Per deformazione professionale (e un po’ per carattere) tendo alla ricerca della “nota stonata” su ogni lettura troppo autoreferenziale o celebrativa in cui mi capita di imbattermi. Oggi sono sulla pagina del sito Homofaber, per comprendere chi sia la Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship. Si tratta dell’ente che promuove l’evento nella splendida cornice della fondazione Cini nell’isola di San Giorgio. Di autoreferenzialità ce n’è molta ma, per una volta, mi riesce veramente difficile formulare una critica all’iniziativa, alla sua seconda edizione.
Gli artefici di Michelangelo Foundation sono il sudafricano Johan Rupert, fondatore della holding svizzera Richemont, titolare dei marchi Baume & Mercier, Buccellati, Cartier, Jaeger-le Coutre, Montblanc, ecc, un impero del lusso nel settore orologi e gioielli che dà conto della presenza di questi brand negli stand delle mostra, con artigiani propri e dimostrazioni delle tecniche di lavorazione. Un’occasione imperdibile per rendersi conto di come, ancora oggi, l’eccellenza di certe lavorazioni risieda nell’abilità e nella perizia umana.
Dal mondo Cartier, continuando a ricoprirne posizioni apicali nel board, proviene anche l’altro cofondatore, l’italiano Franco Cologni, e a sua volta artefice della Fondazione Cologni per le Arti e i Mestieri, ente di diritto italiano che si propone nobili scopi quali il sostengo e la promozione dell’artigianato d’eccellenza, sia attraverso iniziative culturali ed editoriali, sia con la creazione di scuole di alto artigianato.

Tra le iniziative, la creazione del premio Maestro d’Arte e Mestieri (M.A.M.) destinato alle eccellenze creative artigiane che si sono particolarmente distinte; un rimando a quei “tesori viventi” che meriterebbero di essere adeguatamente sostenuti e protetti più e oltre le loro opere, in quanto artefici e custodi della tecnica e del saper fare. E qui il richiamo è al paese ospite di Homofaber, il Giappone, che sostiene con orgoglio i propri National Living Treasure, tesori Nazionali Viventi. Il titolo, concesso dal 1950 dal governo giapponese a un massimo di 116 persone, riconosce e preserva il lavoro di chi è considerato esempio di importanti proprietà culturali immateriali. I lavori dei dodici tesori viventi sono stati trasportati dal Giappone alla Laguna e fornito lo spunto per l’allestimento dell’esposizione denominata “il giardino delle dodici pietre”.
Poco distante, in altro padiglione, è altrettanto interessante constatare le contaminazioni e gli spunti che alcuni artigiani veneziani hanno tratto dalle opere dei colleghi nipponici, dando vita a quel fecondo sincretismo che da sempre scaturisce dall’interscambio culturale e commerciale tra l’oriente e Venezia.
Dopodiché, si potrebbe dire che tutto ciò promuove un concetto estremamente elitario di artigianato, laddove i confini con il manufatto artistico tout court sono davvero labili, per non dire inesistenti. Ma poi scopro, per caso, che M.A.M. (ovvero maestro d’arte e mestieri) è anche Tonino Negri di Lodi, con esperienza maturata nel campo del disagio, a insegnare ceramica a una comunità di tossicodipendenti e una passione (comune) per il Brasile. Con Tonino , di cui avevo perso le tracce e con il quale avevamo in comune una zia (per me trovata), residente, appunto, a São Paulo, mi riprometto di sentirmi e di proporgli Venezia come prossima sede di una sua bottega, magari in uno dei tanti spazi vuoti che si sono liberati in città con la pandemia.
Comprendo allora che iniziative come Homofaber, inteso quale ente promotore di reti e iniziative sul campo, potrebbe davvero fare la differenza per Venezia e costituire la chiave di volta per costruire la città sostenibile.
