Piccola guida all’insurrezione del 6 gennaio

I democratici vogliono comprendere e verificare se ci sia stato un coordinamento o un legame tra coloro che spingevano una strategia legale per rovesciare i risultati delle elezioni e coloro che hanno preso d’assalto il Campidoglio il 6 gennaio, mentre il Congresso si riuniva per contare i voti elettorali e ufficializzare la vittoria di Biden.
MARCO MICHIELI
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Nelle scorse settimane sono cominciate le audizioni pubbliche della commissione della Camera dei Rappresentanti che indaga sull’insurrezione del 6 gennaio a Capitol Hill. La commissione sembra voler offrire delle piste ai procuratori per incriminare l’ex presidente Donald Trump. Ad oggi le prove offerte dalla commissione rivelano che Trump ha persistito nelle sue false affermazioni di frode elettorale, nonostante molti dei suoi più stretti consiglieri l’avessero informato del contrario. Il presidente inoltre ha continuato a incitare i propri sostenitori a intraprendere azioni decisive per fermare il “furto” operato, secondo il repubblicano, dai democratici. Tuttavia il percorso per l’incriminazione e un eventuale processo è molto incerto.

Che riesca nel suo intento o meno, l’azione della commissione ha comunque una funzione rilevante ai fini di comprendere quello che è accaduto nei mesi che hanno separato il giorno delle elezioni (3 novembre 2020) dall’insurrezione a Capitol Hill (6 gennaio 2021). Soprattutto perché la delegittimazione dei risultati elettorali operata da Trump e alleati, con la diffusione di affermazioni di frode infondate, costituisce ancora oggi parte integrante della narrazione politica di una componente consistente dei repubblicani e continua ad essere oggetto di scontro interno, come si è potuto osservare durante le recenti primarie per le elezioni di metà mandato del prossimo novembre. 

Secondo Fivethirtyeight, più della metà dei candidati repubblicani che hanno vinto le recenti primarie hanno negato la legittimità delle elezioni del 2020 o hanno sollevato dubbi sui risultati delle elezioni. Non solo. Secondo Pew Research, se l’anno scorso, all’indomani del 6 gennaio, circa la metà degli adulti statunitensi (52 per cento) dichiarava che Donald Trump avesse una grande responsabilità per le violenze e le distruzioni commesse da alcuni dei suoi sostenitori quel giorno, oggi lo afferma solo il 43 per cento. La percentuale di adulti che affermano che Trump ha qualche responsabilità è cambiata poco da allora, ma un numero maggiore di americani afferma che Trump non ha alcuna responsabilità per il caos causato dai suoi sostenitori quel giorno (32 per cento oggi contro il 24 per cento di allora). 

Ma che cosa è accaduto in quei mesi dell’ormai lontano 2020? Cerchiamo di ricostruirlo con il lavoro della commissione.

Il preludio al caos

Non è la prima volta che Donald Trump sostiene che le elezioni siano “truccate”. Già nel 2016 l’allora candidato repubblicano, quando i sondaggi indicavano una vittoria di Hillary Clinton, non si era pubblicamente impegnato ad accettare i risultati in caso di vittoria dell’ex segretario di stato di Barack Obama. Dopo aver vinto, il neo-presidente ha anche sostenuto per lungo tempo che avrebbe vinto anche al voto popolare – vinto da Clinton – se “milioni di voti di immigrati irregolari” non glielo avessero impedito.

Anche per le elezioni del 2020, il presidente aveva iniziato molto prima delle elezioni a metterne in dubbio il risultato. Trump aveva dichiarato infatti che avrebbe rifiutato il risultato di qualsiasi elezione che lui stesso non avesse vinto. A un mese dalle elezioni si rifiutava anche di impegnarsi per una transizione pacifica del potere se avesse perso le elezioni contro il candidato democratico Joe Biden:

Beh, dovremo vedere cosa succederà. Questo lo sapete. Mi sono lamentato molto fortemente delle votazioni. E le schede elettorali sono un disastro.

Ripetutamente il repubblicano ha sostenuto che l’elezione condotta tramite il servizio postale, per evitare i rischi legati al Covid-19, sarebbe risultata in numerose frodi, un’accusa basata su una serie di affermazioni false o fuorvianti e ripetuta durante il dibattito con Biden. Ha anche bloccato i fondi al servizio postale federale nel tentativo di fermare il voto per corrispondenza. Trump ha poi sostenuto l’accusa dell’intervento di potenze straniere. E a qualche mese delle elezioni, aveva anche minacciato via Twitter di rinviare le elezioni, una minaccia prontamente respinta da entrambi i partiti. Sono tutti elementi che torneranno nella narrazione che Trump e i suoi sostenitori non smetteranno di raccontare durante i mesi della transizione tra l’amministrazione repubblicana e quella democratica. E che caratterizzeranno tutte le azioni che il presidente cercherà di mettere in atto tra la vittoria di Joe Biden e il 6 gennaio.

Trump non è nuovo nemmeno a richiami sull’uso della forza. Durante il lockdown, in una serie di tweet, aveva invitato i cittadini a “liberare” i propri stati che applicavano, secondo il presidente, misure troppo dure per contenere l’epidemia di Covid-19. Nello stesso mese, manifestanti contrari al lockdown erano poi entrati armati nel Senato del Michigan.

A poche settimane dalle elezioni, la situazione era così tesa che il Pentagono, attraverso le parole del generale Mark Milley, il presidente dello Stato Maggiore congiunto – l’uomo che dovrà rassicurare la controparte cinese dopo i risultati elettorali per i timori della Repubblica popolare che Trump potesse attaccare la Cina per dichiarare la legge marziale, come raccontano Bob Woodward e Robert Costa in Perildichiara

Abbiamo una lunga tradizione di 240 anni di un esercito apolitico che non si immischia nella politica interna. Noi, militari americani, abbiamo giurato di obbedire agli ordini legittimi della nostra leadership civile. E noi obbediremo agli ordini legittimi del controllo civile delle forze armate.

