Attualità di Cornelius Castoriadis

La pubblicazione di “Contro l’economia” appare un’operazione editoriale molto opportuna, perché può servire a richiamare l’attenzione della nostra cultura sul pensiero di un autore non ignoto in Italia ma non molto frequentato negli ultimi decenni. Per quanto vissuto interamente nel secolo ventesimo (è nato nel 1922 e morto nel 1997), egli ha molto da dire sulle questioni di filosofia politica oggi sul tappeto, presentando un’originalità di pensiero davvero straordinaria.
ALBERTO MADRICARDO
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Contro l’economia

Esce con questo titolo in queste settimane (aprile 2022), nella collana Luiss Intempo, un’antologia di scritti di Cornelius Castoriadis, autore già attivo fin dal dopoguerra, nel 1949, fondatore in Francia del movimento e della rivista Socialisme ou Barbarie, il cui titolo riprende un motto di Rosa Luxemburg. L’autore degli scritti è impegnato sulla scena dell’economia, della filosofia e della militanza rivoluzionaria dal secondo dopoguerra  fino agli anni Novanta. 

La pubblicazione appare un’operazione editoriale molto opportuna, perché può servire a richiamare l’attenzione della nostra cultura sul pensiero di un autore non ignoto in Italia ma non molto frequentato negli ultimi decenni. Per quanto vissuto interamente nel secolo ventesimo (è nato nel 1922 e morto nel 1997), egli ha molto da dire sulle questioni di filosofia politica oggi sul tappeto, presentando un’originalità di pensiero davvero straordinaria.  

Greco fanariota, nato a Istanbul ma passato ad Atene e poi a Parigi, Castoriadis è un personaggio “dalla doppia vita” – come scrive Raffaele Alberto Ventura, che dell’antologia è il curatore e l’introduttore – perché contemporaneamente militante rivoluzionario e alto funzionario dell’Oece e poi dell’Ocse (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), una delle massime istituzioni del capitalismo mondiale. 

In virtù di questa singolare posizione, Castoriadis ha vissuto contemporaneamente da dentro – come economista alto funzionario della burocrazia capitalista – e da fuori – come militante rivoluzionario – l’evoluzione economica  e sociale dell’Occidente nella seconda metà del Novecento. In una posizione scomoda, certo, ma anche invidiabile, per avere avuto a sua disposizione notizie di prima mano sul sistema  che  voleva combattere. 

“Esecutore del Piano Marshall – scrive Ventura – Castoriadis  ne denuncia l’assurdità. Nemico del capitalismo, lo consiglia, lo analizza, lo pianifica”. Per molto tempo i “due Castoriadis”, il funzionario e il militante, l’economista e il filosofo, hanno proceduto in parallelo, in apparenza senza incontrarsi.  

Egli fu – scrive ancora Ventura – almeno tre cose: l’ideologo del Sessantotto, il grande teorico dell’antitotalitarsmo e il precorritore della critica dello sviluppo.

Da Marx a Weber

Critico radicale dello stalinismo, Castoriadis segue una parabola di pensiero che dal marxismo rivoluzionario lo porta ad a accostarsi a Weber, alla ricerca di una teoria che metta in primo piano il ruolo dell’ “immaginario” nell’ evoluzione della società.   

Fino dal testo pubblicato sul primo numero della rivista Socialisme ou Barbarie del 1949, Castoriadis mette a fuoco una differenza tra il tempo in cui Marx ed Engels pubblicarono il Manifesto del Partito Comunista e quello del secondo dopoguerra. Da allora, si è imposta la burocrazia come

strato sociale che prende il posto  della classica borghesia nella fase declinante del capitalismo, la  contrapposizione dominante nelle società è sempre meno tra proprietari e nullatenenti e sempre più quella tra dirigenti ed esecutori  nel processo di produzione.

Egli vede nell’evoluzione burocratica il destino del capitalismo, e nell’Unione sovietica la sua rappresentazione:

Nella zona russa – egli scrive – non ci sono ostacoli, né giuridici né economici, alla volontà della burocrazia  di sfruttare al massimo il proletariato, di aumentare al massimo la produzione e così di soddisfare il consumo parassitario e accrescere il potere militare. In queste condizioni il proletariato si è ridotto completamente allo stato di puro materiale di produzione

Rivoluzione o guerra

La guerra è – secondo lui – la diretta conseguenza della concorrenza tra sistemi diversi – quello americano e quello sovietico – ma accomunati  dal riconoscimento del  primato dell’economia. 

La guerra tra USA e URSS, che ai tempi in cui scriveva Castoriadis appariva molto probabile, per fortuna –o meglio, per la forza di deterrenza dell’arma nucleare – non ci fu. Ma la sua minaccia sembra in questi giorni sempre tornare sempre più incombente. 

In assenza di una rivoluzione – scriveva Castoriadis sempre nello stesso testo di presentazione della rivista – la guerra sfocerà nella distruzione di uno degli antagonisti (…). La guerra sarà comunque una svolta definitiva della società moderna, chiunque sia il vincitore. – E concludeva – La sorte dell’umanità e della società dipende direttamente dalla rivoluzione.

Le insanabili contraddizioni del  capitalismo

In una conferenza tenuta nel 1965 in Inghilterra a un gruppo di militanti Castoriadis affronta  Il tema della crisi della società moderna.

La ragione di fondo di questa crisi – egli dice – sta nella “contraddizione tra l’onnipotenza che rivendichiamo sull’ambiente fisico – in effetti la tecnica non smette di progredire e ci permette ormai di dominare i fenomeni naturali ed estrarre una quantità crescente di energia – e lo spaventoso caos, il sentimento d’impotenza che invece si manifesta quando abbiamo a che fare con i problemi della società  e della natura umana. Il funzionamento dei sistemi sociali continua a sfuggirci

Nlla società occidentale, egli asserisce: è in atto – – una grave crisi  dei valori, la società è pervasa dal cinismo. La scienza stessa, nonostante i suoi successi, è in  crisi.

Per via della specializzazione  gli scienziati non solo sono sempre più isolati dall’insieme della società, ma anche tra di loro.  – E si chiede –  Quali sono i valori che la società  offre oggi ai suoi membri? Il solo valore che sopravvive è il consumo, inteso come acquisizione di oggetti in quantità crescente, oppure di oggetti sempre nuovi.

Il che ovviamente ha il sapore dell’assurdo. 

Riguardo al lavoro:

fin dagli albori  del capitalismo, la tendenza costante del sistema produttivo è stata di togliere senso al lavoro (…) Nessuno fabbrica più delle cose, degli oggetti; i lavoratori non  producono altro che componenti, la cui precisa destinazione resta loro spesso sconosciuta.

E il movimento operaio, i partiti e i sindacati dei lavoratori? La loro burocratizzazione fa sì che essi svolgano una funzione sostitutiva della base che rappresentano e che, quando questa mostra la volontà di partecipare direttamente, venga schiacciata e dispersa per disintegrarla. 

