Visitando mostre e musei dedicati all’arte contemporanea, o le nostre Biennali, spesso ci si imbatte in opere che sono Senza titolo (esiste anche una Untitled Association). Volendo giocare un po’ banalmente con le parole ci si potrebbe chiedere se questa circostanza non dipende dal fatto che forse quelle opere non hanno i “titoli” per entrare nella categoria dell’arte.
In un doppio senso: quello puramente negativo, per cui si dice, per esempio, che tizio esercita la professione di dentista senza averne i titoli; e un altro, polemico e consapevole, per il quale i produttori di tali oggetti, che comunque continuano in maniera ambigua a essere indicati come prodotti artistici, rivendicano un sorta di alterità radicale, in ogni caso una differenza sostanziale, rispetto all’arte del passato, anche recente. Come scriveva Roland Barthes in L’ovvio e l’ottuso: “Vi sono dunque due voci, come in una fuga: una dice: ‘Questo non è Arte’, e l’altra, contemporaneamente, dice: ‘Io sono Arte’.”
Per parte loro, a dire il vero, gli artisti oscillano tra l’afasia del “Senza titolo” e titoli, diciamo così, sovrabbondanti, sfasati, troppo ironici, provocatori, pseudo-leggeri (alla Duchamp) oppure carichi di pesanti intenzioni cosmico-metafische. Qualche esempio: la performance del 1965 di un famosissimo artista tedesco (Joseph Beuys), Come spiegare la pittura a una lepre morta, oppure l’installazione di un noto artista inglese (Damien Hirst) al Lever House in Park Avenue dal titolo Scuola: l’Archeologia dei Desideri perduti, compreso l’Infinito e la Ricerca del Sapere, per arrivare a Storia della Notte e Destino delle Comete del nostro Gian Maria Tosatti al Padiglione Italia di quest’ultima Biennale.
Non si va, però, molto lontano su questa strada, che è poi quella condannata a ripercorrere all’infinito la noiosissima querelle che ha asfissiato il dibattito intorno all’arte degli ultimi cinquant’anni, più inutile di quella astrazione/figurazione, più pedante della madre di tutte le querelle, quella seicentesca des Anciens et des Modernes.
È un fatto, comunque, che la letteratura di commento è da tempo ormai parte integrante delle “opere”, e “il dispendio di retorica in prossimità dell’immagine” (Arnold Gehlen) sembra indispensabile all’esistenza stessa dell’opera, se non sempre al suo senso. È indicativo, inoltre, che la cultura del commento cerchi aiuto da ogni parte – fenomenologia, psicoanalisi, linguistica, antropologia, sociologia… – salvo poi porsi domande semplicemente “imbarazzanti” come questa di Rosalind Krauss, raffinatissima e quasi illeggibile teorica dell’arte, a proposito di un famoso scultore americano: “come spiegare la bellezza dell’aggressività implacabile dell’opera di Richard Serra…?” dove compare la parola tabù di quasi tutta la critica e dell’estetica del nostro tempo: bellezza. Oppure prendiamo il noto e influente filosofo americano Arthur C. Danto, che dopo aver dedicato decine di anni e centinaia di brillanti e prolisse pagine a cercare di convincerci (e convincersi) che la Brillo Box di Andy Warhol, nonostante l’irrilevanza estetica, è arte al pari della Gioconda (basta cambiare un po’ i parametri interpretativi) alla fine, in un contorto e tormentato libro del 2003, ci dice che avremo sempre bisogno della bellezza, perché certamente, dopo l’”abuso” e il massacro che ne è stato fatto nel Novecento, essa è ormai solo “un’opzione per l’arte” ma è anche “una condizione necessaria per la vita così come vorremmo viverla”. Questa distinzione cosa significa? Che in un museo possiamo essere interessati anche a una scatoletta di merda (purché sia “d’artista”), a una vecchia sedia con grasso (purché rimandi all’esperienza sciamanica di un “artista”), a un mucchio di terra, rami e pietre (purché rimandi a un vago messaggio ecologico), ma che là fuori, nel mondo della vita, abbiamo bisogno di abitare in belle case e belle città, di ammirare un bel paesaggio, di innamorarci di una bella donna, e magari, per chi se lo può permettere, esibire in salotto un Bonnard o un Morandi? Se le cose stanno così, non mi sembra un gran risultato.