A patto però non si esaurisca in un’iniziativa fine a sé stessa. Si impegni invece, attraverso la straordinaria rete di contatti e partnership internazionali di cui dispone (provate a cliccare su linkare su who we are, founders, network and partneship; a loro volta un rimando ad altri link, e poi altri ancora , quasi un “Panama papers, senza nessun fine illecito, per carità!) a gettare le basi per la creazione di quel distretto permanente dell’alto artigianato a Venezia che potrebbe fare da contraltare ad iniziative esclusivamente “business oriented” e poco o nulla sustainable, come quelle del T. Fontego dei Tedeschi, del gruppo LVMH, la più grande multinazionale del lusso al mondo. L’idea di un “fontego delle arti e dei mestieri” dove trovino sede vere botteghe artigiane di eccellenza, con accanto, i relativi laboratori e scuole annesse, non implica necessariamente l’idea di un vero e proprio unico luogo fisico, quanto piuttosto una rete di spazi diffusi a disposizione delle eccellenze; penso a delle “residenze d’artista”, analogamente a quanto già esiste in campo strettamente artistico, o ad un sistema di sovvenzioni e incentivi per il maestro artigiano “certificato” M.A.M. affinché possa affrancarsi dal rigido sistema della domanda e dell’offerta imposta dal mercato immobiliare veneziano (ancorché a oggi gli spazi liberi abbondino e la delibera comunale che vieta i negozi di paccottiglia dal centro storico, potrebbe far sperare una riduzione dei canoni locativi).
Vi è da dire che l’idea non è nuova e che tentativi analoghi ne sono già stati fatti o sono in corso. Io stessa, su queste pagine, ne ho dato conto. Occorre che i progetti escano tuttavia dal localismo, dalla parzialità dei contatti e dalle consorterie locali. Pregiudiziale, è la creazione di una domanda per un prodotto autenticamente artigiano, circostanza strettamente legata alla presenza di una residenzialità (permanente o transitoria che sia) e di un turismo di livello.


Proprio nell’ambito delle iniziative promosse da Homofaber, ho di recente assistito al convegno “l’azienda artigiana nel nuovo mondo”, tenutosi nello spazio “Squero”, (ex cantiere riattato magnificamente all’interno della Fondazione Cini). Le imprese invitate a partecipare hanno costituito la rete di imprese denominata Alto Artigianato Venezia (comitato scientifico presieduto dal prof. Stefano Micelli di Ca’ Foscari e Alberto Cavalli, direttore generale di Fondazione Cologni di Arti e Mestieri). Molti sono i progetti e gli obiettivi che accomunano le aziende fondatrici, tutte legate alla città di Venezia: Tessitura Luigi Bevilacqua, Orsoni Venezia 1888, Martina Vidal Venezia, Lunardelli Venezia, Seguso Vetri D’Arte, Mario Berta Battiloro. Imprese queste, tutte autenticamente artigiane e per definizione “sostenibili”. Ma al di là dell’autoreferenzialità di ciascun intervento, dai racconti dei rappresentanti emergono nel concreto tutte le criticità e le problematiche di chi intenda “per davvero” fare alto artigianato.
Appassionata e tenera nel contempo, è la prolusione della giovanissima Eleonora Menegazzo della M. Berta Battiloro che si chiede, quasi sorpresa, come mai sia così straordinariamente difficile trovare giovani maestranze alle quali insegnare e trasmettere la dedizione che pure in lei ha prevalso per il mestiere; di come l’esplorazione di nuovi ambiti di utilizzo di una materia alchemica quale la foglia d’oro, si sia rivelata scelta quasi necessitata. Lavorazioni complesse e “time-consuming” importano giocoforza una produzione quantitativamente limitata. Ma qui soccorre creatività e ingegno: la foglia d’oro, battuto e lavorato secondo una tecnica immutata dai tempi di Bisanzio diventa prodotto certificato ad uso alimentare e gastronomico, nella cosmesi oltre che nel design e nell’arte.
