Eclettico, contraddittorio, dirompente uomo del Novecento, letterato e ricercatore francese, Michel Leiris (1901-1990) [nell’immagine di copertina] è al centro dell’ultimo lavoro di Renzo Guolo, sociologo, saggista e professore all’Università di Padova. Il libro, Michel Leiris etnologo. Un terreno di lacerazione, è pubblicato da Meltemi edizioni.

Professor Guolo, ci parli del suo ultimo lavoro, 250 pagine di ricerca su Michel Leiris, biografia intellettuale di questo letterato-etnologo francese, che ha attraversato tutte le contraddizioni, culturali e politiche del “secolo breve”.
Mi permetta di partire da Magritte. Da un suo famoso quadro: il pittore dipinge una pipa eppure titola “questa non è una pipa”. Ecco, in qualche modo, questo “gioco” surrealista esprime il senso del lavoro in questione, solo apparentemente un testo di storia dell’etnologia. Certo, come recita il titolo, l’oggetto è Michel Leiris etnologo, ovvero il “secondo mestiere” di uno dei più importanti scrittori francesi del Novecento, il primo era quello dello scrittore, ma al centro del volume non sono le teorie antropologiche. Ciò che m’interessa è altro: sviluppare un tassello della complessa storia culturale delle avanguardie intellettuali nella Francia tra le due guerre mondiali, alla quale Leiris, partecipa attivamente, prima come surrealista, poi come protagonista di primo piano nel gruppo di etnologi, allievi di Mauss e Rivet, che gravitano prima sul Museo di Etnografia, poi attorno al Museo dell’Uomo; o come fondatore, accanto a Bataille e Caillois, di quello straordinario e atipico laboratorio di idee che è stato il Collegio di Sociologia. Portando, in ogni esperienza al quale partecipa, a massima tensione le contraddizioni delle scienze sociali alle quali, formalmente, si riferisce.
Leiris è, infatti, uno straordinario anticipatore. Le contraddizioni disciplinari che fa esplodere, come quelle relative al rapporto tra osservatore e osservato, tra il ricercatore e i suoi informatori, tra le diverse culture e il modo di rappresentarle, o la problematizzazione di temi, come la costruzione del testo etnografico e “l’osservazione della partecipazione”, ripresi con forza negli anni Ottanta da James Clifford e dal gruppo di Santa Fe nella riflessione sullo “scrivere le culture”, sono già in nuce in un testo straordinario come L’Africa fantasma, dirompente diario intimo della sua partecipazione alla Dakar-Gibuti, pubblicato nel 1934.
Leiris è stato considerato a lungo, in antropologia, una sorta di ”fuorilegge della disciplina”: perché nel suo libro svela ciò che non va svelato, a partire dalle contraddizioni dello statuto di una scienza sociale allo stato nascente che vorrebbe essere simile alle scienze naturali ma non può prescindere dalla sua intrinseca dimensione soggettiva. Narrando senza filtri la sua lunga missione africana, Leiris smaschera, poi, più efficacemente di scrittori come Gide, le incongruenze di un’etnologia come quella francese, espressione di un ambiente culturalmente e politicamente progressista, che si vuole emancipativa ma è, allo stesso tempo, costitutivamente legata alla sua dimensione coloniale.

Letterato ed etnologo: Michel Leiris come concilia queste sue attività?
Si sente ciclicamente lacerato tra le due dimensioni. Una che gli consente di fare i conti con se stesso, con le proprie passioni e ossessioni, raccolte poi in quella sorta di “etnografia di sé” rappresentata dalla tetralogogia de La regola del gioco: anche in chiave psicoanalitica la letteratura è, sempre, per Leiris una sorta di cura. L’altra dimensione lo “costringe”, per quattro decenni, a fare il direttore del Dipartimento dell’Africa nera dell’importante istituzione culturale in cui lavora, sottraendo tempo ed energia alla scrittura. Eppure questi due “mestieri” sono molto più connessi di quanto lui stesso ammetta e costituiscono, entrambi, momenti decisivi e intrecciati della sua esperienza personale.
Che ricezione ha avuto il lavoro etnologico di Leiris?
Mentre il suo valore letterario non è in discussione, il suo apporto come etnologo è stato messo poco in luce, soprattutto in Italia. Eppure lavori come quello sulla lingua segreta dei dogon o sulla possessione, sul sacro o l’erotismo, sono contributi importanti in etnologia e in sociologia della religione. Il mio lavoro si propone, anche, di restituire a Leiris il posto che merita nelle scienze sociali.
Certo, Leiris non è assimilabile all’amico e collega Levi-Strauss, prima ricercatore sul terreno e poi teorico della rivoluzione strutturalista. Non è quello il suo profilo. È, piuttosto, un rabdomante, che scava nelle contraddizioni della disciplina, estrae, e porta in superficie, questioni e idee che entrano in contrasto con i crismi teorici dell’ufficialità. Eppure, proprio questo suo atteggiamento, che sottolinea la necessità di non essere intellettualmente conformisti perché il conformismo, anche nelle scienze sociali, porta a letture distorte, è forse il suo contributo metodologico maggiore.