Una preoccupazione quella della violenza elettorale messa in evidenza anche da molti esperti e organizzazioni non governative.

Quando arriva il 3 novembre, il giorno delle elezioni, il paese esce quindi da una campagna elettorale durante la quale il candidato repubblicano ha per mesi scoraggiato i propri elettori ad utilizzare il voto via posta. Una conseguenza di quest’azione – in modo consapevole o meno – è stato il verificarsi del cosiddetto “miraggio rosso” – Red Mirage -: in pratica, i repubblicani sarebbero stati in vantaggio il giorno delle elezioni ma i democratici avrebbero vinto grazie al voto via posta che viene conteggiato successivamente. E infatti Trump al conteggio dei voti dati in presenza risulterà in vantaggio anche in una serie di stati che alla fine avrebbe perso. In questa situazione – che il presidente stesso aveva contribuito a creare – proclama la propria vittoria la sera delle elezioni.

Il giorno dopo, la campagna di Trump e il presidente stesso riprendono a parlare di frodi elettorali. Trump continuerà per due mesi via Twitter ad affermare che le elezioni erano state “truccate”, dichiarazioni sostenute da una macchina propagandistica che diffondeva teorie cospirative di frodi perpetrate dagli elettori afro-americani di Detroit al defunto dittatore venezuelano Hugo Chávez. Nei giorni successivi anche altri dirigenti di peso dei repubblicani assumeranno la posizione sui brogli, come i senatori Lindsey Graham e Ted Cruz. Nessuna prova verrà portata a sostegno della loro posizione, così come falliranno successivamente i tentativi legali in molti stati di invalidare le elezioni per presunti brogli elettorali. Nelle settimane successive, infatti, vari alleati presenteranno 63 ricorsi legali contro i risultati delle elezioni, perdendoli tutti tranne uno che non riguardava un’accusa di frode ma la riduzione del tempo a disposizione degli elettori della Pennsylvania per correggere gli errori sulle schede elettorali inviate per posta. 

Il partito del presidente, o almeno una buona parte di questo, si troverà per quasi due mesi a sostenere le tesi del loro leader sulla elezioni “truccate”. Nel frattempo la Casa Bianca cercava attivamente di ribaltare il risultato elettorale nonostante consiglieri e confidenti dello stesso presidente gli avessero detto che aveva perso l’elezione e che questa si era svolta in maniera corretta e sicura. Mentre i due avvocati del presidente – Rudy Giuliani e Sidney Powell – si dedicano a strampalate conferenze stampa in cui mescolano teorie del complotto ad accuse non provate di frodi elettorali – il lavorio alla Casa Bianca è intenso.

Tramite l’accusa di frode elettorale, l’obiettivo è inizialmente quello di spingere i legislatori repubblicani negli stati vinti da Biden a non certificare i risultati elettorali e quindi ritardare o impedire l’attribuzione formale dei grandi elettori. Contemporaneamente si cerca di spingere il Dipartimento di giustizia ad intervenire per invalidare i risultati elettorali e quindi l’attribuzione formale dei grandi elettori a Biden.

In questo contesto cominciano a farsi più visibili e attivi quei movimenti che poi parteciperanno all’insurrezione del 6 gennaio. 

Rudy Giuliani mentre parla alla conferenza stampa del 7 Novembre 2020 per contestare il conteggio dei voti della Pennsylvania

Le pressioni sui legislatori statali

Come ricorda Jonathan Karl, corrispondente di Abc News dalla Casa Bianca e autore del fortunato libro Betrayal, la base legale dell’interesse di Trump e alleati per gli stati dipendeva dall’articolo II della Costituzione, che dà alle legislature statali il potere di determinare le modalità di scelta dei grandi elettori del proprio stato. Ma, come sottolineato da Karl:

[…] questo non significa che le legislature statali possano semplicemente annullare i risultati delle elezioni. Dopo tutto, la modalità scelta da ogni singolo stato per la scelta degli elettori è un’elezione popolare: il popolo può votare. Se una legislatura statale decidesse di annullare i risultati delle elezioni e di sostituire la propria preferenza per il presidente, non solo violerebbe il principio fondamentale della democrazia, ma violerebbe le sue stesse leggi. 

Nonostante questo, vari alleati di Trump cercavano di orchestrare uno sforzo per convincere i repubblicani di sette battleground states – Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, New Mexico, Pennsylvania e Wisconsin, tutti vinti da Biden – a presentare al Congresso documenti che sostenessero falsamente che Trump aveva vinto quegli stati. Falsamente. Più tardi infatti il co-presidente del Partito Repubblicano del Michigan, Meshawn Maddock, ha riconosciuto esplicitamente di aver agito per ordine della campagna di Trump. Inoltre, l’assistente di Mark Meadows, chief of staff di Trump, ha testimoniato davanti alla commissione che indaga sull’insurrezione del 6 gennaio che l’ufficio legale della Casa Bianca aveva detto a Meadows stesso e ad altri che non c’era alcuna base legale per quest’azione. In Michigan, sulla scia di una serie di teorie del complotto, Giuliani chiese senza successo anche il sequestro delle macchine per il voto. È un copione che è stato seguito in tutti e sette gli stati.

Per esempio in Arizona, stato tradizionalmente repubblicano vinto da Biden. Qui i senatori statali repubblicani hanno cercato di promuovere le teorie di Trump sui brogli elettorali, nonostante la testimonianza di funzionari elettorali nello stato governato dai repubblicani stessi che non vi fossero prove per tali affermazioni. Nelle vicende dell’Arizona interviene anche Ginni Thomas, la moglie del giudice della Corte Suprema Clarence Thomas. Thomas è un’attivista politica conservatrice di lunga data e da tempo il suo attivismo politico è oggetto di critiche per l’influenza che potrebbe avere sul marito. Durante quei mesi Ginni Thomas comunica direttamente anche con Meadows e invia lei stessa un’e-mail ai legislatori dell’Arizona per incoraggiarli a scegliere altri grandi elettori. Mentre infatti gli alleati di Trump chiedono ai repubblicani negli stati di avanzare dubbi sulla regolarità delle elezioni, altri chiedono di nominare liste – slates – alternative di grandi elettori.