La disgregazione sociale 

Anche nelle relazioni familiari le cose non vanno meglio. Sono necessarie delle regole nelle relazione tra uomini e donne, nell’educazione dei figli.

Qual è il ruolo della donna nella società di oggi? – si chiede –  deve essere come un uomo, al netto di qualche piccola differenza fisica?

La mancanza di chiarezza su questi problemi crea

una confusione che coinvolge anche gli uomini. […] Gli effetti più drammatici di questa incertezza vengono subiti  dalle giovani generazioni.   

In crisi sono anche le relazioni tra “maestro” e “allievo”. L’educazione era nettamente diversificata secondo le classi: a quelle superiori la cultura classica e l’istruzione superiore, a quelle inferiori  un’istruzione elementare. Anche per l’educazione classica “c’è stata una formidabile degradazione” . E la ragione, suggerisce Castoriadis,

è che la società presente non è più in grado di accedere realmente a quello che il passato è per lei. 

Quello di dare ai bambini un’educazione solamente tecnica “è un tentativo che si distrugge da solo” perché ogni preparazione tecnica rischia di diventare rapidamente obsoleta a causa dell’intenso processo di innovazione  tecnologica. Una “educazione permanente”, come invocato ormai anche dagli industriali, “per essere efficace dovrebbe  avere delle solide “basi generaliste”.   

Castoriadis vede l’avanzare di “una  profonda crisi della socializzazione”. “Scompare la vita comunitaria, i legami si dissolvono”. Ma vede nel nuovo protagonismo delle donne, dei movimenti giovanili, delle lotte per l’autonomia delle persone, e “di responsabilità nei confronti della propria vita” i nuovi possibili soggetti del cambiamento sociale.

 Se c’è una crisi della società moderna, perlomeno non appare senza via d’uscita. Anzi, contiene in sé  i germi della novità che sta già emergendo. Ma il nuovo non prevarrà automaticamente (…) non si realizzerà compiutamente, non potrà incarnarsi in un nuovo sistema sociale, come nuovo tipo di vita sociale, se a un certo punto dall’incoscienza non si passerà alla consapevolezza – l’azione cosciente di una massa di persone. Per noialtri, propiziare questa azione cosciente, aiutarla a svilupparsi quando inizia a manifestarsi, costituisce il senso realmente nuovo che vogliamo dare alle parole: Politica rivoluzionaria. 

Il ruolo  centrale della coscienza

In un Rapporto pubblicato dall’OCSE  nel 1970, in cui si sente forte e inconfondibile la voce “dell’altro Castoriadis”, l’alto funzionario, l’economista, egli contesta la pretesa, che accomuna l’ideologia capitalistica della crescita e l’economicismo del marxismo,  i quali entrambi assegnano all’economia  il primato nella riproduzione della socialità. 

Viene messo a fuoco l’andamento disomogeneo della crescita economica:

Via via che il livello di prosperità aumenta, la situazione  delle regioni e dei  gruppi sociali lasciati indietro tende a diventare sempre più insostenibile, a causa dell’aumento dello scarto relativo.

Perciò

è fondamentale rivedere il concetto di crescita ottimale alla luce del benessere sociale.

Fino a che l’economia si limita a soddisfare i bisogni elementari di sussistenza non ci sono dubbi su quello che si  deve fare, ma quando certe società sono giunte  all’abbondanza hanno bisogno di essere dirette da fini consapevoli e socialmente condivisi, perché  per “decisioni  altamente complesse con effetti di lungo termine, meccanismi di mercato mal si prestano a fornire soluzioni razionali”. 

Alla critica della “cecità dell’economia” segue la proposta:

Formulare esplicitamente la politica economica in termini di obiettivi sociali (quanti alloggi, quali possibilità d’istruzione, che livello di vita minimo per gli svantaggiati, ecc.)  avrebbe vari vantaggi. Innanzitutto permetterebbe di stimolare una discussione pubblica sugli obiettivi sociali. La natura stessa  del dibattito favorirebbe l’emergenza di un senso sociale più accentuato, sicché poi aiuterebbe a eliminare talune cause attuali di malcontento che discendono  dal carattere arbitrario del processo di crescita.

Nel testo successivo dal titolo “La crisi della società moderna”, tratto da una conferenza tenuta a Tokyo da Castoriadis nel 1970, vengono ribaditi gli stessi concetti:

Non si  tratta di rigettare puramente e semplicemente la crescita economica, ma di impegnarsi in un riesame critico  del contenuto  di questa crescita, e più generalmente dell’oggetto stesso dell’attività  economica umana.

Cioè dei suoi fini. 

 Il nuovo non si realizzerà compiutamente, non potrà incarnarsi in un nuovo sistema sociale, come nuovo tipo di vita sociale, se a un certo punto dall’incoscienza non si passa alla consapevolezza – l’azione cosciente di una massa di persone. Per noialtri, propiziare questa azione cosciente, aiutarla a svilupparsi quando inizia a manifestarsi, costituisce il senso realmente nuovo  che vogliamo dare alle parole “Politica rivoluzionaria”.

Il brano successivo è tratto dal rapporto dell’OCSE pubblicato nel 1970 dal gruppo di lavoro coordinato da Castoriadis  e ampiamente da lui stesso redatto. Vi  si riafferma la critica della natura non governata della crescita, che provoca squilibri e disuguaglianza di ogni genere:

Via via che il livello di prosperità generale aumenta,  la situazione delle regioni e dei gruppi  sociali lasciati indietro tende a diventare più insostenibile, a causa dell’aumento dello scarto relativo.

In  tal modo, osserva,

il nesso tra i vantaggi economici e sociali della crescita e i costi che ingenera diventa più complesso e difficile da inquadrare.

Si procede alla cieca, senza veri scopi che non sia quello di mantenere una crescita illimitata. 

La critica a Marx: l’enigma del “valore”

Nel piccolo ma densissimo testo dal titolo “L’enigma del valore”, Castoriadis critica apertamente la teoria del valore di Marx.  Che cos’è il valore di una cosa?  Qualcosa che può essere misurato e riconosciuta la sua identità in oggetti diversi,  che possono perciò essere scambiati.  Ma ciò è possibile solo se essi sono fatti appartenere a uno stesso spazio. Questo, lo spazio della misurabilità degli oggetti tra loro e della loro scambiabilità, a sua volta non può essere misurato e scambiato. 

Aristotele si era chiesto come fosse possibile lo scambio, ovvero la commensurabilità ovvero l’identità, delle opere umane dal momento che gli uomini in sé sono diversi e ineguali. Marx aveva risposto: la questione non si pone perché gli uomini sono, sostanzialmente, lavoro omogeneo.

La sostanza   dell’umanità è il lavoro che si attualizza nella produzione.

Ma osserva Castoriadis: “questa è mitologia”. La “base comune”, lo “spazio” di commensurabilità  viene istituito socialmente, ogni volta in modo differente.”

