Leonora e le altre

Leonora Carrington, con il suo “Oink”, normalmente visibile alla Guggenheim di Venezia, è tra le artiste, danzatrici, scrittrici e intellettuali di diverse parti del mondo, in mostra in una sala della Biennale svelando il contributo dato dalle donne ai principali movimenti culturali del loro tempo, surrealismo compreso. Un contributo non passivo da muse ispiratrici ma fattivo e attivo.
SANDRA GASTALDO
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Negli anni, chissà quante volte, aggirandomi nelle sale della collezione Peggy Guggenheim a Palazzo Venier dei Leoni, ho posato gli occhi sui Oink (Essi vedranno i tuoi occhi), un olio su tela di 40 centimetri per 90 dipinto da Leonora Carrington.

Uno sguardo, il mio, certo distratto: da tele di maggiori dimensioni, e di più grande fama, realizzate da artisti molto celebri. E maschi. 

Mi pongo questa domanda oggi, dopo essere tornata alla Guggenheim a visitare, nel giro di pochi giorni, per la seconda volta, la mostra Surrealismo e magia. La modernità incantata (9 aprile – 26 settembre) a cura di Gražina Subelytė. 

Per la seconda volta perché, durante la prima, ho seguito il percorso stazionando davanti ai lavori più noti, senza praticamente interrogarmi su metà almeno delle opere esposte. E suoi loro autori. Meglio, sulle loro autrici. 

Un vizio il mio. O forse un condizionamento culturale. Certo una lacuna. 

A destare la mia curiosità e farmi tornare a Palazzo Venier dei Leoni è stata la 59ma Esposizione Internazionale d’Arte (23 aprile – 27 novembre). Una mostra con 180 artisti – sui 213 presenti – al debutto in una Biennale e con, per la prima volta in 127 anni di storia dell’istituzione veneziana, una maggioranza assoluta di donne. 

Max Ernst ritratto da Leonora Carrington (mostra Surrealismo e magia. La modernità incantata)

Sviluppata tra il padiglione centrale dei Giardini e le Corderie in Arsenale attorno a cinque capsule storiche, che hanno generato altrettanti filoni del contemporaneo, la Biennale 2022 di Cecilia Alemani ha il titolo di un libro di fiabe: Il latte dei sogni. Una raccolta di disegni fantastici e di storie brevi, stampata in Italia da Adelphi (2018), pubblicata originariamente in Messico in lingua spagnola nel 2013, due anni dopo la morte dell’autrice, Leonora Carrington. 

Su questo nome il cerchio si chiude. Perché Carrington è l’autrice di quel Oink che fa parte della collezione personale di Peggy Guggenheim e che in questo periodo è visibile non nelle sale “permanenti” di palazzo Venier ma nelle dépendance dedicata alle rassegne temporanee.

Cecilia Viguna, Benìgame Mamita (Biennale, padiglione centrale)

Nata in Inghilterra nel 1917 e morta a città del Messico nel 2011, Carrington, di agiata famiglia cattolica, mostrò fin da bambina un senso di indipendenza spiccato che accidentò il suo percorso di studi indirizzandola, all’età di 14 anni, a una formazione artistica a Firenze e, in seguito, a Londra. 

Aveva vent’anni quando incontrò Max Ernst, all’epoca quarantaseienne, col quale scappò a Parigi dove entrò a far parte dei circoli surrealisti. A Parigi frequentò Breton, Dalì, Picasso, Tanguy e Leonor Fini (pittrice, scenografa e scrittrice nata a Buenos Aires nel 1907, cresciuta a Trieste, morta nella capitale francese nel 1996). Nel 1938 espose alla mostra internazionale del surrealismo a Parigi e a quella di Amsterdam. Nello stesso anno si trasferì nel sud della Francia con Ernst, in una villa a Saint Martin d’Ardèche. Qui, alla pittura affiancò la scrittura (La Maison de la Peur, illustrato da Ernst) e La Débutante, pubblicato nel 1940 nell’Anthologie de l’Humour Noir di Breton. 