Anche in Georgia, stato vinto da Biden con 11.779 voti, Trump e i suoi alleati esercitano enormi pressioni sui funzionari repubblicani dello stato per annullare la vittoria di Biden. È Lindsey Graham, senatore del South Carolina, uno dei primi a telefonare a Brad Raffensperger, segretario di stato della Georgia, per chiedere di revocare la dichiarazione della vittoria di Biden. Ma è il presidente stesso che interviene per esercitare pressioni. Contro Raffensperger Trump organizza anche una campagna sui social volta a screditare il politico repubblicano che insisteva sulla regolarità delle elezioni nello stato del Sud. Le pressioni continuano fino a poco prima della certificazione del voto da parte del Congresso il 6 gennaio. È nota la telefonata del 2 gennaio 2021 tra Trump e Raffensperger durante la quale il segretario di stato della Georgia cerca di spiegare al presidente che non c’è stata alcuna frode e l’insistenza del presidente stesso sulla necessità di trovare i voti necessari per fargli vincere lo stato. Il 5 dicembre, Trump aveva già chiamato il governatore della Georgia Brian Kemp, esortandolo a

[…] convocare una sessione speciale della legislatura statale affinché i legislatori annullino i risultati e nominino gli elettori che sosterranno il presidente nel collegio elettorale.

Kemp e Raffensperger sono stati poi sfidati alle primarie di quest’anno da repubblicani trumpiani, nel tentativo dell’ex presidente di eliminare politicamente chi non l’ha “aiutato” nella certificazione della sua “vittoria rubata”. Entrambi hanno vinto.

Nel tentativo di utilizzare gli stati governati dai repubblicani per sovvertire il risultato del voto, si svolge anche una delle azioni legali più assurde condotte dagli alleati di Trump. Il procuratore generale del Texas, il repubblicano Ken Paxton, decise infatti di intentare causa di fronte alla Corte Suprema per invalidare i voti elettorali di quattro stati vinti da Biden (Georgia, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin). Nonostante la scarsa base per l’azione legale, Trump aveva appoggiato il tentativo del procuratore del Texas, un appoggio che aveva consentito a Paxton di ottenere la firma dei procuratori generali repubblicani di altri diciassette stati. A queste richieste i deputati repubblicani al Congresso avevano pensato di allegare un parere (“amicus curiae”) per sostenere la posizione del Texas e degli altri stati e invalidare i voti del collegio elettorale dei quattro stati vinti da Biden. Questa memoria venne depositata presso la Corte Suprema il 10 dicembre e c’erano ben 126 firme di deputati repubblicani (su 236) e tra queste anche quella di Kevin McCarthy, il leader della minoranza repubblicana alla Camera. La Corte Suprema ha respinto all’unanimità l’azione legale del Texas con una dichiarazione molto chiara:

Il Texas non ha dimostrato di avere un interesse giudizialmente riconoscibile nel modo in cui un altro Stato conduce le proprie elezioni

Tentativi simili di bloccare la certificazione dei grandi elettori sulla base di frodi elettorali non provate e rigettate dai tribunali si sono riscontrati anche per gli altri stati. Nel tentativo di bloccare la procedura di nomina dei grandi elettori Trump gioca nel frattempo anche la carta del Dipartimento di giustizia.

La telefonata del presidente Trump al segretario di stato della Georgia Raffensperger

Le pressioni sul Dipartimento di giustizia

Ad inizio dicembre, il “ministro della giustizia” William Barr si incontra con Trump per confermare che il Dipartimento di giustizia ha indagato sulle accuse di frodi e che le accuse non avevano fondamento. Le definirà “bullshit” nella deposizione alla commissione che indaga sull’insurrezione del 6 gennaio. Barr racconterà che il presidente era infuriato per la risposta e che avrebbe accettato le dimissioni dello stesso Barr, salvo poi cambiare idea qualche secondo dopo (Barr era stato uno dei più fedeli alleati e consiglieri di Trump nella seconda fase della sua presidenza). Le dimissioni di Barr però non tarderanno. Due settimane dopo il ministro della giustizia si dimette e Jeffrey Rosen diventa “ministro della giustizia” ad interim.

Secondo la commissione del Senato, che ha avviato una prima indagine sui tentativi di Trump di coinvolgere il Dipartimento di giustizia nel tentativo di sovvertire i risultati elettorali, le pressioni si fanno quindi più intense dopo la “partenza” di Barr. Il presidente e i suoi collaboratori cercheranno di chiedere infatti al Dipartimento di giustizia di avviare indagini sulle presunte frodi, di intentare cause per suo conto e di dichiarare pubblicamente che le elezioni del 2020 erano state “truccate”. Il capo dello staff della Casa Bianca Meadows avrebbe anche chiesto a Rosen di avviare indagini sulle frodi elettorali in diverse occasioni, violando le restrizioni sulle comunicazioni tra Casa Bianca e Dipartimento di giustizia in merito a specifiche questioni di applicazione della legge.

Secondo la relazione della commissione del Senato, Meadows avrebbe chiesto a Rosen di far indagare il Dipartimento di giustizia su almeno quattro categorie di false denunce di frode elettorale che Trump e i suoi alleati stavano promuovendo. E precisamente su:

  • varie affermazioni di frode elettorale in Georgia;
  • presunte “anomalie nella corrispondenza delle firme” nella contea di Fulton, in Georgia, anche se i funzionari elettorali dello stato repubblicano avevano chiarito che non era stata presentata alcuna prova di problemi con il processo di corrispondenza delle firme (per questa vicenda la procuratrice generale della Georgia, la democratica Fani Willis, ha avviato un’indagine volta a stabilire se l’ex presidente Donald Trump e i suoi alleati abbiano commesso dei crimini nel tentativo di ribaltare i risultati delle elezioni del 2020 nello stato);
  • una serie di denunce di frode elettorale in New Mexico, ampiamente smentite, compresa l’affermazione secondo cui le macchine Dominion Voting Systems avrebbero provocato “fughe di voti” a tarda notte a favore dei candidati democratici.