Ogni volta che avviene uno scambio, gli scambiatori si situano in uno spazio di  confrontabilità che è  socialmente istituito, e ogni volta in modo specifico. Dunque, prima dello scambio, deve esistere lo spazio sociale che lo rende possibile. Non essendoci un “valore” unico, stabile ed eterno, delle cose, ma relativo alle diverse società, non si può nemmeno stabilire la parte che di questo valore prodotta dal lavoro umano viene sottratta al diretto produttore e gestita dal capitalista come plusvalore . Anche il costo della riproduzione fisica del lavoratore, che costituisce la parte del valore che gli viene corrisposta,  non ha alcuna obbiettività universale, ma cambia a seconda delle società e delle circostanze. 

Quindi è impossibile fare del “Lavoro” una categoria trans-storica. Ogni società produce un surplus, che consiste “nell’accumulazione di strumenti e di trasformazioni dell’ambiente naturale iniziata all’alba dell’ominizzazione”.  

Struttura e  sovrastruttura: il primato della della natura 

Interpretando liberamente il nostro autore, potrei dire che il marxismo, riconoscendo il primato dei processi economici (dello scambio uomo – natura), della “struttura”, mantiene una sequenzialità determinista a partire da una base di fatto metafisica, mentre in realtà lo scambio uomo – natura non può non essere del tutto contemporaneo e inscindibile da quello  uomo – uomo (la “sovrastruttura”).  Non il primo (la struttura) è primario, non il secondo (la sovrastruttura)è secondario, nemmeno logicamente. Il rapporto tra uomo e uomo (la “cultura”) è inscindibile e del tutto cooriginario con quello dell’uomo con la natura. 

La natura non è la  base oggettiva predefinita rispetto alla quale, prendendovi posto, sviluppiamo le relazioni interumane.  Ma noi facciamo fatica a fare a meno di un principio eteronomo del nostro esistere sociale, da cui poterci “dedurre”. Rovesciando il famoso motto di Bacone (la natura non si domina se non obbedendole), potremmo dire: “non si obbedisce alla natura se non dominandola”. 

L’esigenza di “dipendere”  da qualcosa ci fa presumere che ci sia un primato del rapporto tra uomo e natura (dell’economia) su quello tra uomo e uomo (della cultura). Questo è alla base della logica economicista di espansione illimitata della dominazione “razionale” della natura stessa, anche se, come precisa Castoriadis,

si tratta di una pseudorazionalità: razionalità della ragione nel senso più limitato del termine, razionalità della separazione e dell’astrazione; razionalità sospesa per aria, incapace di darsi alcun fine sostanziale se non quello della propria estensione; razionalità che si trova in opposizione all’oggetto stesso che si vuole dominare , la vita sociale e storica, razionalità internamente contraddittoria dal momento che il suo “oggetto” è nello stesso tempo il suo “mezzo”.

Marx, Weber, Lukács 

Castoriadis fa appello a Marx, a Weber, a Lukács, che hanno compreso la “razionalità irrazionale” del   capitalismo.  Per il primo, questa razionalità, questo “spirito costruttivo” – come lo chiamo io –  è irrazionale solo perché oppone la produzione collettiva all’appropriazione privata. La sua contraddizione verrà superata nella instaurazione  della società senza classi.  Per il secondo – Weber –  invece la  dinamica del capitalismo (la gabbia di ferro  della razionalizzazione burocratica  che produce il disincanto)

non ha alcuna antinomia interna o limitazione  esterna, salvo quella evidentemente “filosofica” per cui l’immensa catena “razionale” dei fini e dei mezzi non è agganciata ad nessun fine fuori di sé.

Per il Lukács di Storia e coscienza di classe il capitalismo produce la reificazione  delle relazioni sociali contro la quale il proletariato industriale, minacciato da questa razionalizzazione spinta all’estremo, coglie nella merce  che produce la propria essenza alienata, e se ne riappropria lottando. 

Tutti e tre questi pensatori – “pur così lucidi e radicali” – hanno sottovalutato “la significazione immaginaria centrale del capitalismo”. Tutti e tre, insomma, hanno subìto l’imponenza della razionalizzazione, che è l’anima del capitalismo. In Marx e in Lukács tale razionalizzazione è criticata solo perché “incompleta o pervertita dai  fini  realmente umani,” in Weber non scalzata, ma solo relativizzata, nel confronto con altri valori di altre società. 

L’immaginario sociale 

La contraddizione – pensa il nostro autore, ed ecco qui l’essenza originale del suo pensiero – è tra la realtà di fatto del sistema capitalistico, e quello burocratico in particolare, e l’immaginario sociale che la legittima, come non avviene per esempio in una società schiavistica o feudale.

La “razionalità” del capitalismo burocratico non è razionale nemmeno dal punto di vista del capitalismo burocratico stesso. Il suo dominio non è un dominio. La sua espansione illimitata si divora da sola, via via che si realizza,

egli osserva. 

 Il “modo di produzione” – dice – non può caratterizzare una società o una categoria di società. Potrebbe farlo solo se la produzione e “il modo di produzione” determinassero integralmente l’insieme dell’organizzazione e della vita sociali – il che non solo è falso ma privo  di senso.

Insomma è il modo di produzione a far parte del “regime sociale”, del suo “processo d’istituzione”, non viceversa

Il “regime sociale”, potremmo identificarlo con l’insieme delle idee, delle strutture e delle pratiche, con “il magma di significazioni immaginarie sociali” che garantiscono la perpetrazione dell’assetto sociale. Emerge così la categoria fondamentale del pensiero di Castoriadis: quella di “immaginario”, inteso allo stesso tempo come condizione e come prodotto del processo sociale in atto. 

Così egli pensa la società come qualcosa di molto simile a ciò che Maturana e Varela – i due biologi filosofi autori della  teoria dell’autopoiesi dei sistemi viventi creata in quegli stessi anni in cui il nostro autore scrive – avrebbero definito processo autopoietico di un sistema vivente. 

Le istituzioni primarie e le istituzioni secondarie – scrive Castoriadis – sono reciprocamente implicate. Non c’è un mestiere o una professione senza la posizione o la definizione sociale del “lavoro”, dei “valori”, dei “bisogni”, della tecnica, ecc. (…) Di volta in volta, ognuna delle istituzioni secondarie non può sussistere e valere altrimenti che in sinergia con tutte le istituzioni primarie, e di volta in volta ognuna delle istituzioni primarie non può sussistere e valere se non in sinergia con tutte le istituzioni secondarie. 

Un sistema sociale può essere definito solo attraverso le categorie da esso stesso prodotte. Marx, di cui Castoriadis riconosce la straordinaria genialità, ha sbagliato a identificare il tutto della società con la parte della sua organizzazione produttiva. Il capitalismo non è “un modo di produzione tra i tanti: è il sistema che identifica il proprio processo sociale con il suo modo di produzione e proietta questa identificazione sugli altri sistemi sociali non capitalisti.” Non è il primato dell’economia – sintetizzerei con parole mie – che genera l’economicismo, ma è l’economicismo stesso che assegna il primato nel processo sociale all’economia, intesa come processo di crescita all’infinito. 

