Israele. Il male della sinistra? Il male minore

Il “governismo” e il ”chiunque purché non Bibi” stanno logorando ciò che resta della sinistra israeliana. Il governo come fine e non come strumento. Buono per mantenere in vita una nomenclatura ma non per risalire la china.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Messaggio da Israele: l’“anti-persona” distrugge la sinistra. Una lezione che, a ben vedere, supera i confini dello Stato ebraico. Basta cambiare nome e sostituire, per restare alle italiche vicende, Netanyahu con Berlusconi. 

ytali.com ha raccontato in più articoli e interviste l’inarrestata parabola discendente di una sinistra che nella sua componente maggioritaria, il Partito laburista, è stata la spina dorsale politica e istituzionale d’Israele, governando ininterrottamente dalla sua fondazione, 1948, al 1977, quando per la prima volta il Labour venne sconfitto dal Likud di Menachem Begin. La sinistra di David Ben Gurion, Abba Eban, Golda Meir, Yitzhak Rabin, Shimon Pers e, per venire alla componente pacifista, di Shulamit Aloni, la fondatrice di Peace Now e del Meretz. 

Una sinistra sradicata dal tessuto sociale israeliano, subalterna alla narrazione, oltre che alla politica, delle destre, in primis sulla pace, ha creduto di potersi risollevare dalla marginalità cavalcando il malessere popolare nei confronti dell”eterno” Netanyahu, il primo ministro politicamente più longevo nella storia d’Israele, abbracciando lo slogan della protesta: “Tutti, tranne Bibi”.

Quello slogan ha portato, dopo le quarte elezioni in due anni, alla formazione di una eterogenea, a dir poco, maggioranza, per di più numericamente risicata, che metteva insieme la destra filo-coloni di Naftali Bennett, alcuni dei partiti ultraortodossi, il centro laico e moderato, e i due partiti di sinistra, Labour e Meretz. L’hanno chiamato “governo del cambiamento”. Il governo oggi se la vive male, dopo l’abbandono della coalizione di Ghaida Rinawie Zoabi, parlamentare del Meretz, e il suo successivo rientro, tre giorni dopo. Quanto poi al “cambiamento” se c’è stato non si è di certo indirizzato a sinistra.

Dopo un incontro con il numero due del governo, Yair Lapid (Yesh Atid), Rinawie Zoabi (Meretz) [al centro, a fianco di Lapid] annuncia il rientro nella coalizione, da cui s’era staccata tre giorni prima, provocando l’inevitabile crisi di governo.

A darne conto è un interessante articolo di Noa Landau, tra gli analisti politici di punta di Haaretz.

Scrive Landau:

Con o senza la presenza della parlamentare di Meretz, Ghaida Rinawie Zoabi, nella coalizione, le elezioni rimangono nell’aria e ancora una volta la sinistra è bloccata dal ritornello “chiunque tranne Bibi”. Perché ogni frase nel linguaggio della sinistra attualmente finisce con qualche Bibi-ista (come sono conosciuti i fan irriducibili di Benjamin Netanyahu), e il risultato è che il dibattito sulla politica reale è stata chiuso.
La reazione all’annuncio di Zoabi di lasciare la coalizione di governo e le sue critiche all’operato del governo hanno reso chiara la situazione: la stragrande maggioranza degli elettori della sinistra ebraica – cioè gli elettori del Meretz – preferisce l’integrità di un governo che tenga Netanyahu fuori dal potere a qualsiasi altra considerazione. O almeno, pensano che da un punto di vista pragmatico l’alternativa sia peggiore.
Se si considera l’approvazione della legge sulla cittadinanza, la legalizzazione degli avamposti di insediamento, la costruzione negli insediamenti, la violenza dei coloni, l’ebraicizzazione del Negev, l’annessione strisciante dell’Area C della Cisgiordania e la condotta del governo riguardo all’uccisione della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, con tutto il rispetto per la crisi della destra sul chametz negli ospedali a Pesach, è chiaro che le persone che hanno accettato di ingoiare la stragrande maggioranza dei rospi di questo governo sono stati i parlamentari e gli elettori della sinistra. Durante tutto il mandato del governo Bennett, la nave israeliana ha continuato a navigare comodamente a destra su tutte le questioni importanti. L’unica differenza è che questa volta la sinistra è sul ponte di comando. Questo include, naturalmente, il congelamento diplomatico con i palestinesi, l’opposizione a un accordo nucleare con l’Iran e le questioni di religione e Stato.
L’estromissione di Netanyahu, e in qualche misura l’allontanamento dei suoi partner di estrema destra dal governo (“chiunque tranne Itamar Ben-Gvir”, “chiunque tranne Bezalel Smotrich”), è diventato l’obiettivo principale della sinistra, che giustifica quasi ogni compromesso. In altre parole, per tenere Netanyahu fuori dal potere non c’è altra scelta che rinunciare a tutti i principi della sinistra. E così, con l’incoraggiamento dei loro elettori, i ministri del Meretz si sono impegnati soprattutto a farsi passare per tecnocrati statisti.
Per rendersene conto, basta scorrere, ad esempio, l’account Twitter del ministro della Protezione dell’Ambiente Tamar Zandberg nelle ultime burrascose settimane. C’era qualcosa sulla profanazione del funerale di Abu Akleh? O anche solo una breve parola sull’espulsione dei palestinesi da Masefer Yatta? No e poi no.
Invece, si è parlato di cambiamento climatico, veganismo e congedo parentale per i padri, con un pizzico di bandiere israeliane. Anche le sue argomentazioni contro l’ebraicizzazione del Negev erano di natura ambientale. Avrebbe potuto essere l’account Twitter del politico di destra e amante della natura Yoaz Hendel.
In definitiva, dobbiamo ammettere che nella scala morale della maggior parte degli elettori della sinistra ebraica non si tratta solo di considerazioni pragmatiche del tipo “il male minore”. C’è anche una preferenza per una destra il cui comportamento è più “da statista” (“non corrotto”, “non divisivo”), anche se la sua politica è identica; c’è un certo piacere nel partecipare al processo decisionale dopo un lungo periodo di esilio (“la politica sul coronavirus è migliorata”); c’è il desiderio di rinormalizzare la sinistra nell’arena pubblica e nazionale di Israele (“guardate, siamo alle cerimonie nazionali sul Monte Herzl”); e c’è anche il tentativo di “guadagnare tempo” in un Paese fortemente di destra.
Quest’ultimo ragionamento non è banale nemmeno per quanto riguarda i palestinesi, perché in ultima analisi, qui ci sono esseri umani la cui situazione potrebbe essere ancora peggiore. Ma allo stesso tempo, vale la pena di prestare attenzione alle implicazioni più profonde e a lungo termine. La sinistra non ha esercitato alcuna pressione reale sui suoi partner su nessuna delle questioni evidentemente fondamentali; persino il presidente della Lista Araba Unita Mansour Abbas, con un numero inferiore di membri della Knesset, ha fatto di più. E soprattutto è stata trascurata la lotta contro l’occupazione.
Si è quindi creata una situazione in cui i valori di destra dominano sia la coalizione sia l’opposizione. Le critiche provenienti da sinistra sono spesso messe a tacere in nome del “chiunque tranne Bibi”. È stata relegata ai margini della discussione politica ed è espressa principalmente dalla Lista congiunta dei partiti arabi.
La sinistra sta normalizzando le sue persone, non le sue posizioni. È stata rafforzata l’idea che l’occupazione sia una parte inseparabile della realtà israeliana, indipendentemente da chi è al potere.
E Ben-Gvir? In realtà, anche lui è stato rafforzato, perché per tenerlo fuori dal potere, la sinistra è rimasta in gran parte in silenzi”.