Infine Meadows chiede al Dipartimento di indagare sull’intervento di paesi stranieri. Qui entra in campo anche l’Italia. Il capo dello staff vuole infatti che si indaghi sulla nota teoria complottista dell’Italygate, promossa dall’avvocato personale del presidente, Rudy Giuliani. Secondo questa teoria, la CIA avrebbero usato satelliti militari per manipolare le macchine elettorali e cambiare i voti di Trump in voti di Biden. Anche se la teoria viene smentita dalla stampa, la teoria che i servizi segreti americani abbiano coordinato il “complotto” dall’Ambasciata americana a Roma, in collaborazione con il generale Claudio Graziano, membro del cda di Leonardo, si diffonde rapidamente nei social media del mondo trumpiano.

Trump, tramite i suoi alleati, cerca di spingere Rosen ad annunciare pubblicamente che il Dipartimento di giustizia stava indagando sui brogli elettorali e a dire alle legislature dei principali stati in bilico di nominare liste alternative di elettori dopo la certificazione del voto popolare. Trump telefona a Rosen quasi ogni giorno ma senza successo. Il “ministro della giustizia” e il suo vice si rifiutano di aprire indagini poiché il Dipartimento di giustizia aveva già indagato e non aveva trovato alcuna ragione per ritenere che ci fossero stati brogli. I due vengono anche convocati nello Studio Ovale qualche giorno prima dell’insurrezione del 6 gennaio e dicono al presidente che si sarebbero dimessi se Trump avesse insistito nel perseguire la soluzione “Dipartimento di giustizia”.

Una parte della testimonianza di William Barr alla commissione

“Stop The Steal” e le “teste d’uovo” di Trump

Se Trump e alleati cercano di impedire la certificazione dei grandi elettori via statale e via Dipartimento di giustizia, nel frattempo il clima politico si scalda. Mentre vari media conservatori amplificano le accuse infondate di frode elettorale, Fox News in testa, Trump si circonda di personalità che erano state temporaneamente emarginate o estromesse dalla sua cerchia e che allora diventano non solo figure di liaison con il movimento “Stop the Steal” – che organizzerà la manifestazione del 6 gennaio che sfocerà poi nell’assalto a Capitol Hill – ma soprattutto la principale “fucina di idee” anti-costituzionali per il presidente stesso.

Il movimento “Stop the Steal” organizzerà in quei mesi varie manifestazioni nel paese. Secondo The Atlantic Council, questo movimento è “tutt’altro che monolitico”:

[…] comprendeva gruppi che attraversavano uno spettro di radicalizzazione: attivisti e media iperpartitici pro-Trump; i neofascisti Proud Boys, un gruppo impegnato nella promozione del razzismo e della violenza di strada; milizie illegali di tutto il Paese con un alto grado di comando e controllo, tra cui il movimento dei cosiddetti Three Percenters; aderenti al “delirio collettivo” di QAnon; individui che si identificano con i Boogaloo Bois, un gruppo antigovernativo vagamente organizzato che ha invocato una seconda guerra civile; e compagni di viaggio ideologici dell’estrema destra”

In breve molti dei movimenti protagonisti dell’assalto a Capitol Hill il 6 gennaio. E non si tratta nemmeno di un movimento completamente nuovo.

Lo slogan “Stop the Steal” è infatti stato lanciato già durante le elezioni presidenziali del 2016 da Roger Stone, uno dei principali collaboratori di Trump e poi arrestato nell’ambito dell’indagine di Robert Mueller sulla interferenze russe nelle elezioni del 2016 (graziato infine da Trump proprio nel dicembre 2020). Ufficialmente il movimento nasce però il 7 settembre, due mesi prima delle elezioni, per opera dell’attivista conservatore Ali Alexander che annuncia la costruzione di un’infrastruttura digitale per l’iniziativa “Stop the Steal”. L’obiettivo è quello di costruire un database digitale di sostenitori di Trump da inviare nei luoghi di conteggio delle schede elettorali e negli uffici dei funzionari statali, se la loro presenza fisica fosse “necessaria”.

Per tutti i due mesi prima delle elezioni il tamtam sulle “future” frodi elettorali si diffonde nella rete dei sostenitori di Trump. Durante questo periodo Alexander parlerà spesso con Roger Stone, della “logistica” e delle “fazioni” degli organizzatori dei raduni prima dell’attacco (ha anche fornito Commissione del 6 gennaio tutte le sue comunicazioni con Stone). In un video pubblico Alexander avrebbe poi il 5 gennaio incoraggiato i sostenitori di Trump a Capitol Hill a perseguire la “vittoria o la morte”. Riceverà poi un mandato di comparizione da parte di un gran giurì federale che sta indagando sulle persone coinvolte nei raduni di Trump.

Alcune delle persone che partecipano a questo movimento sono legate a Stone ma si tratta di una galassia davvero complessa da esaminare. Per esempio, alcuni di quelli che gestivano il gruppo Facebook Stop the Steal erano ex collaboratori di Steve Bannon, l’ex consigliere di Trump. Anche se Facebook chiude il gruppo il 5 novembre, ne nascono altri, in alcuni casi cambiando il nome in “Own Your Vote” o in “Gay Communists for Socialism”. L’hashtag “Stop the Steal” si diffonde anche su Twitter, grazie all’impegno attivo di professionisti della disinformazione come Bannon e Stone ma anche Alex Jones, commentatore radiofonico di estrema destra. I loro contenuti e quelli di altri vengono quindi diffusi dai social da altri esponenti del mondo trumpiano come la giornalista Ann Coulter, Rudy Giuliani, Donald Trump Jr e Dinesh D’Souza, un attivista e regista conservatore che si è dichiarato colpevole di aver versato contributi illegali per la campagna elettorale ed è stato graziato da Trump.

Roger Stone affiancato da membri del gruppo Oath Keepers la mattina del 6 gennaio.