I bisogni sociali stimolano la crescita, ma anche la crescita genera e stimola bisogni sempre nuovi da soddisfare.  In che cosa consiste la razionalità capitalista? Castoriadis risponde: “innanzitutto in questa astrazione quantitativa: sempre di più”. 

La paradossale posizione ontologica dell’umano nel capitalismo 

Dunque la coscienza umana è una lanterna magica che da tutto si lascia attraversare, da tutto assorbe, ma non subisce determinazione da parte dell’ambiente naturale in cui si trova. Certo, ne è “provocata” (o, per usare il linguaggio biologico, “irritata”), ma reagisce “a modo suo” creando concezioni, valori e motivazioni, degli “immaginari”, la cui formazione va di pari passo ed è inscindibile dai processi reali di organizzazione sociale. 

Lo “spirito costruttivo” della razionalizzazione, la “distruzione creatrice” che animava il capitalista schumpeteriano della “fase eroica”, comportava la ricostruzione sempre di nuovo dalle basi dell’organizzazione produttiva. Ma ormai questo non è più. Ora siamo nella fase del “capitalismo burocratico”, più impegnato – direi – a gestire conseguenze che a ripartire da nuovi principi. 

Il distacco dal marxismo e il ritorno alla polis 

Alla fine degli anni Settanta Castoriadis sente il bisogno di staccarsi dal movimento comunista internazionale ormai largamente fossilizzato nell’esperienza del “socialismo reale”. In un testo del 1979 riportato nell’antologia, la sua condanna del regime sovietico è netta e senza appello: “un regime che realizza lo sfruttamento, l’oppressione, il terrore totalitario e la cretinizzazione culturale su una scala sconosciuta nella storia umana” . Il suo giudizio non è meno duro sui partiti “socialisti” europei, considerati “cinghie di trasmissione dello status quo”.

All’estremo opposto nella gamma dell’immaginario sociale c’è l’individualismo: l’individuo “immaginato” contro la società. Ma si tratta di una pacchiana contraffazione ideologica della realtà: come non si può scegliere la società contro l’individuo, così non si può scegliere l’individuo contro la società.

Osserva Castoriadis:

La società vittoriana, quella del capitalismo classico sarebbe “individualista” o così pretende.  Ma che cosa vuol dire? Che permette a una minuscola minoranza di “individui” da essa fabbricati di opprimere e sfruttare la stragrande maggioranza degli “individui”. E quindi opera contro l’individuo nel novanta per cento dei casi. 

D’altra parte nella realtà “socialista” dell’URSS la stragrande maggioranza del popolo sovietico è sfruttata non a vantaggio  del popolo stesso, ma della burocrazia comunista:

perciò la società russa è una società autenticamente individualista, per quel 10% di individui che compongono  la sua élite.

Qui Castoriadis introduce il concetto, fondamentale nel suo pensiero, d’individuo autonomo:

L’individuo autonomo – scrive – per come lo conosciamo sulla base di rari esempi e per come vorremmo che fosse per tutti gli altri, è colui che pur districandosi nell’ordine/disordine insensato del mondo, vuole essere responsabile di ciò che è, di ciò che dice, di ciò che fa. Nasce simultaneamente alla polis come collettività autonoma, che non riceve le sue leggi da un’istanza esterna e superiore, ma la pone  esso stesso per sé.

L’individuo autonomo e la società autonoma (nel senso letterale del termine, cioè “che si dà da sé il suo nòmos, la sua legge”) sorge con e nella polis greca. Questa comunità umana non riceve le sue leggi da un’autorità superiore ma le assegna a se stessa attraverso la decisione libera dei suoi cittadini. Così Castoriadis compie l’estremo distacco dalla tradizione ormai secolare del socialismo compromessa dall’economicismo:

Quella che fino a oggi abbiamo chiamato società socialista, la chiameremo d’ora in poi società autonoma,

egli scrive.

Una società autonoma implica individui autonomi, e viceversa.

La nascita della società libera è promossa dalla critica dell’eteronomia mitica e religiosa, e si è compiuta appunto nella polis, con la nascita della filosofia.  I “sedicenti regimi socialisti” non hanno realizzato né la libertà, né l’uguaglianza. Marx aveva l’ingenua fiducia che l’eliminazione della proprietà privata facesse venire meno la necessità della politica. 

 I paesi capitalisti sono la nuova polis? 

 Viva la libertà – dice Castoriadis – ma attenzione: questa libertà deve stare fuori dai cancelli dell’ azienda (…) Degli uomini che sono schiavi  del loro lavoro per gran parte della loro giornata, che si addormentano  di sera stremati davanti a una televisione che li  rimbecillisce e li manipola, non sono né possono essere liberi.

Egli indica nell’autogestione l’unico modo di organizzazione del lavoro accettabile, associata a una

consapevole trasformazione della tecnologia esistente per adattarla ai bisogni, ai desideri, alle volontà  umane  sia in quanto produttori che in quanto consumatori.

La libertà – egli afferma – non è solo passiva. Le leggi sono solo stracci di carta senza l’attività dei cittadini. (…) Il più stupido degli intellettuali liberali può credere di essere libero perché gode dei privilegi che gli conferisce l’ordine sociale istituito, dimenticando che non ha deciso nulla, né sulle merci che consuma, né sull’informazione che lo raggiunge, né sulla qualità  dell’aria  che respira; e può godersi la sua stupidità fino a quando non gli cadrà sulla testa una bomba  atomica liberamente sganciata da altri.

La libertà in una società autonoma si esprime attraverso queste due leggi fondamentali: niente esecuzione senza partecipazione paritaria alla decisione; niente legge senza partecipazione paritaria alla legiferazione.  Non c’è libertà senza educazione dei cittadini, nel senso greco di paidéia, di attività che forma gli individui capaci effettivamente di pensare di per sé stessi”. Ciò che nei paesi capitalisti è quasi del tutto trascurato. 

Gli errori del marxismo si riconducono alla visione in chiave economicista dei problemi sociali. Ma la  subordinazione e dipendenza di tutto dall’economia non è stata creata  da Marx e dai marxisti, solo  subita:

Il carattere centrale e sovrano della produzione  e dell’economia, e la corrispondente minimizzazione della problematica sociale e politica non sono altro che temi strutturati dell’immaginario dell’epoca, che è anche la nostra: l’immaginario capitalistico.

La trasformazione “autopoietica” della società. 