Ci si dovrà ritornare, sulla bellezza intendo.
E intanto viene da chiedersi a che “titolo” anch’io, così come tutti quelli che s’interessano alle questioni dell’arte parliamo di queste cose.
In queste occasioni mi vengono sempre in mente le parole di Picasso: “Le persone che vogliono spiegare un quadro abbaiano di solito all’albero sbagliato.”
Oppure quelle di Barnett Newmann, secondo il quale “l’estetica sta agli artisti come l’ornitologia sta agli uccelli.”
Per parte mia, in quest’ordine di battute, preferisco Paul Valéry, che giustamente si rivolge agli artisti: “Un pittore dovrebbe sempre pensare di dipingere per qualcuno cui manchi la facoltà del linguaggio articolato… Non dimentichiamoci che una cosa molto bella ci rende muti d’ammirazione.” Che non è, si badi bene, l’ammutolire da stupore, che molti artisti invece perseguono.
Come si vede, in questi casi ci si trae d’impaccio ricorrendo alle citazioni dei grandi o dei noti, cercando il sostegno di qualche maestro vero nelle questioni dell’arte.
Prima, però, farò ricorso a un altro espediente, anche questo usato spesso: il racconto di esperienze personali. Ed è quello che mi appresto a fare, mettendo insieme esperienze passate e quella più recente, la visita alla 59ª Biennale.
Partiamo dal passato. Alcuni anni fa ho visitato la mostra dedicata a Hermann Nitsch al Leopold Museum di Vienna. Nitsch è un noto rappresentante dell’Azionismo austriaco, assieme a Günter Brus, Otto Muehl, Rudolf Schwarzkogler. È quello del Teatro di Orge e Misteri, dove utilizzava cadaveri di animali e sangue vero. In seguito pare prediligesse la manipolazione di ortaggi, frutta, pesci ecc. I suoi amici si sono esibiti in performance anche più deliranti. In altre sale del Museo ci sono Schiele, Klimt… e in quei giorni c’era anche un’altra mostra, Malinconia e provocazione. Progetto Schiele, dedicata al confronto che alcuni di questi artisti, tra cui Brus, Schwarzkogler…, hanno instaurato col giovane maestro.
E Nitsch ha avuto modo di dire che “Schiele è stato la fonte di ispirazione per poter conseguire le mie forme di creazione migliori e più estreme”.
La giovane persona che mi accompagnava, colta e sensibile ma poco addentro ai misteri per niente gaudiosi dell’arte contemporanea, dopo aver ammirato i meravigliosi nudi di Schiele, i suoi autoritratti crudeli e amorosi, i suoi paesaggi leggeri e compatti, fu colta da un moto di disgusto alla visione delle opere di Nitsch e mi chiese in che cosa consistesse l’artisticità di quella “roba”, che lei trovava decisamente brutta, anzi orribile.
Ho provato a fare il professore e a spiegarle che siamo ormai da tempo in presenza di un superamento dell’opera d’arte intesa in senso tradizionale, della cosiddetta pittura retinica, che da Duchamp in poi l’arte “si fa con tutto” (Angela Vettese), che il nostro tempo forse richiede anche questo tipo di espressione, l’uso di altri mezzi, l’abbandono del vago, obsoleto concetto di bellezza, bla bla bla… Forse non ero tanto bravo a spiegare, o forse si capiva che non ero molto convinto di quello che andavo dicendo, fatto sta che la giovane persona mi ascoltava perplessa, per niente convinta, e in ogni caso non trovava nessun contatto tra la bellezza dolente e severa dei quadri di Schiele e i paramenti sacri lordati di sangue e sperma di Nitsch o i video delle cerimonie del suo teatro della finta crudeltà, della ricerca del contatto con le forze oscure e primarie della Vita e dell’Essere e altre ciniche e reboanti sciocchezze.

Tutta quella trasgressione, poi, era finita in un bel museo, celebrata e ufficializzata. (Anche Venezia, in occasione di questa Biennale, gli dedica uno spazio a Oficine 800, dove possiamo “ammirare” una sua action painting del 1987). Paradossale destino di avanguardie, neoavanguardie, postavanguardie e transavanguardie. Anche questa, in fondo, vecchia storia. A Milano, alcuni anni fa, Marina Abramović è stata accolta come una sacerdotessa da centinaia di fan adoranti nello stesso ambiente dove nel 1977 una sua performance era stata interrotta dalla polizia.