Alcuni dei gruppi che parteciperanno alle violenze del 6 gennaio iniziano già in questo periodo ad organizzarsi nell’eventualità di una vittoria di Biden. Il leader degli Oath Keepers, Stewart Rhodes, dichiara a fine ottobre ad Alex Jones che i membri del suo gruppo di miliziani intendono stazionare nei seggi elettorali di tutto il Paese per “proteggere” gli elettori di Trump e a Washington per proteggere Trump in caso di un attacco “in stile Bengasi” alla Casa Bianca.

Che ci sia un clima propenso all’uso della violenza da parte dei sostenitori del presidente Trump e che il presidente lo condivida, lo testimonia anche il tweet con cui il repubblicano condivide un video di suoi sostenitori in Texas che circondano un autobus della campagna di Biden, tentando di rallentarlo e di farlo uscire dall’autostrada. L’incidente spinge la campagna di Biden a cancellare un evento elettorale per timori legati alla sicurezza pubblica. Nel condividere il video, Trump scriverà: “I LOVE TEXAS!”.

Dopo la vittoria di Biden e la diffusione delle proteste, aumentano sia i richiami alla violenza sia la violenza stessa, come è stato ampiamente documentato. Si assiste ad esempio a vere e proprio minacce ai funzionari elettorali e alle loro famiglie da parte di sostenitori di Trump. In Georgia la situazione è così tesa che ad inizio dicembre, in una conferenza stampa, il funzionario che supervisiona il sistema di voto dello stato chiede a Trump di condannare i suoi numerosi sostenitori che minacciano i funzionari statali e gli operatori elettorali. 

Trump riconosce “ufficialmente” i manifestanti di Stop the Steal in Georgia su Twitter in una reazione a un articolo del sito dell’alt-right Breitbart News:

Le prove che arrivano sono innegabili. Molti più voti di quelli necessari. Questa è stata una VITTORIA SCHIACCIANTE!

scrive Trump. Ma molti sostenitori del presidente vi partecipano da tempo. Tra coloro che partecipano direttamente e attivamente al movimento sui social ci sono politici repubblicani com la neoeletta deputata Marjorie Taylor Green, nota sostenitrice delle teorie di QAnon, e Paul Gosar che organizza la protesta di fronte all’ufficio elettorale della contea di Maricopa in Arizona, con persone che portano anche delle armi. Alcune delle personalità con legami con il movimento “Stop the Steal” e l’insurrezione del 6 gennaio parteciparono anche alla campagna di pressione nei confronti del Dipartimento di Giustizia. Tra questi ad esempio il deputato della Pennsylvania Scott Perry e il senatore statale della Pennsylvania Doug Mastriano.

Scott Perry avrebbe poi guidato l’obiezione al conteggio dei voti elettorali della Pennsylvania alla Camera nelle ore immediatamente successive all’insurrezione del 6 gennaio. Secondo la deputata repubblicana Liz Cheney, vicepresidente della commissione che indaga sugli eventi del 6 gennaio, Perry avrebbe contattato la Casa Bianca nelle settimane successive all’insurrezione per chiedere la grazia presidenziale per il ruolo svolto nel tentativo di ribaltare i risultati delle elezioni del 2020 (così avrebbero fatto altri membri repubblicani del Congresso ad oggi non ancora noti). Doug Mastriano ha partecipato invece alle cosiddette “audizioni” di Rudy Giuliani sui brogli elettorali ed era presente in Campidoglio mentre si svolgeva l’insurrezione. Mastriano è oggi il candidato repubblicano alla carica di governatore della Pennsylvania.

Quello che oggi cerca di capire la commissione è in che modo il presidente abbia partecipato agli eventi che hanno poi portato all’insurrezione del 6 gennaio. Il problema in particolare è quello di dimostrare l’uso che in qualche modo Trump e i suoi alleati avrebbero fatto della violenza politica per esercitare pressioni sui legislatori repubblicani, statali e federali. Non semplice ma la commissione sta cercando di fornire gli elementi necessari.i

Mentre infatti la Casa Bianca cercava di bloccare “istituzionalmente” la certificazione dei voti, gli alleati in contatto con il presidente partecipavano agli eventi dell’ampio movimento che porterà all’insurrezione, in un crescente scambio di “idee” tra movimento e presidenza sulla soluzione da individuare rispetto alla “vittoria rubata”.

È il caso per esempio di Mike Flynn, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump per i primi ventidue giorni della sua amministrazione, prima di dimettersi per aver mentito al vice-presidente Mike Pence sul contenuto delle conversazioni con l’ambasciatore russo. Flynn poi si dichiarerà colpevole di false dichiarazioni all’FBI durante l’inchiesta del procuratore Mueller sulla interferenze russe nelle elezioni del 2016 e verrà graziato da Trump il 25 novembre del 2020. L’ex consigliere di Trump – che aveva già mesi prima invitato il presidente a dichiarare la legge marziale in caso di vittoria di Biden – parteciperà al maggiore degli eventi di “Stop the Steal” il 12 dicembre, a Washington, davanti alla Corte Suprema, un evento che Trump sorvolerà via elicottero e loderà via tweet:

Wow! Migliaia di persone si stanno formando a Washington (D.C.) per Stop the Steal. Non ne sapevo nulla, ma li vedrò!. 

Qui Flynn arringa la folla:

Non saranno i tribunali a decidere chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti. Siamo noi, il popolo, a decidere […] Perché non ricontare i voti? Perché non controllare le firme? Perché non guardare dentro queste macchine elettorali? Perché no? Di cosa hanno paura? Da cosa si nascondono? Si nascondono da qualcosa.

Qualche giorno dopo Flynn partecipa a una riunione nello Studio Ovale con Trump e altri. Il presidente sembra propenso a considerare altre strade, visto che la strategia processuale e quella delle pressioni non stanno andando bene. Trump avrebbe quindi preso in considerazione la possibilità di invocare i poteri di sicurezza nazionale. Durante l’incontro, sarebbe proprio Flynn ad aver esortato Trump a invocare la legge marziale per ribaltare i risultati elettorali o almeno di assumere dei poteri di emergenza per sequestrare le macchine per il voto, che sono di proprietà dei governi statali e locali. Gli avvocati della Casa Bianca gli diranno però che non c’era alcuna base legale per invocare i poteri di emergenza per interferire con le elezioni. E l’incontro si conclude tra le urla di Flynn e altri che fronteggiavano gli avvocati della Casa Bianca, come racconta Jonathan Karl di Abc News in Betrayal.