 La trasformazione della società e l’instaurazione di una società autonoma (nel senso letterale che – come si è detto – si dà da sé la propria legge, n. d. r.) implicano un processo di maturazione antropologica che di tutta evidenza non può realizzarsi unicamente e centralmente nel processo di produzione”. Ma dovranno coinvolgere insieme “tutte le sfere della vita  sociale

Qui entra in campo la questione decisiva, del rapporto tra potere istituente e istituzioni, in particolare tra esso e le leggi.  Il potere istituente, di per sé non accetta nessuna limitazione. Nel marxismo questa funzione “assoluta”, svincolata da ogni legge, è  assolta dalla “ dittatura del proletariato”,  di cui parla Marx  e che il marxismo riprende.  Già Platone, nel Politico, aveva posto il problema della mediazione tra legge e caso specifico.  Castoriadis lo cita e sottolinea come  in tal modo  venga posta la questione dell’equità, che come poi preciserà Aristotele: “è  sia giustizia sia migliore della giustizia”  e non sarà  mai assicurata solo dalla legge.  

La soluzione proposta da Platone, dell’uomo regale, il filosofo, straordinariamente equanime, capace di cogliere di momento in momento qual è il vero interesse della società, non è una soluzione, come non lo è quella ambigua della “dittatura del proletariato”, da instaurare una volta che i capitalisti sono espropriati e fino al momento in cui non ci sarà più bisogno di leggi ma avverrà da sé la “ fioritura universale degli individui  liberati dall’alienazione nel proprio idiotismo. Non si tratta di affidare il potere assoluto a qualcuno, sia esso “l’uomo regale”  o il “proletariato”. 

La contraddizione tra diritto e giustizia, fra potere istituito e potere istituente non può mai essere eliminato del tutto, ma va assunta consapevolmente dalla società autonoma, e gestita al meglio momento per momento:

La comunità dovrà darsi delle regole, consapevole che se le sta dando, che esse sono o inevitabilmente  diventeranno, a un certo punto,  inadeguate, e che può cambiarle  e che la vincolano solo fino a quando non le avrà regolarmente cambiate.

Facendo però attenzione – aggiungerei – a non banalizzare, a non “relativizzare la relativizzazione”, che avrebbe l’effetto paradossale di assolutizzarla.  

La democrazia e lo “Stato”. 

Nel testo successivo, dal titolo “Popolo ed esperti”  del 1983, l’autore ritorna sul tema  della democrazia   e, riprendendo un tema rousseauiano, nega che nella Grecia antica, ma anche a Roma, abbia mail valso il concetto di “rappresentanza”.  Quelli che erano eletti erano dei magistrati, non dei rappresentanti.   Questi potevano essere contestati e revocati in ogni momento.  Nessuno nella polis era riconosciuto più esperto di politica degli altri, come invece potevano esserci esperti di téchnai particolari. Tranne che in quella militare. 

Nella democrazia moderna (sedicente, secondo Castoriadis) c’è la tendenza a far valutare i tecnici non dai destinatari dei loro servizi, ma da altri tecnici. E a considerare il politico di professione un “tecnico  della totalità”. Un ossimoro, un controsenso, perché ci possono essere téchnai solo di parti di realtà. Parlare di “specialisti dell’universale” è autocontraddittorio. 

Nella società moderna – egli asserisce – si assiste a una crescente divergenza tra le capacità che servono ad accedere al potere e quelle necessarie a governare davvero. La divaricazione tra la capacità di imporsi e quella di governare è un problema per la polis ateniese come per ogni regime moderno, nessuno escluso. Non esiste una formula assoluta per evitare le degenerazioni, e “nessuno può impedire all’umanità di suicidarsi”. 

Castoriadis rimarca che un concetto di Stato in senso moderno non esisteva presso i Greci antichi. Essi usano un termine, politéia, che indica sia l’insieme delle regole con cui i cittadini si organizzano, sia i modi con cui le applicano gestendo i loro affari comuni. La polis stessa

non è un’istituzione, non è un meccanismo, e nemmeno un territorio – dice il nostro autore – bensì gli uomini, il corpo dei cittadini (…) L’idea di Stato inteso come istituzione distinta, separata dal corpo dei cittadini, sarebbe stata del tutto incomprensibile per un greco”. Ma “bisogna precisare che la collettività istituita non s’identifica assolutamente con la somma empirica dei cittadini presenti fisicamente nell’ecclesia

Che cosa garantisce l’unità di questa comunità “senza stato”? Una base “naturale” fatta di differenze prepolitiche, che la politica vera e propria non spazza via, ma mantiene, pur stemperandola nella propria sintesi. La polis è un delicato equilibrio, che non tollera divisioni troppo profonde e inguaribili. Preminente in essa è che ogni cittadino se ne sente responsabile, appartenente alla polis come bene condiviso. A differenza  della politica moderna che “non è altro, de facto e de jure, che “una specie d’insaccato composto da tanti interessi particolari”.  

Qual è, quale deve essere, il rapporto fra la politica e gli interessi particolari? Tra politica ed economia? Castoriadis polemizza apertamente con Hanna Arendt, che, convertitasi al liberalismo, si era convinta della necessità di tenere separata la politica dalla sfera  degli  interessi particolari. Ma la politica non agisce nel vuoto, in ogni caso non può non risentire delle disuguaglianze sociali.

Il sociale, (…) la sfera  economico – sociale – egli conclude – non può essere abbandonato con il  pretesto che la politica non ha nulla a che fare con gli  interessi particolari.

Capitalismo e democrazia

In un testo pubblicato nell’82, dal titolo La decomposizione delle società occidentali, l’autore affronta il tema dell’identità dell’Occidente. Di solito si dice che sia caratterizzata da due elementi essenziali: il capitalismo e la democrazia. “Ma – egli osserva – non c’è nessun legame, né logico né reale, tra capitalismo e democrazia, “reale” o “formale (…) Il capitalismo può adattarsi tranquillamente a ogni regime politico”. Né alcun legame con esso ha la democrazia che nasce dalle lotte comunali, della piccola borghesia e dalle masse popolari. Il capitalismo vive sempre in simbiosi con un potere di Stato arbitrario. “Dietro la facciata del capitalismo privato, Marx aveva già visto chiaramente che ci sono sempre i magheggi dello Stato”. O – chiedo – non forse anche il contrario?

E qui l’affermazione forte, che forse meglio esplicita la posizione di Castoriadis:

Il capitalismo non è altro  che l’istituzione di una significazione immaginaria sociale centrale – l’espansione illimitata del dominio “razionale” assieme a una serie di istituzioni secondarie che incarnano e realizzano questa significazione. 

La razionalità del dominio capitalistico è, di fatto, una pseudorazionalità:

L’idea di una corsa infinita alla “razionalizzazione” degli strumenti e mezzi, separata da ogni finalità definita, è divenuta essa stessa un’idea tutt’altro che neutra e anzi irrazionale.

Questa tendenza all’infinito contiene in nuce un progetto di dominazione totale, totalitario. Nella fabbrica capitalista l’ideale totalitario è già realizzato.

Il capitalismo si è sviluppato in concomitanza con un movimento di emancipazione – io direi “di disalienazione”, nato già all’interno del feudalesimo, come movimento di affermazione del protagonismo nel mondo attraverso la riconquista di se stessi da parte dei subalterni di ogni tipo. 