Il 1940 fu anche l’anno di una svolta drammatica. Ernst venne arrestato. Carrington fuggì in Spagna, scossa a tal punto da finire in una clinica per malattie mentali a Santader, dove venne sottoposta a trattamenti che descrisse nel libro Down Below (1944). Un matrimonio di convenienza con un diplomatico messicano le consentì di lasciare l’Europa e raggiungere New York. Si spostò in seguito a Città del Messico per restarvi il resto della vita. 

Rimase sempre in connessione con la diaspora artistica europea ed ebbe un rapporto molto stretto di amicizia e di lavoro con la spagnola Remedios Varo, altra pittrice ricordata da questa Biennale diretta da Alemani. 

l fulcro de Il Latte dei Sogni è nel padiglione centrale dei Giardini della Biennale, nella sala sotterranea che ospita la prima delle cinque capsule storiche dell’esposizione internazionale (sezione battezzata La culla della strega, calco del titolo di un cortometraggio, intriso di occultismo, della cineasta di origine ucraina Maya Deren, girato nel 1943 nella galleria di New York di Peggy Guggenheim). 

Attraverso tracce dell’opera di una trentina tra artiste (tra esse Carrington, Deren e Varo, ma anche le italiane Carol Rama e Leonor Fini), danzatrici, scrittrici e intellettuali di diverse parti del mondo, la sala svela il contributo dato dalle donne ai principali movimenti culturali del loro tempo, surrealismo compreso. Un contributo non passivo da muse ispiratrici ma fattivo e attivo. 

Al di là delle figure di Carrington e delle altre animatrici delle avanguardie storiche del Novecento è l’intera Biennale a sottolineare, anche nei padiglioni nazionali la cui programmazione è indipendente dalla linea tematica stabilita dal curatore, la potenza e influenza della produzione artistica femminile contemporanea. 

Leonor Fini, La Sfinge Regina (mostra Surrealismo e magia. La modernità incantata)

Non è dunque un caso che il Leone d’Oro sia stato attribuito alla statunitense Simone Leigh, invitata da Alemani a presentare alle Corderie dell’Arsenale una propria opera, ma alla quale è stato anche affidato interamente il padiglione nazionale statunitense ai Giardini: Leigh ne ha ha magnificamente trasformato le architetture neoclassiche coprendolo con un tetto di paglia e installandovi davanti un gigantesco idolo africano. Leone d’oro anche al padiglione nazionale della Gran Bretagna, allestito dalla afro-caraibica Sonia Boyce. I premi alla carriera invece sono stati assegnati a Katharina Fritsch, che ha esposto – sotto la cupola del padiglione centrale dei Giardini, affrescata da Galileo Chini all’inizio del Novecento – l’impressionate replica in poliestere e legno di un elefante, e alla cilena Cecilia Vicuña che ha dipinto, tra l’altro, la tela Bendìgame Mamita, quadro da cui è estratta l‘immagine simbolo della 59ma esposizione d’arte.

Remedios Varo, L’Orologiaio (mostra Surrealismo e magia. La modernità incantata)

Cecilia Alemani non è la prima donna cui sia stata affidata l’organizzazione di una Biennale d’arte, ma è quella che, in assoluto, ha dato maggiore spazio alla forza immaginativa femminile partendo proprio da una revisione storica del XX secolo. Lo ha fatto ragionando, attraverso le mani e le menti delle artiste, sul corpo e le sue metamorfosi, sui sogni che ne sono proiezioni immateriali, sull’ambiente in cui viviamo, che delle trasformazioni è spesso vittima. E lo ha fatto mettendo sotto i riflettori internazionali, accesi in questi giorni su Venezia, un gran numero di nomi nuovi, ma anche un ritorno, dopo le ubriacature di sperimentalismi visual/tecnologici, alla concretezza della materia. A una tangibilità creativa che rimanda alla radice etimologica dell’arte, che è la capacità di agire e produrre. L’abilità alchemica di dar forma e significato a una sostanza: sia essa creta, pigmento, poliestere, paglia. O filo di lana, che si intreccia in una maglia.

immagine di copertina: Leonora Carrington, Oink, Peggy Guggenheim Collection, Venezia

Leonora e le altre ultima modifica: 2022-04-25T15:20:03+02:00 da SANDRA GASTALDO
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