Ancora lo stesso rimando, ancorché in ambito differente, si coglie in Sergio Vidal che sottolinea come, nello specifico, non sia realistico (se non su commissione e a costi proibitivi) ipotizzare il ritorno ad una produzione di tovaglie e prodotti confezionati interamente in pizzo di Burano. Basti pensare che il numero di merlettaie (tutte anziane) presenti in isola è di sole quaranta unità, laddove ne occorrevano mediamente quindici per realizzare una sola tovaglia! Se allora è auspicabile la promozione e la riapertura di una vera e propria scuola del Merletto (quella storica chiudeva i battenti definitivamente nel 1970), il merletto fatto a mano sopravviverà nei particolari, nelle rifiniture, inframmezzato ai tessuti di nuova generazione tutti rigorosamente ecosostenibili e certificati.
Gianluca Seguso della Seguso Vetri D’Arte ritorna sul tema dell’apparente incompatibilità tra pazienza, dedizione, lungo tirocinio, elementi che caratterizzano la lavorazione non seriale e che sembrerebbero stridere con la vocazione del “tutto subito” della Z generation. Ma sarà vero? Prosegue che non vi sarebbe offerta di manodopera (anche) semplicemente perché non ci sono più i boomer, alludendo in senso lato al drastico calo demografico dell’antropocene. Per il prof. Micelli, che conclude l’incontro, la chiave per avvicinare le nuove generazioni risiede nel loro diretto coinvolgimento, nell’invito a mettere a disposizione le nuove competenze digitali al servizio delle antiche tecniche. Emblematico in tal senso l’arazzo esposto nella “sala dei cipressi delle “Relazioni meravigliose” interamente realizzato da Giovanni Bonotto (della storica Manifattura tessile Bonotto) e da Marco Bianchini con filati di coloratissima plastica riciclata che riprende temi tipicamente veneziani quali il leone di san marco e simbolismo nipponico.
Personalmente ritengo che “lentezza” del processo creativo, quell’insieme di gesti e di manualità ripetuta, di attenzione estrema al particolare, quasi in senso zen”, costituisca grande appeal per le nuove generazioni e si inserisca pienamente all’interno dei nuovi modelli di business “sostenibili. Ritengo inoltre che occorra definitivamente svincolarsi da una visione dell’artigiano necessariamente legato al milieu locale di appartenenza. Mi piace pensare alla creazione di laboratori frequentati da persone da ogni parte del mondo. Troppo spesso, prevale un’ottica campanilista, anche nella scelta e nella selezione dei partecipanti a premi o riconoscimenti di settore. Homofaber lancia invece un messaggio diverso e cosmopolita: Dalla diversità di esperienze e contesti, possono nascere ispirazioni inaspettate e feconde. La creatività si nutre di stimoli tanto più forti quanto più diversi. Salvaguardia di tecnica e tradizione per andare oltre. Il resto è museo. Qui si fa altro. Si vende e si crea ricchezza diffusa anche per gli stakeholder.
Ultimo concetto e poi concludo: la problematica della certificazione dell’artigianalità dell’opera. Alla vigilia di quella che è stata definita dalla stampa odierna “la primavera e la rivoluzione copernicana” del commercio a Venezia con riferimento alla delibera comunale che vieta il commercio in centro storico di paccottiglia ed auspica il ritorno all’artigianato di qualità, sorge il problema del controllo, la necessità di evitare prevedibili fenomeni di frodi al commercio, ciò che è stato già definito “craftwashing”. Ecco allora la necessità di protocolli e regole che definiscano incontrovertibilmente quando un prodotto possa definirsi autenticamente artigiano. Anche al fine di evitare interessi particolaristici, sarebbe auspicabile che la qualifica dell’Ente Certificatore della qualità e della veridicità dei prodotti artigiani, fosse ricercato al di fuori dell’ambito strettamente locale. se non internazionale.
Per l’Alto artigianato, il diretto coinvolgimento della Fondazione Cologni per le Arti e i Mestieri, l’invito a farsi parte attiva nel mettere a disposizione dell’amministrazione e delle associazioni locali, il proprio bagaglio di esperienze e i criteri utilizzati per la qualifica di M.A.M., sarebbero importanti.

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