe che mi commuove sempre fino alle lacrime. Ecco, qui l’elegia, la pietas e l’indignazione civile si fondono in versi bellissimi.

© Luc Castel/Collection particulière

Ma la poesia è cosa ardua, lingua asciugata, secca come un osso (diceva, se non sbaglio, Zanzotto), poco commestibile, e delle tue opere, nella nostra memoria, forse rimarranno di più i tuoi film, anzi alcune immagini-poesia: la morte di Accattone, quella del povero Stracci appeso alla croce ne La ricotta, la figura del più (im)probabile dei Gesù sullo sfondo dei Sassi di Matera, gli occhi sbarrati di Anna Magnani nell’ultima scena di Mamma Roma, il volto impassibile e insieme terribile di Medea/Callas… Non so, ci sarà modo e tempo, chissà, per trovarti una collocazione che non sia solo quella dell’intellettuale più o meno scomodo.

Scrivo le ultime righe di questa ormai troppo lunga lettera seduto in un bar in riva alla Giudecca. Qui vicino c’è la sede di Rifondazione Comunista, un tempo del Pci. Passandoci davanti mi sono fermato un momento e ho sbirciato dentro, dove a un paio di tavoli giocavano a carte uomini anziani. Alle pareti ritratti di Lenin, Togliatti, Berlinguer, Gramsci. Accanto all’entrata c’è un’edicola votiva con Cristo Salvatore. Mi sembra il posto adatto per prendere congedo. 

Vedo passare dei ragazzi, portano felpe e giubbetti con le scritte di lontane università americane di cui probabilmente ignorano tutto; parlano a voce alta, hanno l’aria aggressiva e annoiata, non sembrano andare da qualche parte. Mi prende una botta di malinconia perché mi viene subito in mente il testo in apertura di  Lettere luterane, I giovani infelici. E chissà cosa avresti scritto oggi.

I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica. Oppure sono maschere di un’integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà.

Questo scrivevi nel 1975, qualche mese prima di andare a morire, e quel che più colpisce è che rimproveravi ai giovani la stessa incapacità di essere felici che era diventata anche la tua. E allora penso: come si fa a non capire che dopo avere descritto tutto ciò che ti circondava come preda di “una mortuaria vitalità”, di un degrado irreversibile, di una infinita tristezza che stinge su ogni aspetto della vita una volgare volontà di godimento da puro consumo, come si fa, ripeto, a non capire che tu volevi, e potevi, soltanto morire, come artista e come uomo? Dopo quello che hai scritto allora, dopo aver girato le scene dell’ultimo film (quel Salò/Sade che il tuo amico Moravia ha definito “elegante, lucido e al tempo stesso fantastico e funebre”, forse il tuo capolavoro), cos’altro avresti potuto dire o fare se non morire o tacere?

Adesso però basta. Di politica e di scuola, magari parliamo un’altra volta. L’aria e il cielo di questa primavera veneziana invitano a  rilassarsi un po’, nonostante tutto (nonostante ci sia un guerra che ci riguarda, nonostante gli strascichi di una pandemia, ma non credo che tu abbia avuto queste ultime notizie, ed è meglio così). Se tu fossi qui non vorrei più parlare di queste cose. Ti porterei un po’ a spasso per quest’isola particolare, che probabilmente non conosci, e poi andremmo a pranzare all’Altanella, qua vicino; sono sicuro che ti piacerebbe. Verso sera ti lascerei ritornare là, su quella sporca spiaggia di Ostia, dove sei stato abbandonato per tutti questi anni, ma senza più inquietudini, ormai pacificato.

Con affetto e riconoscenza.

immagine di copertina: Vittorio La Verde. Pier Paolo Pasolini nella sua casa romana, 1965.

La “bella anima sporca” di Pier Paolo Pasolini ultima modifica: 2022-04-04T16:29:36+02:00 da GIANNI CHECCHIN
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