Il 21 dicembre, Trump incontra anche altri esponenti radicali del suo partito. Presente Rudy Giuliani, il presidente infatti ha un appuntamento con i deputati Marjorie Taylor Greene, Matt Gaetz, Mo Brooks, Louie Gohmert (che qualche giorno dopo avrebbe citato in giudizio il vice presidente Mike Pence per spingerlo a dichiarare illegali parti dei voti di Biden), Jim Jordan e Paul Gosar. Oggetto della riunione è che cosa fare il 6 gennaio, giornata prevista per la certificazione del voto. Non si sa che cosa si siano detti, però Greene twitterà:

Abbiamo appena terminato le nostre riunioni alla Casa Bianca questo pomeriggio. Abbiamo avuto una grande sessione di pianificazione per la nostra obiezione del 6 gennaio. Non permetteremo che queste elezioni vengano rubate da Joe Biden e dai Democratici. Il Presidente Trump ha vinto in modo schiacciante. 

Inizia in questo periodo a farsi avanti quella che sarà l’ultimo tentativo di Trump per invalidare i voti degli stati in cui continuano a dire che vi sono stati brogli. Tutta l’attenzione del presidente e dei suoi alleati si concentra infatti sul vice presiedete Mike Pence.

Il generale Michael Flynn (Photo by Gage Skidmore on Flickr)

Pence, l’ultima “speranza”

Pence avrebbe svolto un ruolo importante nella certificazione del voto da parte del Congresso il 6 gennaio. In quel giorno, il Congresso si sarebbe riunito in seduta congiunta di Camera e Senato per contare ufficialmente i voti elettorali già espressi e certificati da tutti i cinquanta stati. Una volta completato il conteggio, sarebbe spettato al vicepresidente dichiarare formalmente il vincitore delle elezioni presidenziali. Questo ruolo è stato svolto da sempre dai vicepresidenti in qualità di presidenti del Senato. Un ruolo cerimoniale come disse anche Dan Quayle, l’ex vice di G.H. Bush, a Pence stesso in una telefonata riportata da Woodward e Costa in Peril

La soluzione Pence però comincia a farsi strada proprio in dicembre quando le soluzioni alternative di Trump – stati e Dipartimento di giustizia – non sembrano funzionare. Nella spasmodica ricerca di un modo per bloccare la certificazione dei voti, Trump segue numerose strade: la dichiarazione di un’emergenza di sicurezza nazionale e un ruolo più “attivo” di Pence nella non validazione dei voti di Biden.

Nel primo caso è coinvolto un gruppo di ex militari legati a Michael Flynn che sosteneva la responsabilità del governo cinese nella sconfitta di Trump. Del gruppo faceva parte anche Phil Waldron. Questo ex militare dichiara di aver fatto circolare una presentazione PowerPoint dal nome “Election Fraud, Foreign Interference & Options for 6 JAN” tra gli alleati di Trump e al Campidoglio. Il 4 gennaio, in effetti alcuni membri del team di Waldron – non identificati – hanno parlato a un gruppo di senatori e li hanno informati sulle accuse di presunti brogli elettorali contenute nel PowerPoint. Il giorno seguente, è stato informato anche un piccolo gruppo di deputati della Camera.

Il documento è poi entrato in possesso del chief of staff di Trump, Mark Meadows (che l’ha poi consegnato alla Commissione d’inchiesta). Nel testo si raccomanda a Trump di informare il Congresso su presunte interferenze straniere nelle elezioni, frutto di “un’operazione globalista/socialista per sovvertire la volontà degli elettori statunitensi e installare un alleato cinese”.  Per ritardare la certificazione dei risultati elettorali, Waldron quindi suggerisce di dichiarare un’emergenza di sicurezza nazionale, di ritenere non valide tutte le votazioni elettroniche negli stati e di mettere la Guardia Nazionale in stato di allerta.

Secondo Waldron, Pence in qualità di vicepresidente, avrebbe anche potuto nominare dei supplenti repubblicani (che Rudy Giuliani e gli altri stavano lavorando febbrilmente per raccogliere), avrebbe potuto rifiutare i voti elettorali degli stati che Donald Trump contestava (senza alcuna prova) o avrebbe potuto ritardare rifiutandosi di certificare fino a quando non ci fosse stato un riconteggio di tutte le schede elettorali cartacee. Infine, Pence avrebbe potuto semplicemente lavarsene le mani e dire che non c’era modo di conoscere il vero risultato e rimettere la questione alla Camera dei Rappresentanti che avrebbe votato secondo le regole che prevedono che ogni delegazione statale abbia un voto.

La seconda ipotesi – quella di un intervento diretto di Pence – era già comparsa sui social media pro-Trump. L’idea era stata formulata da un avvocato ed ex militare, Ivan Raiklin, un altro del gruppo di Michael Flynn. Raiklin suggeriva che il vicepresidente Pence avrebbe potuto in qualità di presidente del Senato rifiutare i voti elettorali a favore di Biden negli stati in bilico, in quanto i grandi elettori di quegli stati sarebbero stati nominati in modo fraudolento. Queste pressioni nei confronti di Pence, fondate su teorie legali non corrette, spingono il vicepresidente a ricercar l’aiuto di consiglieri di Trump, nel timore che il presidente si fissasse sul ruolo del suo vice nell’ostacolare la certificazione del voto.