Qualche mese dopo la visita a Vienna mi è capitato di tornare a vedere la cappella degli Scrovegni a Padova. Non è neanche il caso di parlare della meraviglia che Giotto produce sempre. Mi interessa ricordare invece un altro momento della visita. La stessa giovane persona, che anche qui mi accompagnava, ricordando l’esperienza del Leopold Museum, a un certo punto mi ha detto, a bassa voce, quasi vergognandosi un po’, che la pittura di Giotto le sembrava molto più prossima a quella di Schiele di quanto non lo fosse, ancorché dichiarata dall’interessato, quella dell’opera di Nitsch. Tra Giotto e Schiele c’è un’aria di famiglia, diceva, anche se non sapeva indicare bene in cosa consistesse precisamente la parentela. Secoli li separavano, temi, sensibilità e tecniche, eppure…
Eppure…- questo provo a dirlo io, ma sono in buona compagnia – hanno in comune una lingua, che è fatta della conoscenza e della padronanza di ciò che può una linea, che può un colore, combinati a una quantità di desideri, d’intenzioni e di condizioni, riportate a una condensazione estrema e precisa, quella che un tempo si chiamava la Forma, “sintesi di visione esterna e contemplazione interiore”, secondo la mirabile, e difficile, definizione di Paul Klee.
“Le belle opere sono figlie della loro forma, che nasce prima di loro.” (Paul Valéry) L’arte è la capacità e la passione di trovare quella forma dietro il caos delle percezioni.
Schiele e Nitsch avranno pure in comune l’interesse per il sesso e il sangue , e basta…: “Il soggetto di un’opera è ciò a cui si riduce una cattiva opera.” (Paul Valéry)
L’esposizione di Vienna e l’attuale Biennale mi hanno suggerito anche qualche altra considerazione, per cercare di spiegarmi l’effetto che da molto tempo ormai hanno su di me, ma credo anche su molti altri, le mostre e i musei d’arte contemporanea: la noia.
Può la noia essere un criterio per il giudizio estetico? Io credo di sì. Parafrasando Nietzsche, direi che “abbiamo l’arte per non morire di noia” . Lui diceva “per non morire della verità”, ma in fondo la noia è uno dei volti della verità travestita, agghindata, imbellettata, insomma la spia di una verità prostituita. Ebbene, molta arte contemporanea può essere profondamente noiosa.
Da un lato, in alcune sue correnti, dichiara di perseguire l’obiettivo di condurre l’arte alla riconquista della vita e del reale, del quotidiano – estetizzazione di tutto; il che significa, innanzitutto, guadagnare sicuramente in estensione ma significa anche perdere in intensità, coltivare un feticismo moderno dell’oggetto – andando incontro, secondo me, a quel disastro antropologico intravisto da Karl Kraus quando scriveva che “il mondo si divide in quelli che usano l’urna come vaso da notte e quelli che usano il vaso da notte come urna.”
Dall’altro lato abbiamo i partigiani dell’arte come shock, i portatori di un’estetica dell’eccesso e del nuovo a tutti i costi, dell’abnorme in tutti i sensi, fino alle estremizzazioni dell’immondo e dell’abietto.
Intanto, questa faccenda del “reale” e del “quotidiano”.
Ma per il reale e il quotidiano abbiamo il soggiorno di casa nostra, i centri commerciali, la televisione, gli aeroporti…l’IKEA…!
Quando mai hanno c’entrato qualcosa con l’arte il cosiddetto reale e il quotidiano!?
Scrive Malraux: “Arte è ciò che è eterogeneo alla realtà, ostile al mondo dei fenomeni, ciò che si rivolta contro l’illusione e la saturazione.”

Se poi andiamo in cerca di esperienze “sublimi” o “pseudo religiose”, “quasi mistiche”, abbiamo sempre una scalata sul Nanga Pàrbat, l’attraversamento del deserto, lo Yoga tantrico, il sesso estremo, un colloquio col Papa o una gita a Medjugorje… Ma lasciamo stare l’arte!