La protoborghesia, allora, come i movimenti di emancipazione delle donne, dei giovani, degli ecologisti, delle minoranze, oggi, fanno emergere il vero problema nella storia dell’umanità: quello del rapporto tra potere istituente e istituzione attraverso la rivendicazione di una collettività che vuole affermarsi esplicitamente come fonte della sua stessa istituzione, dissolvendo ogni illusione sull’origine “trascendente” di questa.   

Il capitalismo, con questo processo di “disalienazione” – interrotto per quindici secoli e poi riaffiorato come filo  conduttore della modernità – non ha alcun rapporto, per quanto se ne sia trovato storicamente intrecciato e quindi le due dinamiche si siano effettivamente, reciprocamente influenzate. 

Economicismo, lotte sociali, e “democrazia rappresentativa”

Lo sviluppo della “razionalità” capitalista durante l’Illuminismo ha avuto effetti nefasti, riuscendo a condizionare in senso economicistico lo stesso Marx e il movimento operaio. Il movimento per l’autonomia contro la pseudorazionalità del capitalismo, paradossalmente, ha consentito a questo di sopravvivere:

Senza la lotta degli operai contro l’organizzazione capitalistica della fabbrica, questa non avrebbe mai potuto funzionare; senza la loro lotta vincente per l’aumento dei salari reali e la riduzione del tempo di lavoro, l’economia capitalista non avrebbe trovato sbocchi alla produzione e sarebbe  collassato da tempo.  

Il giudizio di Castoriadis sulla natura democratica delle nostre società è tranchant:

Questi regimi non possono essere definiti democratici (…) la rappresentanza è il contrario della democrazia, e la nostra pseudorappresentanza persino di più. Dal punto di vista della teoria e della filosofia politica, quelle in cui viviamo sono oligarchie.

Ma sono oligarchie liberali, precisa il nostro autore, che il movimento secolare dell’autonomia con le sue lotte ha condizionato, costringendole a concedere spazi che sono difesi e allargati solo per mezzo delle lotte delle persone attive.  

La dissoluzione dell’immaginario occidentale 

Poiché tutti ci troviamo dentro i processi sociali, e non possiamo perciò coglierli panoramicamente: “l’apparizione o la dissoluzione di un nuovo immaginario sociale sfuggirà sempre all’analisi”. Ma è proprio l’immaginario sociale il motore e il collante di una società “quindi fondamentale per la sua esistenza in quanto società”.  Ogni società si forma e si decompone a modo suo: “se l’Occidente deve morire, morirà della propria morte.”  

Ma come avviene la decomposizione? Può avvenire per cause esterne, per il confronto perdente con un’altra civiltà, com’è accaduto in seguito al contatto della civiltà occidentale con tutte le altre del pianeta.  Ma quando avviene per cause endogene? E’ per la perdita di efficacia delle motivazioni offerte dall’immaginario sociale, quando le società diventano incapaci di autoripararsi per mancanza di creatività istituente. Ci sono crisi che possono dar luogo ad autoriparazioni  del sistema, ma per questo il suo immaginario deve essere ancora vivo e forte.  Ma:

ci sono fasi nella storia di una società in cui gli uomini  cessano di credere nelle antiche ragioni di vivere, e non riescono a crearne di nuove.     

Mancando qualsiasi punto di vista o termine di paragone esterno, in tal caso non ci si accorgerebbe nemmeno della decomposizione in atto, se non fosse perché intorno – come purtroppo accade ora, e non solo da oggi – si vedono aumentare le perturbazioni dell’ordine sistemico.

L’attuale decomposizione è stata brutalmente accelerata da fattori esterni come la crisi climatica e la crisi energetica (…) ma non saremmo arrivati a questo punto se i nostri meccanismi di adattamento per “sfida e risposta” – afferma Castoriadis riprendendo il classico schema di Arnold Toynbee –non fossero stati profondamente logorati. 

Da diverso tempo l’immaginario capitalista non riesce più a motivare profondamente le persone: il “capitalismo reale” è distante quanto il “socialismo reale” dal suo modello ideale. La tendenza naturale alla decomposizione dell’immaginario sociale è stata contrastata proprio dalla vitalità di coloro che lo criticavano, ma oggi “anche questo conflitto appare in via di decomposizione”

L’affondamento dell’Occidente

Per la prima volta nella storia, avendo il sistema eliminato ogni alternativa “con la sua gigantesca capacità produttiva (…)  può permettersi tutti gli errori e tutti gli sprechi che vuole”. La decomposizione dell’immaginario sociale può continuare teoricamente all’infinito. Dopo gli anni del keynesismo del dopoguerra, la crisi che si apre alla metà degli anni Settanta, fa tornare in auge – come se fosse una grande novità –  il ferro vecchio della teoria del  monetarismo. Il che – egli osserva – dimostra “l’impoverimento mentale assoluto degli strati dirigenti“. Da allora le diseguaglianze sociali, che si erano ridotte nel dopoguerra, tornano ad aumentare, con rischi crescenti di disgregazione  del tessuto sociale. 

Castoriadis segnala, in un tempo in cui non era per niente ovvio, anche la gravità dei problemi dell’energia, delle risorse non rinnovabili, dell’ambiente e dell’ecologia. Sembra che la capacità di sintesi lungimiranti sia ormai scarsa o inesistente nelle classi dirigenti occidentali. Nella “politica” prevalgono le qualità che favoriscono l’arrivismo. “La selezione dei più adatti finisce per essere soprattutto la selezione dei più adatti a farsi selezionare”. Insieme alla dequalificazione della classe dirigente, avanza la depoliticizzazione  di  massa.

I partiti, ridotti a macchine burocratiche, “muoiono per denutrizione ideologica”.  Castoriadis riconosce il ruolo profondamente innovativo dei movimenti di massa degli anni Sessanta e Settanta, ma essi hanno subìto il riflusso, “che li mantiene  in una condizione minoritaria, frammentata, settorializzata, incapaci di coordinare mezzi e  fini. (.,.) Non hanno potuto, né voluto prendersi carico di un progetto politico attivo”.

Egli traccia un quadro in cui la società è paralizzata dal contrasto di lobby che riescono solo a garantire un equilibrio negativo, essendo dotate quasi solo di un potere di reciproca interdizione. Il risultato di ciò è “la mancanza di una politica generale per la società”. 

Il suo sguardo disincantato coglie la crisi della famiglia e dell’istruzione: “pare legittimo chiedersi quanta sia in  questo processo la parte di emancipazione e quanta di disorientamento e di anomia”. Ciascuno è spinto verso il suo “privato”.  Anche la cultura, che un tempo nutriva il sistema educativo “dall’alto”, è incapace di cogliere in profondità i problemi di questo tempo oscilla tra un trito modernismo e una altrettanto trita musealizzazione. 

