La guerra russa ridefinisce idee e linee in America Latina

L’invasione dell’Ucraina fa emergere antichi e consolidati legami con Mosca e un irriducibile antiamericanismo ma anche novità di approccio ai temi internazionali, specchio di un’innovazione politica più generale, di cui è massimo emblema il nuovo presidente cileno Boric.
CLAUDIO MADRICARDO
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Nonostante sul piano del diritto internazionale l’invasione russa dell’Ucraina non abbia giustificazioni e nessun paese latinoamericano abbia votato contro la condanna dell’Assemblea Generale dell’ONU, nazioni come Bolivia, Salvador, Nicaragua e Cuba si sono astenute, mentre il Venezuela è risultato assente al voto. Quanto al Messico, ha espresso una iniziale ambiguità nella prima presa di posizione di López Obrador, probabilmente condizionato dall’ala più ortodossa di Morena che aveva anche dato vita a un “Gruppo di amicizia Messico-Russia” in parlamento. Superata successivamente dal voto alle Nazioni Unite.

L’ambiguità messicana è la spia di una evidente difficoltà da parte di alcuni Paesi e di certa parte della sinistra latinoamericana di posizionarsi rispetto al conflitto in Ucraina. In un articolo uscito recentemente, lo scrittore nicaraguense Sergio Ramírez si è dedicato a un esame attento delle tipologie delle forze progressiste del Sud America. Ciò gli ha permesso di cogliere in primo luogo la divisione che separa sinistra autoritaria e sinistra democratica. 

“E tu dov’eri quando massacrarono l’Ucraina?”. Un poster contro AMLO (Andrés Manuel López Obrador) che fa il verso alla famosa immagine del bacio Breznev-Honecker.

Secondo colui che è stato vicepresidente del primo governo sandinista e che ora vive in esilio per evitare il carcere in cui vorrebbe chiuderlo Daniel Ortega, saltano agli occhi le differenze tra quella sinistra che “considera anatema tutto ciò che si opponga all’egemonia di un solo partito, o di un solo leader”, e quella che “cerca di salvare se stessa affermando la sua fedeltà alla democrazia senza aggettivi, che consente di eleggere liberamente i governanti, e aderisce al rispetto delle libertà pubbliche e dei diritti umani, né democrazia proletaria né democrazia borghese. La democrazia”. 

In altre parole e per comodità di ragionamento, a fronte del fallimento delle politiche neoliberiste e degli esperimenti di socialismo, Ramírez prende le parti di quella sinistra che in qualche misura può riconoscersi nel vasto campo che Joseph Stiglitz ha definito “capitalismo progressista”. Alla cui base stanno valori quali equità, inclusione, prosperità diffusa, e un sistema economico che si pone al servizio dei cittadini e non viceversa.

Nicolás Maduro al Cremlino, 2 luglio 2013.

Una ambiguità simile a quella del presidente messicano è stata vissuta anche nel Gruppo di Puebla, il consesso che riunisce la leadership del progressismo latinoamericano. In un appello emesso a ridosso dell’invasione lo scorso febbraio, ha chiesto a tutti i soggetti coinvolti di mantenere la pace e la sicurezza in Ucraina abbandonando la via dell’intervento militare e quella delle sanzioni economiche contro la Russia. A distanza di soli due giorni, il 26 febbraio il tiro è stato corretto, stigmatizzando “l’uso unilaterale della forza e le gravi conseguenze umanitarie”. 

Ultimamente, il Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU ha votato a grande maggioranza l’avvio di una inchiesta sui possibili crimini russi in Ucraina. La risoluzione è stata approvata con trentatré voti a favore, Cina ed Eritrea contrarie, mentre Armenia, Bolivia, Camerun, Cuba, India, Kazakistan, Namibia, Pakistan Senegal, Sudan, Uzbekistan e Venezuela si sono astenuti. Hanno invece votato sì all’inizio dell’indagine Argentina, Brasile, Messico e Paraguay. 