Se l’arte vuole appropriarsi della realtà (espressione orribile!), o competere con essa, finisce col diventare triste e noiosa, come gli “imbrogli” cinici di Warhol e lo sciamanesimo pseudo-schellinghiano e para-steineriano, un po’ ridicolo e un po’ inquietante, di Beuys, nonché di una pletora di discepolini.
L’arte ha sicuramente a che fare con la malinconia, senza la quale non ci sarebbe poesia, che è il canto della nostra finitezza, ma non ha a che fare con la tristezza, se non prendendola a motif, a pretesto.
L’impressione che mi lasciano spesso i musei e le mostre d’arte contemporanea è invece quella di un gigantesco cumulo di vecchi giocattoli rotti, che è quanto di più triste si possa immaginare. L’elemento ludico dell’arte diventa qui fonte di angoscia: bambole, intatte o sventrate, trenini e automobiline irriconoscibili, lego e meccano, resti industriali, più o meno giganteschi. Le installazioni sembrano spesso uscite da vecchi depositi di materiali di scarto, o da un baule dimenticato in soffitta, rottami che un bambino un po’ folle e megalomane ha assemblato per stupire gli adulti.
Infantilismo di questo genere d’arte – ma non quello di Baudelaire o di Klee.
Scrive infatti Baudelaire, nella prosa più straordinaria della critica d’arte di tutti i tempi, Il pittore della vita moderna: “Ma il genio non è che l’infanzia ritrovata con la volontà, l’infanzia dotata, per esprimersi, di organi virili, e dello spirito analitico che gli permette di ordinare il cumulo di materiali involontariamente ammassati.” – “L’uomo di genio ha i nervi solidi: il bambino li ha deboli”.
L’infantilismo lo ritroviamo anche nella predilezione di certi artisti per l’immondo; il bambino ama giocare con i suoi escrementi e le sue secrezioni. Da Piero Manzoni a David Nebreda, a Louise Bourgeois, che nel 1992 presenta a Documenta IX di Kassel i suoi Preziosi liquidi (ora al Pompidou) – gli umori del corpo: sangue urina lacrime sperma… -, conservati in ampolle di vetro, alambicchi, vasetti farmaceutici; l’elenco potrebbe essere lunghissimo. L’artista che “gioca” in questo modo, più o meno ironicamente, pensa di essere un “bambino assoluto”, “individuo totale” che manipola in quanto artista quegli oggetti eminentemente “parziali” che sono gli escrementi. Oppure le reliquie, ciò che resta del corpo, dell’umano, ciò che nella prospettiva superstiziosa resta del sacro. Ma come le reliquie non hanno niente a che vedere con l’immagine santa, così temo che anche i rituali degli azionisti, e le manipolazioni della body art abbiano poco a che vedere con l’arte. Jean Clair vi ha dedicato un interessante libretto, De immundo, appunto. Si tratta anche di narcisismo, ovviamente; “disturbo” da cui sono affetti da sempre quasi tutti gli artisti, e senza il quale, probabilmente, non sarebbero quello che sono. Nel caso dei contemporanei, però, questo tocca vertici patetici e spesso ridicoli, ossessioni feticistiche, superfetazioni di un ego che non sa più da che parte girarsi per offrire allo spettatore pezzi della propria vita come se avessero un valore universale, o elaborazioni “estetiche” di lutti privati, rispettabilissimi ma spacciati per contenuti che dovrebbero riguardare il mondo intero. I “casi clinici” sono molti, ma pochi i Van Gogh e i Munch.

Prendiamo l’esempio di Lynn Hershman Leeson, pioniera della cyborg art, premiata con una segnalazione quest’anno a Venezia. Nella necessità di spingersi “oltre i regni tradizionali dell’arte” (ma perché sentono tutti questo urgente bisogno?), la nostra artista ha prodotto negli anni cloni di se stessa attraverso sinistri autoritratti, come maschere di cera con la registrazione del proprio respiro difficoltoso per una malattia di cui ha realmente sofferto, oppure la moltiplicazione di alter ego nelle varie “Roberta Breitmore”, dotate di “vita propria”, portate poi a “morte” nel 1978 a Ferrara nel corso di una specie di esorcismo sulla tomba di Lucrezia Borgia.
