Se è vero che tre indizi fanno una prova è chiaro che in Cina sta succedendo qualcosa. A dirla tutta, gli indizi sono molto più di tre. Proviamo a fare un elenco: il rallentamento dell’economia, confermato dalla analisi di alcune banche d’investimento internazionali come l’UBS – secondo la quale la crescita dell’economia del Dragone sarà del tre per cento nel 2022 – e la JP Morgan, che prevede un 3,7 per cento. Entrambe – come del resto molti altri analisti in tutto il mondo – avevano parlato in precedenza di percentuali superiori al quattro per cento. Troppo poco perché la società possa mantenere il ritmo di sviluppo degli anni scorsi e perché la vasta “middle class” – quella che ha sottoscritto lo scambio offerto dal Partito comunista cinese (Pcc), accettazione della dittatura contro costante crescita economica e miglioramento delle condizioni di vita – possa ritenersi soddisfatta.
Per cercare di raddrizzare la situazione è riemerso il quasi dimenticato primo ministro Li Keqiang – secondo indizio – che ha tenuto una video-conferenza con un numero imprecisato ma certamente alto di dirigenti provinciali. Li – che è considerato vicino all’ex-presidente Hu Jintao, a sua volta ritenuto un critico di Xi Jinping – ha tra l’altro affermato che “…le difficoltà, in certi settori e in un certo grado, sono addirittura maggiori che durante il severo shock della pandemia del 2020”.

Terzo indizio: il feroce lockdown imposto improvvisamente e violentemente ai 25 milioni di abitanti di Shanghai è stato contestato più volte da diversi gruppi di cittadini. Le scene surreali che si sono verificate nella capitale economica della Cina e che hanno indotto lo stesso Pcc a non replicare l’esperienza a Pechino, sono frutto della politica dello “zero-Covid” sostenuta a spada tratta proprio dal presidente e segretario generale del PCC, Xi Jinping.
A questi fatti bisogna aggiungere la pessima figura fatta dal “numero uno” sia in patria sia all’estero col sostegno espresso al presidente russo Vladimir Putin per il suo attacco all’Ucraina. La guerra di Putin ha infatti portato a una serie di conseguenze che minano seriamente la politica estera perseguita da Pechino sotto la direzione di Xi Jinping: il rafforzamento della NATO e più generale dell’alleanza tra Stati Uniti e Unione Europea, rafforzamento – non indebolimento, come speravano sia Mosca sia Pechino – della stessa Unione Europea, dimostrazione dei limiti economici, militari e politici della nuova alleata, la Russia di Putin.
E c’è dell’altro: anche la politica di Xi Jinping nel Pacifico – militarizzazione, aggressività sempre crescente verso Taiwan, intimidazione verso i Paesi più piccoli che si oppongono alla sua volontà di egemonia su tutto il Pacifico sud-orientale – ha subito un chiaro smacco con il rifiuto di molti degli invitati di entrare a far parte di un’alleanza politico-commerciale-militare diretta da Pechino. La lunga missione del ministro degli esteri cinese Wang Yi – un viaggio di dieci giorni a Samoa, Tonga, Kiribati, Papua Nuova Guinea, Vanuatu, Isole Salomone, Isole Cook Fiji, Niue e Federazione della Micronesia si è dunque risolta in un fallimento. Lo ha riconosciuto lo stesso Wang – il cui futuro, come quello di tutto il gruppo dirigente di Shanghai, legato a Xi, è incerto – quando ha affermato che le discussioni “proseguiranno”, che la Cina presenterà in un documento “le sue posizioni” e ha invitato gli interlocutori a “non essere ansiosi, non essere nervosi”. Il tutto mentre gli Usa hanno al contrario registrato una serie di successi rafforzando la collaborazione non solo con i suoi principali alleati regionali – Giappone, Corea del Sud, Australia – ma anche con l’India e con una serie di Paesi del Pacifico, tra cui molti membri dell’Asean, l’associazione dei Paesi del Sud-Est asiatico.

Inoltre, il presidente Joe Biden ha rilanciato la presenza americana nella regione con il progetto chiamato Indo-Pacific Economic Framework (IPEF, una specie di mercato comune) dopo la fuga dalla regione e l’isolazionismo che hanno caratterizzato i quattro anni di presidenza di Donald Trump.
Anche il nuovo governo australiano, con le dichiarazioni e i viaggi del premier Anthony Albanese e della ministra degli esteri Peggy Wong – si è mosso con rapidità per contrastare le iniziative cinesi.
Esponendo la politica dell’amministrazione Biden verso la Cina, il segretario di stato americano Anthony Blinken ha affermato tra l’altro che
… invece di usare il suo potere per rinforzare e rivitalizzare le leggi, gli accordi, i principi, le istituzioni che hanno permesso il suo successo in modo che ne possano beneficiare anche altri Paesi, Pechino li sta sabotando. Sotto il presidente Xi, il Partito comunista cinese è diventato più repressivo in patria e più aggressivo all’estero.
Blinken ha aggiunto qualcosa che sicuramente non piace alle principali imprese cinesi:
…per troppo tempo, le compagnie cinesi hanno avuto un accesso al nostro mercato molto più vasto di quello che le nostre compagnie hanno in Cina…
Dopo aver esemplificato citando i settori dei media, del cinema e dell’alta tecnologia, il segretario di stato ha concluso:
…questa mancanza di reciprocità è inaccettabile e insostenibile.
Per quanto riguarda Taiwan, il segretario di stato ha ridimensionato le dichiarazioni di Biden che tanto rumore hanno fatto, affermando che la politica degli Usa “non è cambiata”, in altre parole riaffermando l’“ambiguità strategica” che fino a oggi ha funzionato in modo soddisfacente.

Come tutto ciò si rifletterà sugli equilibri interni al Partito comunista cinese, che in autunno terrà un Congresso nel quale Xi Jinping cercherà di essere eletto per un terzo mandato alla presidenza, è difficile da dire, data la segretezza che circonda gran parte delle sue azioni e dei suoi dibattiti interni. Certo è che il presidente/segretario del Partito/capo dell’esercito non ha successi al suo attivo, dato anche il sostanziale congelamento della Nuova Via della Seta e dalla crisi di uno dei più entusiasti sostenitori di Pechino e della sua politica estera, lo Sri Lanka dei fratelli Rajapaksa.
Per il momento si può dire che probabilmente Xi sarà rieletto ma sarà messo in un certo senso “sotto tutela”, vale a dire che dovrà correggere il suo stile autocratico di governo e di direzione del Paese. Anche l’aggressività verso l’estero – simboleggiata dai cosiddetti wolf-diplomats, i diplomatici-lupi guidati dall’azzimato Zhao Lijian – ne potrebbe risentire, come la parziale marcia indietro sull’alleanza con la Russia potrebbe indicare.
A meno che non si verifichi un terremoto oggi non prevedibile o che il dittatore, messo alle strette, tenti un colpo di forza su Taiwan con conseguenze drammatiche.

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