Gli interessi in gioco nella valutazione dell’invasione russa da parte dei singoli Paesi, come in quella di leader importanti della sinistra, sono i più vari. Meriterà citare in primo luogo quelle nazioni che attualmente sono oggetto di sanzioni dell’amministrazione americana, come Cuba, Nicaragua e Venezuela. Per le quali l’aver strizzato l’occhiolino a Putin è di fatto una sorta di automatismo difensivo, mentre svela il desiderio di assicurare vicinanza alle posizioni assunte sulla guerra dalla Cina, il vero serio competitor degli USA fin da adesso nello scacchiere latinoamericano. Al gruppetto si è aggiunto il Salvador del neo autoritario Bukele, le cui relazioni con gli USA, per una serie di ragioni, hanno toccato il fondo. 

Boris Eltsin con Daniel Ortega a Managua,marzo 1987, il più alto funzionario sovietico a visitare il Nicaragua negli anni Ottanta. (Foto: INCA)

Seguono quei Paesi che devono tutelare precisi rapporti commerciali, come il Brasile dell’ultra destro Bolsonaro, che ha fatto visita al presidente russo poco prima dell’invasione spinto dal fatto che importa dalla Russia il 69 per cento del fabbisogno di fertilizzanti. La questione delle relazioni economiche ha avuto quindi un suo peso, se pensiamo che l’anno scorso la bilancia dei pagamenti tra Russia e America Latina, a netto favore dei russi, con l’esportazione di fertilizzanti, acciaio, petrolio raffinato e vaccini ha prodotto un volume pari ad undici miliardi di dollari. In cambio l’America Latina ha venduto frutta, verdura, carne e pesce, per una somma di otto miliardi e mezzo in divisa nordamericana. Ciò spiega anche perché, in un conflitto tutto sommato visto come lontano, nessun Paese dell’area abbia imposto sanzioni alla Russia. Mentre nessuno pare abbia intenzione di farlo in futuro, nonostante le pressioni dei nordamericani.

Vladimir Putin con Jair Bolsonaro al termine della sua visita in Brasile, 15 novembre 2019.

Così, poco dopo esser sceso dall’aereo che lo riportava a casa da Mosca con l’accordo economico in tasca, Bolsonaro ha assicurato che, per quanto riguardava la guerra appena iniziata, “non prenderemo posizione, continueremo a essere neutrali”. Una posizione quantomeno non condivisa col suo gabinetto, se il suo vice, il generale a riposo Hamilton Mourao, lo smentiva un minuto dopo. Per restare in ambito carioca, non poteva passare inosservata un’intervista rilasciata al Time, che gli ha pure dedicato la copertina dell’edizione brasiliana, da parte di Lula da Silva, dato al momento vincente alle presidenziali del prossimo 2 ottobre.

Putin, ragiona Lula, non avrebbe dovuto invadere l’Ucraina. Ma non è solo Putin ad essere colpevole, sono colpevoli gli Stati Uniti, è colpevole l’Unione Europea. Qual è la ragione dell’invasione dell’Ucraina? È la NATO? Gli Stati Uniti e l’Europa avrebbero potuto dire. ‘L’Ucraina non entrerà nella NATO’. Il problema sarebbe stato risolto.

Parole che in qualche misura riecheggiano Francesco. “Cos’ha scatenato questa guerra? Probabilmente l’abbaiare della Nato alla porta della Russia… Un’ira che non so dire se sia stata provocata, ma facilitata forse sì”. Anche lui latinoamericano e proveniente dalla “fine del mondo”, fattori che di certo hanno un qualche peso nella valutazione degli eventi. E con Lula, sicuramente consapevole della condotta degli yanquis in quello che consideravano, e forse continuano a ritenere, il loro “patio trasero”, il cortile di casa. 

Di un simile imbarazzo è stato protagonista il presidente argentino Alberto Fernández, stretto tra le ragioni del Fondo monetario internazionale sul debito sovrano e quelle della sua vice Cristina Kirchner, che capeggia l’opposizione in casa. In visita a Mosca, Fernández ha offerto il suo Paese come porta d’ingresso degli interessi russi nel subcontinente. Poco dopo, i tank russi entravano in territorio ucraino costringendolo a una rapida virata. 