Presentando la 59ª Biennale, intitolata Il latte dei sogni (per quanto mi riguarda, dopo averla vista, direi Il latte degli incubi!), la curatrice Cecilia Alemani, fa riferimento alla filosofia del postumano e alla necessità, per essere all’altezza delle sfide del nostro tempo, di superare il vecchio umanesimo, che sarebbe quello fondato sul modello bianco/maschio/europeo/eterosessuale. Come dire: oltre l’Uomo vitruviano di Leonardo, verso Cyborg (“epifania dell’ibridazione e contaminazione dell’antropopoiesis”, secondo la definizione dell’Abbecedario del postumanismo). Se Nietzsche avesse saputo che una variante, o addirittura il destino, del suo Übermensch sarebbe stata questa probabilmente non avrebbe scritto Così parlò Zarathustra.
Quindi, sempre per non restare indietro rispetto a ciò che accade intorno a noi e dentro di noi, “sono molte le artiste e gli artisti che ritraggono la fine dell’antropocentrismo, celebrando una nuova comunione con il non-umano, con l’animale e con la Terra, esaltando un senso di affinità fra specie e tra l’organico e l’inorganico, l’animato e l’inanimato.” Sarò un po’ in ritardo sui tempi, ma confesso che non sento molte affinità con gli alieni vorarefiliaci di Mire Lee (il suo maestro sembra proprio quel HR Geiger che ha inventato l’Alien di Ridley Scott), i robottini di Geumhyung Jeong, le Sentinels of Change di Sandra Mujinga, o i Predators di Andra Ursuţa, qui esposti. Sentinelle di quale cambiamento? Quello da cui dovremmo proteggerci o quello che dobbiamo abbracciare, volenti o nolenti? In ogni caso non sembra una bella prospettiva. Il cyborg-pensiero non è poi neanche tanto una novità, visto che il Manifesto cyborg di Donna Haraway, la filosofa di riferimento, è del 1985. Quel testo, tra l’altro, si proponeva come “un ironico mito politico fedele al femminismo, al socialismo e al materialismo”. Ora, se c’è qualcosa che manca totalmente nelle opere de Il latte dei sogni è proprio l’ironia; quanto a mito politico e connessi, bisogna fare un grande sforzo per trovarne qualche traccia significativa, a parte un’overdose di femminismo un po’ stralunato e in fondo di maniera (però io sono un maschio/bianco/europeo/eterosessuale di una certa età e mi si dirà che me ne è preclusa la comprensione). Il pensiero che guiderebbe la mostra avrebbe quindi quasi quarant’anni, e per chi è ossessionato dalla necessità di essere al passo coi tempi mi sembra già tanto. Infatti la Haraway si è già stancata del cyborg e ha preso le distanze da quel momento proponendo una nuova prospettiva che, a dire il vero, sarebbe anch’essa qui rappresentata. Ma su questo tornerò più avanti.

Invece, riprendendo brevemente il problema Umanesimo e Rinascimento, forse bisognerebbe ricordare che già allora alcuni artisti praticavano mescolanze e ibridazioni tra i vari regni della Natura e il mondo umano. Bastino gli esempi notissimi di Hieronymus Bosch e Arcimboldo. A proposito di quest’ultimo, Roland Barthes notava che spesso gli effetti che producono in noi i suoi quadri sono di repulsione e di disagio, attribuendo questa reazione al fatto che le sue teste sono “composte” e il procedimento messo in atto “interviene a sconvolgere, disgregare, guastare il sorgere unitario della forma.” La forma, appunto. L’oblio della forma genera mostri, si potrebbe dire. Ma il “mostro” di Arcimboldo è anche “meraviglia”, nel senso che si dava nel suo secolo a questa parola. L’eccesso, la metamorfosi, la trasmigrazione qui s’inquadravano in una “sapienza” che era “saggezza naturale”, la “magia” di Pico della Mirandola. I “mostri artistici” che nascono dal pensiero postumano, oltre alla repulsione e al disagio, non mi sembra, invece, che vadano molto lontano, sulla strada di una qualche “saggezza” intendo. Per quanto riguarda l’opera formidabile di Bosch, è quasi banale osservare che vi sono già contenuti e ampiamente surclassati tutti i “surrealismi” che verranno dopo, compresi quelli presenti in questa Biennale. Ma andando anche un po’ più indietro del Rinascimento, abbiamo dimenticato il “Medioevo fantastico” di Baltrušaitis? Alla fin fine, quindi, poco di nuovo sotto il sole, e quel poco anche poco interessante. Il fatto è, inoltre, che l’inseguimento forsennato della novità lascia il fiato corto e produce nei fruitori un effetto di saturazione, sia percettivo che emotivo. E sarebbe anche ora di finirla con questa povera idea stereotipata dell’Umanesimo, tutto antropocentrismo armonia e ottimismo, visto che ormai non si contano gli studi che ne mettono in evidenza la “mente inquieta” e anche tragica. In ogni modo, con tutta l’attenzione dovuta allo Zeitgeist e alla filosofia del postumano, per quanto mi riguarda preferisco, ancora per un po’, la compagnia di Pico, di Marsilio e di Leon Battista.