“Ma non può esistere una società che non sia qualcosa per se stessa, cioè che non si rappresenti in un certo modo come qualche cosa, in quanto deve porsi come qualche cosa.” Una società deve avere una rappresentazione di sé, come gli individui che la compongono. “Lo sforzo dell’individuo per essere qualcosa o mantenersi come qualcosa costituisce di fatto lo sforzo che fa vivere l’istituzione della società”. 

Ed è qui – nel collasso dell’autorappresentazione sociale – cioè nella “crisi delle significazioni immaginarie sociali” che Castoriadis vede la ragione profonda della crisi. “Il valere (Gelten) delle  significazioni immaginarie sociali è conditio sine qua non dell’esistenza  di una società.” Ciò fa sì che non più solo lo stato, ma la società sia percepita come nemica. “L’intera società oggi non vuole essere una società: essa subisce se stessa”. Non essendoci più nulla da realizzare, viene meno il senso del tempo e della storia. 

L’eredità delle società liberali 

A seguire, l’antologia presenta due frammenti inediti del 1980 e un intervento del 1983, nei quali Castoriadis tenta un bilancio dell’eredità del liberalismo. Le società liberali sono sorte attraverso una lunga storia di guerre, di lotte e di dolore per far assimilare alla realtà vivente delle società liberali i principi che le ispirano, che altrimenti sarebbero rimasti  astratte dichiarazioni senza conseguenze. Ciò fa sì che i cittadini si ribellino spontaneamente ai soprusi del potere. Ma questo riguarda una piccola porzione del mondo, un quinto della popolazione mondiale. Quello che oggi va sotto il nome di Occidente, comprendendo in una certa misura anche l’Australia e il Giappone.  Il rispetto delle libertà individuali e collettive non dipende tanto dalle costituzioni formali dei paesi, ma dall’esistenza di

un  corpo di cittadini istruiti, coscienti dei loro diritti, disposti ad agire per difenderli e proteggerli, uniti da un senso di solidarietà  e di coesione sociale che li spinge ad agire anche e soprattutto quando non sono i loro stessi diritti a essere in pericolo.

È la qualità del tessuto sociale, il livello  di autonomia o, come direi io, di “consapevolezza”,  a imporre al potere il rispetto delle regole che sono necessarie  al corpo sociale perché resti “autopoietico”.  

Anche nel terzo frammento, Castoriadis ribadisce l’importanza  dei meccanismi e dispositivi  sociali  affinché i principi formali del diritto vengano effettivamente inverati. “Perché sussista uno stato di diritto – egli osserva – la legge scritta non è a rigore né necessaria né sufficiente”.  Poi, più avanti  afferma: ”per istituire una società liberale bisogna disporre, preliminarmente, di una società liberale  e di individui liberali”. 

Il “miracolo” dell’autonomia (di quella che io chiamerei la “città consapevole”), che  si è verificato in Grecia e a Roma, si è nuovamente prodotto in Europa occidentale e negli Stati Uniti nella modernità.  Ci vuole una società che rifiuta di subire.”

L’attivizzazione sociale accompagnata dalla riflessione e dalla ricerca costante, e mai scontata di risposte alle domande “cos’è giusto?” e “cos’è vero?” ha ispirato tanto la polis greca quanto  la modernità europea.  Ma il progetto di autonomia, nato in Europa, è lungi dall’essersi realizzato.  

Le società impropriamente chiamate “democratiche” in realtà non sono pienamente tali: “sono società miste a duplice istituzione, nelle quali la divisione sociale, il domino del capitalismo burocratico, l’imperialismo nei confronti del Terzo Mondo, coesistono con elementi democratici che le lotte dei popoli sono riuscite a imporre all’istituzione della società.”.

Ma oggi a essere minacciato è proprio questo “cuneo di consapevolezza” che secoli di lotte, montagne di morti e oceani di sangue hanno consentito di conficcare nel corpo  estraneo della società capitalista. Ora l’estrema dispersione delle lotte, l’affievolirsi della loro potenza rigeneratrice e la conseguente evanescenza del conflitto politico, lasciano la società europea in preda alla frammentazione degli interessi  e alla decomposizione.  

Cornelius Castoriadis ritratto da Paolo Secca

Un testamento politico 

Castoriadis auspica che i popoli europei “s’impegnino nuovamente nell’attività politica, lottando di nuovo per fare la storia invece che subirla”. A quest’obiettivo realistico deve dedicarsi chi vuole difendere: “la creazione storica europea  e il tessuto sociale nel quale si è sedimentata”.

L’ultimo breve testo, che il presentatore dell’antologia definisce “vero e proprio testamento spirituale di Castoriadis”, è del 1995. In esso l’autore registra l’evento epocale della caduta del Muro di Berlino, che apre una fase di grave instabilità nell’ordine mondiale dopo il periodo di relativo bilanciamento durante il periodo della Guerra fredda. Coglie anche il nuovo fenomeno della globalizzazione, che muta radicalmente il quadro entro cui avevano ragionato i grandi economisti, da Smith, a Ricardo, a Marx, ai keynesiani, ai “neoclassici”: “le economie “nazionali”  in senso tradizionale esistono sempre meno. Questo ha gettato nel caos l’economia mondiale, in base al concreto rischio di “incidenti” catastrofici”. Egli segnala anche la situazione d’instabilità crescente dei paesi islamici, il caos e la miseria  nei paesi africani  dominati da  dittature corrotte sostenute dall’Occidente, l’emergere  di una zona est asiatica  economicamente dinamica e competitiva, su cui spicca la Cina, che egli pronostica, “destabilizzerà completamente il  fraglie disordine mondiale”.

Castoriadis: straordinaria analisi, ma la proposta?

Ciò che m’impressiona particolarmente nel pensiero di Castoriadis, la cui conoscenza va naturalmente approfondita, è la sproporzione tra la straordinaria ricchezza della sua analisi e una sostanziale assenza di proposta. Dopo essersi staccato dal marxismo a causa del suo economicismo, dopo aver cessato di considerare la classe operaia come soggetto storico rivoluzionario, egli si trova senza una “leva storica” di fronte al grande caos del mondo. 

Dopo il ’68 aveva fatto conto sui movimenti di emancipazione, i giovani, le donne, le minoranze, ma  – come egli stesso ammette – questi sono soggetti labili, autoreferenti, incapaci di dar luogo a strategie di trasformazione. 

Rivoluzione e complessità

Fino agli anni Settanta si era pensato alla rivoluzione come mezzo per arrestare la decomposizione e avviare la necessaria rigenerazione di un nuovo immaginario, rimettendo in moto la creatività sociale. Ma mille depistaggi l’hanno disorientata, mille lacci l’hanno trattenuta, mille ostacoli l’hanno bloccata. Così il grande vortice rivoluzionario si è spento nel mare di una “complessità” che stempera e confonde nella sua realtà vischiosa ogni conato creativo. Privo di un corrispettivo esterno con cui misurarsi, il sistema si degrada senza nemmeno che lo si possa avvertire, solo sospettarlo, in ragione delle perturbazioni  crescenti  da cui è scosso.    