Ricordava Sergio Ramírez in quel suo scritto citato, come il ventaglio offerto dalla sinistra latinoamericana sia vario, e ospiti posizioni improntate a ragioni ideologiche e di antiamericanismo programmatico, per le quali ogni forza che si oppone agli USA e alla loro strategia di penetrazione nel subcontinente, si trasforma ipso facto in meritevole antimperialismo.

La realtà, a onor del vero, assai lontana, registra invece l’esistenza di una variante più soft di uno stesso fenomeno, che ora fa perno sulla conquista di avamposti commerciali e su politiche finanziarie allettanti da parte dei cinesi, ma che a lungo andare si rivelano capestro per i debitori. Priva di ogni connotazione ideologica a differenza del “prodotto” nordamericano, si espande a macchia d’olio in tutta l’America Latina e per il momento non prevede la presenza di basi militari. Ma fino a quando?

Quello dell’antiamericanismo programmatico è la variante dell’antimperialismo naïf e “credulone”, alla quale appartiene, per comodo più che per convinzione, di sicuro Evo Morales che ha lanciato un appello alla mobilitazione internazionale “per frenare l’espansionismo interventista della Nato e degli Usa”. Il suo Paese, la Bolivia, intrattiene relazioni strette con la Russia fin dai tempi in cui era al governo, ed ha sottoscritto accordi di collaborazione in campo sanitario, militare ed energetico. L’attuale presidente Luís Arce, già ministro dell’Economia di Morales, non ha deviato dalla strada maestra. 

È una scuola di pensiero secondo la quale semplicisticamente l’imperialismo continua a essere appannaggio di una sola parte, quella americana, poiché tutto ciò che fanno gli Stati Uniti è opposto agli interessi della rivoluzione e dell’emancipazione dell’umanità, soprattutto latinoamericana e in particolare indigena. Per meglio dire, aymara e quechua, perché gli altri popoli originari non contano. 

Questa sinistra venata di devianze populiste e autoritarie che Sergio Ramírez definisce “giurassica” è disposta a dare ancora credito e appoggio al discorso ufficiale di una dittatura dinastica come quella di Ortega in Nicaragua, che nulla ha a che fare col sandinismo originario. 

Sostiene la narrazione di una nomenklatura non all’altezza della sfida odierna e chiusa in difesa del presente, come quella cubana. Il cui operato sta precipitando la trasformazione dell’isola in un carcere a cielo aperto come risposta alla rivolta popolare dell’11 luglio 2021. Con una crisi economica e sociale da cui il governo non sa uscire. L’ultimo atto è di domenica 15 maggio quando l’Assemblea Nazionale ha approvato un nuovo Codice Penale che tra le altre cose commina il carcere a chi insulta i funzionari pubblici. Un provvedimento che ha suscitato le critiche dell’opposizione che lo ha giudicato uno strumento contro la protesta sociale e il giornalismo indipendente. Una chiusura al dialogo, unica via per risolvere la crisi cubana.

Difende ancora, anziché prenderne le distanze, un regime corrotto e fallimentare come quello di Caracas, dove migliaia di venezuelani fuggono da un narcostato in bancarotta e dalla fame andando ad ingrossare le file di una migrazione incontrollata preda del crimine organizzato che sta diffondendo le proprie cellule cancerogene fino alle estreme propaggini del subcontinente. 

Un panorama su cui domina la contrapposizione alla politica miope e muscolare degli americani, che si traduce in autolegittimazione e alibi per le proprie deficienze e nefandezze. Ingessando la strategia nordamericana di fatto qualsiasi evoluzione politica positiva di quei sistemi, opta per uno status quo che non nuoce più di tanto ai regimi, mentre penalizza ed affama le popolazioni. 

Evo Morales e Vladimir Putin, 11 novembre 2019.

In questo contesto, è del tutto naturale che il conflitto che sta spingendo il mondo a un passo dal baratro venga semplificato come l’ennesimo capitolo della volontà egemonica nordamericana, giustificando di fatto l’aggressione di un Paese sovrano da parte di una potenza militare superiore. Un Paese che, grazie al Memorandum di Budapest del 1994 presentato al segretario generale dall’allora ambasciatore russo all’ONU Lavrov, aveva accettato di disfarsi del proprio arsenale nucleare in cambio dell’impegno che la sua indipendenza ed integrità territoriale sarebbero state rispettate dalla Russia. 