Per tornare a questioni più generali, e per completare la classificazione, nella rubrica infantilismo ci possiamo mettere anche la Land Art. Dietro impegnative affermazioni filosofiche intorno alla Natura e al posto dell’uomo in essa, che cosa fanno in fondo i vari maestri di questa corrente (Smithson, De Maria, Heizer, Long e tanti altri) se non scavare buche per terra, mettere in fila o accumulare sassi in belle pile, piantare pali, costruire tende per giocare agli indiani o casette sugli alberi per nascondersi, come si faceva da bambini? Solo che i bambini sanno benissimo perché si danno a tutte quelle divertenti attività; sulla consapevolezza degli artisti nutro qualche dubbio, lette alcune dichiarazioni d’intenti o di poetica.
Un esempio recente di Land Art affetta da “infantilismo ingenuo” (sponsorizzato, però, da una nota ditta di caffè) è quello di Saype, un simpatico ragazzo che in occasione di questa Biennale ha fatto girare per i canali di Venezia un enorme pontone con un “dipinto” biodegradabile su erba che rappresenta due mani intrecciate. Supporto esagerato per un messaggio a sua volta esageratamente banale (l’immagine, tra l’altro, è di quelle che troviamo in centinai di tatuaggi), per quanto condivisibile e pieno di buone intenzioni.
Diverso il caso Dely Morelos che alle Corderie presenta un’installazione, Earthly Paradise, per la quale torna in scena Donna Haraway e le sue più recenti teorie sul Compost, oltre la post-umanità, in direzione dell’“Humusità” (sic): “Siamo humus, non Homo, né Anthropos; siamo composti, non post-umani.” L’opera di Morelos, un corridoio di terra, un po’ labirinto un po’ trincea, fatto di strati sovrapposti di varie sostanze, dovrebbe invitarci a sentire appunto che noi abitiamo l’humusità, che “siamo tutti licheni”, che dobbiamo “unirci alle trasformazioni metaboliche tra e fra rocce e creature per vivere e morire bene.” (Donna Haraway) Non ho idea di cosa pensa Donna Haraway dell’arte che si richiama alle sue analisi, dottissime, interdisciplinari e complesse, ma il risultato mi sembra di una povertà espressiva e propositiva sconcertante. Chi ha frequentato un po’ il mondo contadino e conosce l’odore dell’erba falciata, della terra arata, ma anche quello meno poetico dei letamai e delle stalle, oltre alla prossimità con un gran numero di animali piccoli e grandi, dalle lucertole ai tori, chi ha camminato per una giornata in mezzo a un bosco (senza sentire il bisogno di stare nudi tra gli alberi e simulare orgasmi con cespugli di felci, come accade nel video del cinese Zheng Bo – ed è certamente vero che l’arte non ha nulla a che vedere con il “buon gusto” e il “buon senso”, ma con il gusto sì e quindi con la facoltà di giudicare) non ha bisogno di molto altro, se vuole, per capire certe verità sul nostro rapporto con la natura.

Nel mezzo di questo maelström di radici e piante che nascono da corpi femminili, di branchie, chele, bulloni e guarnizioni, cavi, piume e becchi, pareti intere di video noiosissimi ecc. ecc., provoca un moto quasi di tenerezza imbattersi nei piccoli raffinati dipinti della giovane pittrice veneziana Chiara Enzo, che con ostinazione (e un po’ di ossessione) si dedica a rappresentare segmenti del corpo umano non sempre in salute.