La proposta di Castoriadis, di “società autonoma”, espressione che, secondo lui (e anche secondo me: io la chiamerei “società o città consapevole”, che mi sembra meno inflazionato, ma per dire la stessa cosa che intende lui) dovrebbe sostituire quella di “società socialista” (perché – come egli stesso osserva – “ogni società, anche la più sfrenatamente liberista, in quanto appunto è una “società”, è “socialista”) resta sospesa, come una sfida lanciata in aria,  senza che ci sia nessuno pronto a raccoglierla.

La complessità come “destino”   

Ma forse tutto ciò non è casuale. Forse c’è bisogno di riportare la situazione apparentemente insensata in cui ci troviamo entro la “Wunderkammer”  della mente umana, per farne uscire un nuovo magico origami  di senso, creato dal pensiero.

La dissoluzione dell’immaginario dà luogo alla complessità. In essa tutto appare casuale e si dissolve ogni senso: le parti hanno un senso funzionale, il tutto, cui le funzioni sono rivolte, non ne ha alcuno.  Prevalgano i saperi delle parti  e l’agire funzionale – le téchnai – ma a quello  che Platone definirebbe “l’agire regale” – cioè politico – in funzione del tutto, non riusciamo a dare alcun contenuto, alcun senso. . Da qui si spiega come mai   il processo dissolutorio proceda dall’alto verso il basso e perché il nostro agire si sia aggrappato ai mezzi, i quali però non convergono ma divergono tra loro, dando luogo alla nebulosa, insensata complessità in cui siamo immersi.  

L’essere umano tutto può sopportare, non l’insensatezza. Questa lo disorienta, lo snerva, lo paralizza.  Ma se quello che gli capita – per quanto duro e difficile – egli  lo considera una prova – da questo egli trarrà la forza per affrontarlo.  Se la complessità – il trovarci in balia del caos, cioè senza un destino –  ci appare una sorta di prova suprema, un destino maturato per noi in tutta l’evoluzione storica precedente – allora avremo la forza per farvi fronte. Perché l’energia che è necessaria a riconoscere qualcosa come prova  – cioè come destino – è la stessa che serve ad affrontarlo. 

Per realizzarsi, perché cioè la società sia “autonoma”, come  vuole Castoriadis, o “consapevole”, come la chiamo io, per essere cioè in grado di darsi riflessivamente il proprio nomos – la propria legge –  essa  deve avere la capacità di riconoscersi nella complessità, di avere, nel non  avere un destino,  il suo destino.

Non è vero che il destino non lascia scampo. Anzi – come avevano ben compreso Spinoza e Kant – obbligandoci, il destino ci consegna interamente la decisione assoluta: di assumerlo o subirlo. Chiunque abbia riconosciuto di avere un destino, ha senso, è libero.  

L’origami di pensiero della prodigiosa lanterna magica che è la mente umana, offre questa via. Ciascuno  deve capirlo  da sé, quest’illuminazione deve avvenire in ciascuna testa, in ciascun animo umano. Certo, come dice anche Castoriadis, bisogna favorire questa presa di coscienza con l’educazione degli individui, con la paidéia. Ma  non basta.  

L’uno, il tutto e il problema del medium 

Non si può passare immediatamente dall’uno al tutto, fare come la Thatcher, che – con un radicale nominalismo – diceva: “Non esiste la società, esistono solo gli individui”. Ciò vuol dire che non c’è alcuna mediazione tra l’individuo (l’uno) e il tutto, che ognuno deve vedersela da sé, direttamente. Ma Il tutto “è troppo”. Per questo l’uomo ha bisogno di socialità, come diceva Aristotele, è un “animale sociale” (zoon politikón). Il contatto immediato con il tutto può essere solo eccezionale, mistico.  L’uomo – direi  –  ha bisogno di un medium. Questo medium è la socialità: non è vero che essa è solo un’indebita superfetazione oppressiva generata  dall’attrito tra gli individui in un mondo troppo stretto. 

La socialità esiste, distinta dagli individui ma insieme  incorporata, agente in loro. Ma per non disperdersi ha bisogno di forme, di contenitori ideali e fisici. 

Il contenitore spaziotemporale generale dell’umanità è il tutto del mondo. Ma per noi – come ho detto – il tutto del mondo è troppo. La globalizzazione, è vero, l’ha ristretto, ma l’ha reso complesso, sicché davanti alla sua complessità ci sentiamo disorientati quanto, e più, un tempo ci sentivamo davanti alla sua immensità. 

L’economicismo marxista indicava nella classe il medium tra l’individuo e l’universale. Questa ”forma” della classe raccoglieva la moltitudine degli oppressi, rendendola soggetto in quanto moltitudine, capace – almeno così si pensava – di agire autonomamente nella storia.  Ora tale medium – come giustamente constata Castoriadis – non ha funzionato: l’interesse economico è stato la scorciatoia grazie alla quale  si è riusciti ad  aggregare la massa, ma questo stesso interesse “parziale” ne ha depotenziato  l’efficacia universale, facendo trionfare in essa i corporativismi. 

Dalla “classe” al “luogo”

Ecco allora che c’è bisogno di individuare un altro medium, che, restringendo l’apertura di un tutto paralizzante perché “troppo”, lo renda accessibile. Questo medium non sarà più “la classe”, ma sarà ancor meno la moltitudine chiusa nella forma nazionalistica, disperata negatrice dell’universalismo in nome della dominazione di una parte (di un popolo) sulle altre. 

Allo stato, non mi sembra che ci sia altro, come forma concreta in grado di sostituire “la classe” nel ruolo di medium con l’universale e di  contenitore delle forze dell’”autonomia” o della “consapevolezza” altrimenti condannate a disperdersi, che i luoghi. A differenza della classe, il luogo – la città – non è solo una forma storica: è anche spaziale. Il che le conferisce una nuova determinazione qualitativamente più evoluta, più impegnativa (più consapevole) rispetto alla “classe”. 

Le comunità locali aperte, trasformate in laboratori sociali “autonomi” o “consapevoli” non sono solo un medium  verso il  tutto, sono anche già un tutto in atto, sia pure in miniatura:  embrioni di universalità in atto. 

In queste forme locali si possono raccogliere e potenziarsi reciprocamente le forze capaci di rovesciare la dispersione e l’insensato generati dalla complessità, avendo riconosciuto quest’ultima come non accidentale, casuale, bensì come prova e destino. Grazie al loro riconoscimento della essenza della complessità – intesa come necessità della casualità – esse possono mantenere viva la circolarità tra “potere istituente” e quello “istituito”,  e far  vivere la scintilla dell’autopoiesi sociale.

   

Attualità di Cornelius Castoriadis ultima modifica: 2022-05-12T21:31:23+02:00 da ALBERTO MADRICARDO
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