L’avventura putiniana ha avuto l’effetto di mettere a nudo le profonde differenze esistenti all’interno della sinistra. Sempre più divisa tra chi fa ancora perno su una visione novecentesca figlia della guerra fredda, e chi invece, come Gabriel Boric in Cile, persegue il fine di “democratizzare la democrazia”.

Sulla questione del conflitto Boric ha denunciato la Russia per aver scelto la guerra, ha condannato l’invasione dell’Ucraina, la violazione della sua sovranità e l’uso illegittimo della forza, e testimoniato la propria solidarietà alle vittime dicendosi impegnato nella ricerca della pace. Così facendo, ha riscattato la sinistra latinoamericana, perché “se la sinistra ha qualche fondamento, ha osservato Sergio Ramírez, è l’umanesimo, e le guerre di aggressione sono un crimine”.

Jeanne Simon, politologa statunitense che in Cile vive da vent’anni, ha scritto che Boric appartiene “a una sinistra di classe media e globalizzata. In contrasto con quella del Ventesimo secolo, (…) una sinistra sensibile a temi di genere, diversità sessuale e alla plurinazionalità, una tendenza democratica e non populista… Si avvicina a figure come Alexandria Ocasio-Cortez negli Stati Uniti e José Mujica in Uruguay. Crede in uno Stato maggiormente presente che appoggia la cittadinanza”. Aldo Garzia con intuizione felice l’aveva chiamata sinistra meticcia.

Nel panorama latinoamericano, Boric rappresenta una novità, proponendo un’idea di sinistra che non rinuncia a trasformazioni profonde senza tuttavia venire meno al rispetto della democrazia, delle sue istituzioni e dei suoi contrappesi. Una sinistra democratica che, anche nel caso ultimo dell’invasione russa, ha saputo riaffermare i valori dell’umanesimo, nei fatti negati dalle devianze populiste e autoritarie della sinistra figlia della guerra fredda.

In una realtà come quella latinoamericana, governata in buona parte da governi populisti sia di destra che di sinistra, le relazioni con gli Stati Uniti vivono più di qualche problematicità aggravata dal loro indebolimento a livello locale. Anche questo ha influenzato il giudizio dei singoli Paesi sulla vicenda ucraina, oltre alle previsioni di crescita economica per l’anno in corso dopo l’epidemia che lasciano ampiamente a desiderare. Il tasso di crescita previsto è del 1,5 per cento per il Sud, del 2,3 per cento per Messico e Centro America, e del 4,7 per cento dei Caraibi. Mentre l’inflazione, a parte le esplosioni di Venezuela e Argentina, viaggia attorno al 7,5 per cento. 

Le conseguenze economiche del conflitto hanno prodotto l’aumento dei prezzi di metalli, petrolio e prodotti agricoli. Ciò farebbe pensare che a beneficiarne saranno in primo luogo i Paesi dell’area che producono idrocarburi ed esportano vegetali. Vero se non fosse che tale fenomeno va ad aggiungersi all’inflazione e alla scarsa crescita. Le politiche sui tassi di interesse che le banche saranno costrette ad adottare avranno l’effetto di frenare lo sviluppo, accrescendo il forte malessere sociale con il rischio di proteste popolari. Di cui tutta l’area geografica ha spesso, anche recentemente, sofferto. Facile prevedere che il risultato sarà l’aumento dell’instabilità complessiva con esiti che difficilmente penalizzeranno quelle forze, di destra e di sinistra, che fanno del populismo il loro modo di agire. Il classico gatto che si morde la coda.

immagine di copertina: cartelli di protesta contro l’invasione russa nel centro di San Paolo del Brasile

La guerra russa ridefinisce idee e linee in America Latina ultima modifica: 2022-05-16T18:29:02+02:00 da CLAUDIO MADRICARDO
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1 commento

Mario 17 Maggio 2022 a 17:32

Molto equilibrato, sintetico ma esaustivo: una chiara fotografia, molto utile per capire una parte del mondo che vede protagoniste, da tempo, i grandi potenze/visioni/interessi dello scacchiere mondiale.

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