Prima di concludere questa passeggiata, un’ultima considerazione. Credo che negli ultimi sessant’anni siano stati prodotti più manufatti artistici, o sedicenti tali, che dai tempi remoti di Lascaux in poi. Ovviamente in omaggio alla tesi che “ogni cosa può essere arte”, ma è anche evidente (ed è appena il caso di ricordarlo) che si tratta di un fenomeno associato alla produzione di merci in generale. Il nostro è il tempo dell’eccesso, della bulimia, quindi della nevrosi.
Ora entro nel Padiglione italiano, dove si trova l’installazione di Gian Maria Tosatti. Ho ascoltato la presentazione che dell’opera hanno fatto il curatore Eugenio Viola e l’artista il 14 febbraio. Ho sentito parlare dei nostri tempi incerti, dell’ascesa e della caduta del nostro cosiddetto miracolo economico degli anni Sessanta (Storia della Notte) e dell’annuncio di “una visione palingenetica e catartica” (Destino delle Comete). Ho sentito citare Zanzotto, Rea, Saviano e soprattutto Pasolini (“darei tutta la Montedison per una lucciola”). Ho sentito dire che noi siamo distratti dai veri problemi perché ci si occupa soltanto della Russia, dell’America, dell’Ucraina… della guerra… “le solite cazzate” (sic!). Poi, con una guerra davvero in corso, ho visto il Padiglione Italia. Ho visto dei polverosi rottami industriali disposti con cura teatrale, dei tubi pendere dal soffitto, ho visto una povera camera da letto anni Sessanta che forse avrebbe dovuto ricordare la malinconia di una classe operaia che non è mai andata in paradiso, ho visto delle vecchie macchine da cucire allineate; ho intravisto, nell’“epifania finale”, le lucine sull’acqua che dovrebbero annunciare “palingenesi e catarsi”. Come suggeriva il curatore, all’uscita dal padiglione sono andato via con qualche domanda in più. Ma non sui problemi complessi dell’industrializzazione selvaggia, sui suoi fallimenti, con le sue ricadute sociali e ambientali e su cosa fare, ecc. ecc.; per quelle ci sono già tanti libri, inchieste, documentari… No, la domanda era una sola: come possono, opere come questa, “disegnare una prospettiva, una via d’uscita dai tempi incerti”? E la domanda è rimasta tale. Dietro di me c’era una giovane coppia e ho provato a chiedere loro cosa pensavano del luogo che avevano appena attraversato. Non se l’aspettavano, si sono guardati un po’ imbarazzati e la ragazza ha azzardato timidamente: “Non saprei…è interessante, ma mi sembra un posto, come dire?…un po’ finto…”. Poi, qualche giorno fa ho visto le foto e il video girato dal soldato Dmytro Kozatsky prima di arrendersi ai russi a Mariupol, Last day at Azovstal, e mi sono fatto qualche altra domanda. In questo caso mi sono dato subito anche le risposte, ma lascio alla fantasia del lettore immaginare quali.

Ma vorrei tornare rapidamente a Schiele e a Giotto, alla loro parentela, e alla siderale distanza che separa entrambi da Nitsch.
Chiedo aiuto ancora a Baudelaire.
…il bello è sempre, inevitabilmente composto di due elementi, anche se l’impressione che produce è unica (…) Il bello è fatto di un elemento eterno, invariabile, la quantità del quale è troppo difficile da determinare, e di un elemento relativo, circostanziale, che sarà se si vuole, separatamente o insieme, l’epoca, la moda, la morale e la passione. Senza questo secondo elemento che è come l’involucro gradevole, stuzzicante, aperitivo, del divino gateau, il primo elemento sarebbe indigeribile, inapprezzabile, non adatto e non appropriato alla natura umana.” (…)
Io prendo, se volete, i due gradini estremi della storia. Nell’arte ieratica la dualità si rivela al primo colpo d’occhio: la parte di bellezza eterna non si manifesta che col consenso e sotto la regola della religione alla quale appartiene l’artista. Nell’opera più frivola di un artista raffinato appartenente a una di quelle epoche che noi, con troppa vanità, diciamo civili, la dualità si rivela ugualmente; la parte eterna della bellezza sarà nel tempo stesso velata ed espressa, se non dalla moda, almeno dal temperamento particolare dell’autore. La dualità dell’arte è una conseguenza fatale della dualità dell’uomo. Considerate, se credete, la parte eternamente sussistente come l’anima dell’arte, e l’elemento variabile come il suo corpo.