Secondo Karl di Abc News, pochi giorni dopo Natale, Marc Short, il chief of staff del vicepresidente, telefona a Jared Kushner, genero e consigliere di Trump, per convincere il presidente che Pence non poteva fare nulla per ribaltare i risultati delle elezioni presidenziali e trasformare la vittoria di Joe Biden in una vittoria per Trump. Il presidente infatti stava creando le aspettative tra i suoi sostenitori che il vice presidente potesse bloccare la vittoria di Biden. Nonostante però i consiglieri legali della Casa Bianca ripetessero le stesse cose di Pence, il presidente sembrava ormai convinto che le soluzioni proposte dagli elementi più radicali del suo movimento fossero la strada da perseguire. 

Tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, questi elementi più radicali offrono al presidente un altro piano. Qui entra in scena John Eastman, all’epoca professore di legge alla Chapman Law School, e che oggi con Trump è considerato aver “cospirato in modo disonesto per ostacolare la sessione congiunta del Congresso del 6 gennaio 2021”, secondo quanto stabilito dal giudice federale David Carter nel marzo di quest’anno. Nell’agosto del 2020, il docente aveva suscitato una breve polemica quando aveva scritto su Newsweek che Kamala Harris non era eleggibile come vicepresidente perché i suoi genitori non erano nati negli Stati Uniti e quindi, sosteneva Eastman, Harris non era una cittadina americana “natural-born”.

Phil Waldron (a destra) nello show di Lou Dobbs su Fox news

Il presidente e il professore

Eastman, che è stato nel passato anche assistente del giudice della Corte Suprema Clarence Thomas, scrisse due memorandum, uno subito dopo Natale e l’altro il 3 gennaio, qualche giorno prima dell’insurrezione. I memorandum cercavano di dare una giustificazione costituzionalmente valida all’“intuizione” di Raiklin. Secondo Eastman, Pence avrebbe dovuto determinare unilateralmente quali certificati elettorali degli stati fossero validi e se avesse giudicato non validi un numero sufficiente di certificati degli stati di Biden, Trump avrebbe ottenuto la maggioranza degli elettori e sarebbe stato quindi rieletto. Eastman aggiungeva che nel caso di proteste Pence avrebbe inviato la disputa alla Camera, dove le votazioni sarebbero state effettuate per delegazione statale e visto che i repubblicani controllavano 26 delegazioni statali, Trump avrebbe avuto la maggioranza necessaria. In alternativa, Eastman proponeva che Pence potesse aggiornare la sessione del 6 gennaio senza finalizzare il conteggio, il che avrebbe potuto rimandare le elezioni alle legislature statali.

Il presidente fece propria la proposta di Eastman, tanto che lo invita il 2 gennaio a partecipare a una telefonata con 300 legislatori statali di stati in bilico, esortandoli a “decertificare” i risultati statali. Nel frattempo il presidente continua a fare pressioni su Pence perché segua il piano di Eastman. Lunedì 4 gennaio, Pence vola in Georgia, dove trascorre la prima parte della giornata facendo campagna elettorale per i due senatori repubblicani dello Stato, che il giorno successivo avrebbero dovuto affrontare una nuova votazione (persa). Qui Pence dichiara in maniera ambigua di avere dei dubbi sui risultati delle elezioni e che il 6 gennaio “avremo il nostro giorno al Congresso”. Il vice presidente torna quindi a Washington nel pomeriggio e si incontra con il presidente e Eastman che cercano di convincerlo a seguire il piano delineato nel memorandum. Lo incontrano nuovamente il 5 gennaio nello Studio Ovale per ripetere le stesse cose. Questa volta però Pence pone definitivamente fine alle speranze di Trump. Nonostante la risposta negativa, Trump continua via Twitter ad indicare in Pence la sola possibilità per impedire ai democratici di “rubare le elezioni”. 

Si arriva quindi al 6 gennaio e all’evento organizzato da Stop the Steal, ampiamente pubblicizzato dal presidente stesso e a cui decide di partecipare. Parlano molte delle personalità più radicali della cerchia di Trump. Interviene anche Eastman che, davanti a Trump ripete ancora una volta che il vicepresidente Pence può bloccare la procedura di certificazione del voto. Anche il presidente repubblicano che interviene dopo Eastman – “uno dei più brillanti avvocati del Paese“ lo definisce – invita Mike Pence a “fare la cosa giusta” per fargli “vincere le elezioni”, prima di dire ai propri sostenitori di “combattere” like hell e promettere di unirsi a loro in una marcia verso il Campidoglio. Mentre parlava, l’ondata iniziale di insorti aveva già attraversato le barriere della polizia intorno al Capitol Hill.

Proprio durante l’intervento di Trump, Pence twitterà una lettera in cui esprime il suo rifiuto di escludere unilateralmente i grandi elettori di alcuni stati poiché il giuramento che ha fatto lo obbliga a “sostenere e difendere la Costituzione” e gli impedisce “di rivendicare l’autorità unilaterale di determinare quali voti elettorali debbano essere contati e quali no”. Lettera alla quale Trump risponde con un altro tweet:

Mike Pence non ha avuto il coraggio di fare ciò che si sarebbe dovuto fare per proteggere il nostro Paese e la nostra Costituzione, dando agli stati la possibilità di certificare una serie di fatti corretti, non quelli fraudolenti o inaccurati che erano stati chiesti loro in precedenza. Gli Stati Uniti esigono la verità!

Eastman avrebbe inviato anche un’e-mail all’avvocato di Pence nella quale scriveva che

[…] l’assedio [a Capitol Hill] è dovuto al fatto che TU e il tuo capo non avete fatto ciò che era necessario per permettere che la cosa venisse resa pubblica, in modo che il popolo americano potesse vedere con i propri occhi ciò che è successo.

Durante le audizioni John Eastman ha riconosciuto che il piano per bloccare la certificazione della vittoria elettorale di Joe Biden non era legale ma, alla fine, lo ha spinto comunque in modo aggressivo. Anche dopo l’attacco al Campidoglio, ha spinto affinché l’allora vicepresidente Mike Pence annullasse l’elezione. In seguito Eastman ha chiesto il perdono presidenziale al Presidente Donald Trump.

