Carlo Magno e Zizou il grande: storie madrilene aspettando Parigi

ROBERTO BERTONI BERNARDI
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Il prossimo 28 maggio non si disputerà una gara qualsiasi. La sfida fra il Liverpool di Jürgen Klopp e il Real Madrid di Carlo Ancelotti costituisce, infatti, il meglio del calcio europeo e mondiale, uno spettacolo imperdibile e una battaglia, colpo su colpo, fra due concezioni differenti ma non certo antitetiche di calcio e di vita. Se il Liverpool incarna infatti il pragmatismo inglese, esaltato dalla mistica dell’allenatore col cappellino in testa e splendide idee socialiste che ben si integrano con la visione del mondo di una città e di una tifoseria che vive da sempre in opposizione ai fasti e ai nefasti della rutilante Londra, il Real invece è la storia del calcio. Tuttavia, a Madrid, come ben sa chiunque vi abbia giocato o allenato, vincere non basta. Il gioco conta eccome, altrimenti le tribune del Bernabéu rumoreggiano e la società non apprezza, abituati come sono ad assistere alla classe dei migliori giocatori al mondo.

Ci attende, dunque, un’autentica meraviglia, un capolavoro di intensità e tecnica, nervi e passione sportiva allo stato puro. Sarà una partita aspra, forse non spettacolare come la semifinale di andata fra City e Real, dato che le finali, per loro natura, non sono mai granché spettacolari, ma non ci aspettiamo certo una sfida piatta, una partita a scacchi decisa da un epiosdio. Nella filosofia di Liverpool e Real non è contemplata quest’ipotesi. Basti pensare, difatti, che Carlo Magno, il tecnico capace di partire da Parma e giungere in cima al mondo, fino a conquistare tutti i principali campionati europei, vincendo tre Champions fra Milano e Madrid, è l’allenatore più amato dai giocatori: padre, amico, maestro e punto di riferimento, un mito planetario universalmente riconosciuto e apprezzato. Solo lui poteva riuscire a vincere la Liga con così tanto anticipo, arrivando al contempo in finale di Champions, tenendo unita la squadra, lanciando definitivamente campioni potenziali come Vinicius, Rodrygo e Camavinga, sostituendo, al momento opportuno, mostri sacri come Modrić e Kroos, consentendo a Benzema di vivere la migliore stagione della sua carriera e non perdendo mai la calma, nemmeno quando tutto sembrava ormai perduto. Se il Real è arrivato fino in fondo, il merito è soprattutto del suo leader calmo, mai sopraffatto dall’ansia, sempre in grado di dominarsi e dotato dell’umiltà necessaria per arrivare a chiedere consigli ai senatori del gruppo sui cambi da effettuare, quando ogni mossa poteva essere quella decisiva.

C’è poco da fare: Carletto ha fatto e fa scuola ovunque, forgia caratteri, costruisce comunità e vince col sorriso sulle labbra. Forse è anche per questo che in un Paese sovraeccitato come il nostro non riusciamo più ad apprezzarlo, convinti come siamo che ogni partita sia una guerra e incapaci di ammirare la calma, la pacatezza e la gentilezza d’animo di un condottiero mite ma fermo che sa bene ciò che vuole ma non è disposto ad ammettere gli eccessi che troppo spesso ruotano intorno alla nostra concezione malata del calcio e dello stare insieme.

Con tutto il rispetto per Klopp, tiferemo per Carletto perché lo consideriamo uno di noi, un antidoto alla barbarie e un simbolo di tutto ciò che eravamo, vorremmo essere ma non siamo più, travolti dalla ferocia, dai toni urlati, dalla totale mancanza di genuinità e dalla perdita del gusto del mondo alla base del nostro declino. Non a caso, nell’anno di grazia 2003, ultima stagione di gloria del calcio italiano, con la finale tricolore fra Milan e Juventus in quel di Manchester, l’allenatore dei rossoneri era proprio Ancelotti. Da allora, lui non ha più smesso di vincere; l’Italia, al contrario, fatti salvi i Mondiali lippiani del 2006, la Champions milanista targata ancora Carletto del 2007 e la tripletta di Mourinho del 2010, si è fermata (gli Europei dell’estate scorsa sono stati solo una parentesi, senz’altro positiva, in mezzo a due eliminazioni consecutive dai Mondiali).

Capita quando non si ha la saggezza di tenersi stretti i grandi veri e li si sacrifica sull’altare di una falsa modernità, alla ricerca di non si sa quali nuovi equilibri che di bello e di rivoluzionario hanno, spesso, poco, o nulla. Ad arricchire ancora di più l’attesa per la sfida di Parigi c’è, poi, un altro ricordo dolce per i sostenitori delle merengues. Ricorre, infatti, il ventesimo anniversario della semi-rovesciata con cui monsieur Zidane piegò la resistenza del Bayer Leverkusen di Ballack e Lucio (autore del momentaneo pareggio), dopo che Raúl aveva aperto le danze nel primo tempo. Il 2 a 1 finale fu merito delle parate di Casillas, entrato a metà ripresa e destinato, da quella sera, a egemonizzare la porta blanca per un decennio, ma più che mai del cross al volo di Roberto Carlos e della giocata metafisica di Zizou.

Ancelotti con Mourinho e Zidane

Diciamo che il degno erede di Platini, quella sera, si consacrò a Madrid dopo le brucianti sconfitte in maglia bianconera, un ambiente che amava ma nel quale, evidentemente, almeno nelle partite decisive, non riusciva a incidere come avrebbe voluto. A Madrid sì: vuoi per la magia di quella maglia, vuoi per la tradizione storica in Champions di quel club, vuoi perché Del Bosque era l’Ancelotti di Spagna, colpevolmente mandato via da Pérez l’anno successivo, con la conseguenza di interrompere l’era “galactica” che proprio Ancelotti e Zidane avrebbero rinverdito a partire dal 2014, dopo aver assistito per un decennio al dominio del Barcellona di Rijkaard prima e di Guardiola poi. A dimostrazione che la storia conta e al cuore non si comanda. Ancelotti e Zidane, già capo e vice, demiurghi di una corazzata che, grazie a loro, è tornata a vincere e a convincere ovunque, nel solco di una storia che da centoventi anni non conosce battute d’arresto.

Carlo Magno e Zizou il grande: storie madrilene aspettando Parigi ultima modifica: 2022-05-12T18:08:17+02:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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