Non credo ci sia molto da aggiungere a queste parole chiarissime. Ecco qui Giotto e Schiele, e le ragioni della loro parentela profonda, che li rende partecipi di una stessa storia, da cui mi sentirei di escludere Nitsch e compagni.
Se il vecchio Tiziano, Rembrandt o Delacroix potessero vedere i quadri di Francis Bacon, di Lucian Freud, ma anche di Mark Rothko – artisti che, in modi diversissimi, dimostrano però irrefutabilmente che la pittura-pittura è perfettamente in grado di esprimere il nostro tempo – sarebbero forse all’inizio un po’ perplessi ma riconoscerebbero in loro dei figli della stessa passione per l’immagine e il suo “dramma”. Di fronte a molte altre opere della cosiddetta arte contemporanea probabilmente si ritrarrebbero spaventati come di fronte a una impura “epidemia dell’immaginario”.
Concluderei con un richiamo a quella parola che un po’ troppo sbrigativamente schiere di filosofi e di critici dalla “coscienza infelice”, e talvolta in malafede, hanno pensato di poter espungere dal discorso sull’arte: la bellezza, appunto.
Sicuramente è uno dei concetti più equivoci e problematici dell’estetica. Intanto, però, direi che ha ragione da vendere Susan Sontag quando scrive in An Argument about Beauty che
il fatto che la bellezza non costituisca più un criterio per giudicare l’arte non indica un declino della sua autorità. È piuttosto un indice del declino della convinzione che esista ancora qualcosa chiamata arte.
In ogni caso, quale altra parola abbiamo a disposizione per parlare dell’incontro con quanto di indefinibile, incerto e indeciso, eppure essenziale e inaggirabile anche nella sua terribilità luminosa, vi è nello splendore delle cose del mondo? E’ lo stupore che si concretizza, sub specie aeternitatis, in forme che recano l’impronta di chi quello stupore ha provato e cerca disperatamente di condividerlo, ciò che un tempo si chiamava “stile”, che non consiste, come giustamente scrivevano Horkheimer e Adorno in un testo tanto famoso quanto dimenticato, “nell’armonia realizzata, nella problematica unità di forma e contenuto, interno ed esterno, individuo e società, ma nei tratti in cui affiora la discrepanza, nel necessario fallimento della tensione appassionata verso l’dentità.” . Questo è ciò che fanno i pittori e gli scultori: cercano di saziare una fame particolare, che nasce dal corpo, “materia magnifica del presente” (Camus), e trova soddisfazione in una specie di trascendenza trattenuta, senza aldilà, nell’immaginazione, “regina delle facoltà” .
Che poi significa rendere sopportabile il fatto che siamo mortali; se ogni creatore è anche “interprete delle tenebre, del lato oscuro della vita” (Maria Zambrano) è perché “una delle funzioni dell’arte è di redimere mostri.”
Per questo credo che la grande arte nasca sempre da una rivolta amorosa nei confronti della vita e della sua caducità. “La pittura permette di guardare le cose in quanto esse sono state un volta contemplate con amore. (Valéry)
La bellezza nell’arte è ciò che produce “un’ipnosi leggera” (Freud); le sue opere sono fatte per calmare l’angoscia; è anche ciò che “ci permette di riaddormentarci senza troppa paura”, ci ricorda J. Clair. Abbiamo bisogno della carezza, anche quando la mano è ruvida. Per i pugni nello stomaco c’è già la “realtà”.
La bellezza, forse, non salverà il mondo, come pensava quel russo, ma è sicuramente “una promessa di felicità”, come si augurava quel francese, al quale risponde un altro francese dei nostri tempi: “Nelle nostre tenebre non c’è un posto per la Bellezza. Tutto il posto è per la Bellezza.” (René Char)
Se l’arte non è in grado di fare questo, se non riesce a custodire con rigore, forza e anche dolcezza, la relazione con quel posto che è il nostro mondo, fallisce il suo compito, o diventa un’altra cosa: perversione, pseudo-politica o, molto più facilmente, industria.

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