L’intervento di John Eastman

La “War room” dell’Hotel Willard

La commissione della Camera sta indagando anche sulle notizie secondo cui, nei giorni precedenti l’assalto, i principali consiglieri politici di Trump – Rudolph Giuliani, Steve Bannon, Michael Flynn, Roger Stone e altri – si sarebbero riuniti un “centro di comando” in una suite del Willard Hotel, adiacente alla Casa Bianca. Della War Room faceva parte anche John Eastman.

La commissione sul 6 gennaio vuole comprendere e verificare se ci sia stato un coordinamento o un legame tra coloro che spingevano una strategia legale per rovesciare i risultati delle elezioni e coloro che hanno preso d’assalto il Campidoglio quel giorno, mentre il Congresso si riuniva per contare i voti elettorali e ufficializzare la vittoria di Biden.

Steve Bannon, infatti, che partecipa a quelle riunioni, era anche profondamente coinvolto nella pianificazione del comizio di Trump del 6 gennaio e aveva avvertito in un podcast che in quella data si sarebbe “scatenato l’inferno”:

Stiamo arrivando proprio sopra l’obiettivo. Questo è il punto di attacco che abbiamo sempre voluto,

aveva detto Bannon che si è rifiutato di collaborare con la commissione e ora rischia un’accusa penale di oltraggio alla camera da parte del Dipartimento di giustizia.

Contemporaneamente alle riunioni dell’Hotel Willard se ne tenevano altre al Trump International Hotel, una riunione che comprendeva circa quindici persone, in cui si era discusso di “come fare pressione su più membri del Congresso per opporsi ai risultati del Collegio elettorale”, secondo uno dei partecipanti, Charles Herbster, candidato repubblicano alla carica di governatore del Nebraska. Tra i presenti, secondo Herbster, c’erano i figli di Trump, Eric e Donald Jr, Giuliani, Flynn, il senatore Tommy Tuberville dell’Alabama, i consiglieri di Trump Peter Navarro (arrestato qualche giorno fa per oltraggio al Congresso per il suo rifiuto di collaborare con la commissione), Corey Lewandowski e David Bossie (ex manager e vice manager della campagna elettorale di Trump del 2016) e Mike Lindell, proprietario dell’azienda di cuscini MyPillow.

Giuliani e Eastman al Willard Hotel (Photo by @sparrowmedia)

Epilogo (provvisorio)

Difficile da capire se la commissione riuscirà a produrre degli elementi in grado di avviare indagini penali federali per possibili reati commessi dal presidente e da altri della sua cerchia. Anche se quei due mesi appaiono il racconto di una follia collettiva, si tratta di provare se il presidente abbia commesso dei crimini e quali. Il presidente potrebbe essere accusato di reati di cospirazione per ostacolare un procedimento ufficiale o di frode agli Stati Uniti, in quanto ha compiuto delle procedure illegali per impedire l’elezione di Biden. Il punto cruciale di un’eventuale azione penale si dovrebbe basare sulla dimostrazione che Trump sapeva di aver perso le elezioni e ha agito con l’intento criminale di rovesciare i risultati validi delle elezioni. Per questo le audizioni della commissione si sono concentrate in modo particolare sulle testimonianze secondo cui Trump sapeva di aver perso ma ha agito lo stesso per architettare piani per rimanere al potere.

Quel che è certo è che il presidente repubblicano, scampato alla seconda storica procedura di impeachment proprio per gli eventi del 6 gennaio, è riuscito a convincere milioni di persone che le elezioni presidenziali del 2020 siano state caratterizzate da frodi, assestando un colpo fondamentale non alle politiche di Biden ma alla sua legittimità come presidente. 

Perché la grande “vittoria” di Trump è proprio quella di mantenere in vita la cosiddetta “Big Lie”, la grande bugia che il presidente repubblicano sia stato privato della vittoria. Una narrazione che consente a Trump di restare al centro dello spazio mediatico e di essere rilevante nelle primarie del suo partito. 

Come già detto infatti candidati che hanno messo in dubbio i risultati delle elezioni del 2020 hanno vinto le primarie per i seggi alla Camera dei Rappresentanti, per i seggi al Senato degli Stati Uniti, per le cariche governative statali e per altre posizioni di alto profilo: si tratta di 8 candidati al Senato degli Stati Uniti, 86 candidati alla Camera dei Rappresentanti, 5 candidati alla carica di governatore, 4 candidati a procuratore generale e 1 a segretario di Stato.

Tra questi vi sono anche candidati che hanno partecipato direttamente all’assalto al Campidoglio come J.R. Majewski, sostenitore di QAnon e vincitore delle primarie del Partito Repubblicano per il distretto congressuale dell’Ohio. O come il già citato Doug Mastriano, candidato governatore in Pennsylvania. Altri deputati come Trent Kelly del Mississippi o Matt Rosendale del Montana, che hanno entrambi votato per ribaltare i risultati elettorali del 2020, hanno vinto le rispettive primarie, con una maggioranza schiacciante.

Emblematiche le primarie del South Carolina dove erano in corsa per due seggi alla Camera due trumpiani contro i due repubblicani in carica che si sono rifiutati di votare contro la certificazione dei voti. Una di questi deputati che ha affronta la sfida dei trumpiani è Nancy Mace che nel 2020 ha conquistato il seggio allora in mano ai democratici, facendo una campagna elettorale come trumpiana di ferro e correndo con il sostegno del presidente. Sconvolta dai disordini del 6 gennaio, in uno dei suoi primi atti al Congresso si è rifiutata di opporsi alla certificazione degli elettori e ha invitato Trump a lasciare Twitter. Con l’avvicinarsi delle elezioni primarie però Mace ha modificato leggermente la propria posizione ed ha vinto. L’altro deputato in carica era Tom Rice che si è allontanato da Trump in seguito agli eventi del 6 gennaio e ha anche votato per l’impeachment di Trump. Questo gli ha procurato uno sfidante alle primarie, il deputato statale Russell Fry, che si è candidato con l’appoggio di Trump. Rice ha perso.

Piccola guida all’insurrezione del 6 gennaio ultima modifica: 2022-06-20T17:46:44+02:00 da MARCO MICHIELI
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