Fin qui Landau.

Del “governo del cambiamento” fa parte la leader del Labour, Mirav Michaeli, anch’ella ministra nell’esecutivo guidato da Naftali Bennett:

Non vi è dubbio che in questi anni, e ancor più con la crisi pandemica, quella che è emersa in tutta la sua drammatica incidenza nella vita di milioni di israeliani, è una irrisolta ‘questione sociale’ – annotava Michaeli in una nostra conversazione di qualche mese fa  –  La crisi pandemica ha messo in ginocchio centinaia di aziende, portato decine di migliaia di famiglie sotto la soglia di povertà. È il grande tema delle disuguaglianze sociali, all’ordine del giorno a livello globale, e non solo in Israele. A questo malessere siamo chiamati a dare risposte concrete, praticabili. Oggi, non in un futuro che tanti israeliani è fatto solo di ombre e di una incertezza sempre più opprimente, insopportabile. La risposta che la destra israeliana ha dato non si discosta da quella di quell’universo sovranista di cui Trump, non a caso un modello per Netanyahu, è stato il faro, per fortuna spento il 3 novembre. Molti dimenticano che in Israele si è votato l’anno scorso anche per rinnovare le amministrazioni locali delle più importanti città. Ebbene, in diverse di esse, come Tel Aviv e Haifa, solo per citarne alcune, a vincere sono stati candidati progressisti, uomini e donne che quel malessere sociale l’hanno affrontato e, per quanto possibile, portato a soluzione. Hanno frequentato le periferie, hanno ricostruito un rapporto con le fasce più deboli della società, quelle che un tempo erano un pezzo forte dell’elettorato laburista. Questo rapporto è andato sempre più scemando, divenendo quasi inesistente. Ma io non mi rassegno a questo. Quello che m’impensierisce di più non è l’essere visti come quelli del ‘campo per la pace’ e basta, ma di essere percepiti come quelli delle “élite benestanti”, dei salotti buoni di Tel Aviv. Da qui bisogna ripartire, da un recupero di credibilità tra i ceti socialmente più indifesi, promuovendo anche una nuova classe dirigente. Sì, lo so, ogni segretario appena eletto ripete questo mantra. Stavolta, però, non sarà così. E non perché io sia più coerente e tosta di quelli che mi hanno preceduto, ma perché o si rinnova o si muore. Lo dico con uno slogan che deve tradursi in politica: ‘Tra l’Israele delle start up, che costruisce il futuro, e l’Israele degli ultraortodossi, proiettati nel passato, la nostra scelta è chiara e netta. Quella di Netanyahu, no’”. So bene che lo spostamento a destra del paese non è qualcosa che nasce con quest’ultimo governo, ma che viene da lontano, e da cambiamenti strutturali, in primo luogo demografici e sociali, che la sinistra, e in primis il mio partito, non sono stati all’altezza di cogliere, come invece ha dimostrato di saper fare la destra. Non siamo stati all’altezza delle sfide del cambiamento. Di questo ebbi modo di discutere in uno dei nostri ultimi incontri, prima della sua scomparsa, con Shimon Peres. “’e non sai leggere i cambiamenti intervenuti, sei destinato alla marginalità o a vivere in un passato che non c’è più’, mi disse Shimon. Ed è una lezione che non dimenticherò mai.

Non dubitiamo della sua memoria. Né, conoscendola personalmente, della sua onestà intellettuale. Resta il fatto, però, che il “governismo” sta logorando ciò che resta della sinistra israeliana. Il governo come fine e non come strumento. Buono per mantenere in vita una nomenclatura ma non per risalire la china. E la schiena. Si può condizionare, un pochino, ma non incidere. Si può stare in un governo senza “governare”. Altra lezione che ci viene da Israele.

Immagine di copertina: I sei parlamentari di Meretz

Israele. Il male della sinistra? Il male minore ultima modifica: 2022-05-23T20:44:47+02:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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