lI suo Leiris etnologo non è solo una biografia, c’è molta storia nel libro. L’individuo è sempre individuo del suo tempo. Nella biografia di Leiris c’è la Storia con la S maiuscola, quella del Novecento, il secolo delle ideologie, grandioso e tragico, attraversato da mille fermenti e conflitti durissimi. Le militanze, politiche e culturali, fanno di Leiris un attivo protagonista del suo tempo.
Impegno politico in prima persona negli anni caldi , e pieni di contraddizioni dei colpi di coda del colonialismo francese con la sanguinosa guerra in Algeria: come si manifesta nella circostanza l’impegno di Leiris?
Fu uno dei protagonisti dello schieramento anticoloniale, e promotore del Manifesto dei 121, documento degli intellettuali a sostegno dell’indipendenza dell’Algeria. Molti etnologi francesi sosterranno questa posizione, ma non tutti. Basti pensare all’amico e collega Jacques Soustelle, già delfino di Mauss e Rivet e vicedirettore del Museo dell’Uomo alla fine degli anni Trenta, che a metà degli anni Cinquanta è nominato dall’allora ministro dell’Interno Mitterrand governatore dell’Algeria. Fallito il progetto di mantenere il paese arabo nell’orbita di Parigi, Soustelle, che in gioventù aveva posizioni di estrema sinistra, diventa uno dei più accesi sostenitori dell’Algeria francese, costeggiando posizioni di estrema destra come quelle dei paramilitari dell’Oas. Posizioni che porteranno Soustelle anche alla rottura con de Gaulle, al quale si era legato negli anni della Seconda guerra mondiale.
Il libro racconta anche questa lacerazione del campo intellettuale francese. Una frattura profonda, quella sull’Algeria, con posizioni sfaccettate: si pensi a Pierre Bourdieu, allora impegnato in studi etnologici più che sociologici, o ad Albert Camus.
L’Algeria è sempre un tornante nella biografia di Leiris.
Sì, proprio ad Algeri nel 1969, ormai a guerra finita, è contestato da quanti ritengono che non debbano essere gli etnologi – nemmeno lui che aveva teorizzato il loro dovere di farsi difensori dei colonizzati -, a parlare in vece dei popoli oppressi. Amareggiato, Leiris prende atto che la sua parabola di uomo pubblico è finita e da allora tace.

Tornando allo studio sul campo, determinante per l’etnologo è stata la missione Dakar Gibuti.
La Dakar-Gibuti segna la nascita dell’etnologia francese sul campo: la Francia aveva un grande Impero ma contrariamente alla Gran Bretagna non aveva esperienza sul terreno. Conoscere è potere, e Parigi voleva colmare il ritardo, innanzitutto nelle sue colonie. Non a caso l’impegno pubblico nel finanziamento della missione sarà così rilevante. Al ritorno Leiris è disilluso nei confronti dell’etnologia ufficiale e la pubblicazione de L’Africa fantasma manda in frantumi anche gli equilibri tra studiosi, in particolare tra gli africanisti. La rottura con Marcel Griaule, capo della missione e stella nascente della disciplina, assai ostile verso il libro di Leiris, non sarà mai ricomposta. Quanto a Marcel Mauss, gl’imporranno di “fare gli studi”, di laurearsi in etnologia e sociologia, ma lo terranno a lungo ai margini. Definito un “letterato”, un “fantasista”, senza uno status scientifico riconosciuto, è paradossalmente “imbalsamato” nel museo dal quale vorrebbe fuggire. Solo il tempo gli restituirà il ruolo che gli spetta.
Vita lunga e piena, quella di Michel Leinis etnologo letterato, che il libro di Renzo Guolo racconta sotto molteplici aspetti. Quanto alle raccolte etnografiche che ha contribuito a formare – prima al Museo di Etnografia del Trocadero e poi al suo più noto “erede”, il Museo dell’Uomo di Parigi , uno dei più importanti musei etnografici al mondo, ospitato dal 1938 in un’ala del Palais de Chaillot al Trocadero – sono oggi al Museo di Quai Branly, inaugurato nel 2006, che riunisce le più importanti collezioni di arti e civiltà non europee, tra le quali i reperti della Dakar-Gibuti.



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