Israele. “Perché ho fatto cadere il governo“

In questa intervista esclusiva Ghaida Rinawie Zoabi, parlamentare del Meretz, spiega la sua uscita dalla coalizione che sosteneva il “Governo del cambiamento”, guidato dal leader del partito di destra, Yamina, Natali Bennett. È la fine di un’esperienza che teneva insieme gli opposti: i pacifisti con la destra filo-coloni.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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I suoi vecchi compagni di partito l’hanno accusata di tutto: traditrice, disgustosa, financo disturbata mentale. Il leader del partito in questione, Meretz, la sinistra laica e pacifista israeliana, Nitzan Horowitz, ministro della Salute nell’ex governo, in una intervista alla Radio dell’Esercito ha definito le sue dimissioni dalla coalizione “un comportamento disgustoso e disonesto”.

Sono parole che mi hanno ferito profondamente, perché vengono da persone che credevo amiche e con cui ho condiviso tante battaglie politiche. Quella che ho compiuto è stata una scelta difficile, sofferta ma che non potevo più rinviare. Lo dovevo a me stessa, alle cose in cui credo, quelle che mi hanno portato all’impegno politico. Non si può accettare tutto perché altrimenti si fa il gioco di Netanyahu. C’è un momento in cui si deve dire basta, questo è troppo.

A parlare, in questa intervista esclusiva concessa a ytali, è Ghaida Rinawie Zoabi, la parlamentare del Meretz che con la sua uscita dalla coalizione che sosteneva il “Governo del cambiamento”, guidato dal leader del partito di destra, Yamina, Natali Bennett, ha decretato l’inizio della fine di un’esperienza che teneva insieme gli opposti: i pacifisti con la destra filo-coloni.  Nella sua lettera di dimissioni, Rinawie Zoabi aveva scritto di essersi unita alla coalizione nella speranza che arabi ed ebrei, lavorando insieme, potessero contribuire a realizzare “un nuovo percorso di uguaglianza e rispetto”, ma che i leader della coalizione hanno scelto di assumere “posizioni da falco, dure e di destra”.

La lettera di Rinawie Zoabi nella quale annuncia e spiega la cessazione della sua appartenenza alla colazione di governo.

Come ci si sente nei panni della “traditrice”?
Male, molto male. Non avrei mai pensato che si sarebbe caduti così in basso. Avevo messo in conto reazioni dure alla mia decisione, ma mai che venissi tacciata di tradimento, disonestà, instabilità mentale. Ma per fortuna ho ricevuto anche tanti attestati di incoraggiamento di persone che sanno chi sono, con cui sono stata fianco a fianco in tante battaglie politiche. E non parlo solo di elettori di Meretz. 

Insisto: con la scelta che ha compiuto, è questa l’accusa che le rivolgono, lei ha spianato la strada per un ritorno al potere di Benjamin Netanyahu.
Vale l’opposto: a riportare in auge Netanyahu sono state scelte compiute dal governo contrarie a qualsiasi principio non dico di sinistra ma democratico e progressista. E questo non è bastato per l’ala più estremista della destra che chiedeva a Bennett e al governo ancora di più: più colonizzazione, più repressione nei Territori occupati, più connivenza verso le azioni brutali condotte dai coloni in Giudea e Samaria. E noi zitti, sempre in nome della governabilità a tutti i costi, fedeli a uno slogan che non poteva più reggere…

A cosa si riferisce?
Allo slogan “Tutti, tranne Bibi”. Io ho condotto tutte le battaglie possibili e immaginabili contro Netanyahu: manifestazioni, sit in, raccolta di firme, interventi in Parlamento… Nessuno può accusarmi di aver sottovalutato la pericolosità di Netanyahu! Ma questo non può giustificare l’ingiustificabile. Non può essere la spada di Damocle perennemente sopra la nostra testa, per cui anche i provvedimenti più reazionari presi dal Governo dovevano essere ingoiati, altrimenti tornerà Netanyahu…

C’è stata una goccia che ha fatto traboccare il classico vaso, spingendola a uscire dalla maggioranza?
Parlare di “goccia” è un eufemismo. Perché si è trattato di qualcosa di molto ma molto più grave, qualcosa che mi ha colpito personalmente, come donna, attivista dei diritti umani, democratica. Mi riferisco alla tragica morte di Shireen Abu Akleh (la reporter palestinese, con passaporto americana, di al-Jazeera uccisa da un cecchino mentre stava svolgendo un servizio giornalistico nel campo profughi di Jenin, durante scontri tra l’esercito israeliano e miliziani palestinesi, ndr). Un evento tragico che mi ha colpito profondamente, e non solo perché conoscevo ed ero amica di Shireen. Chi crede nel diritto e nella giustizia, aveva il dovere mortale, e non solo politico, di esigere una inchiesta severa sulle dinamiche che hanno portato all’uccisione della giornalista. Così non è stato. La giustizia militare ha subito dichiarato il caso chiuso, con il pieno sostegno del Primo ministro e della ministra della Giustizia. E noi non abbiamo alzato la voce. Neanche preso le distanze, chiesto un chiarimento in sede di governo. Neanche quando un rapporto dell’Onu è giunto alla conclusione che a provocare la morte di Shireen Abu Akleh è stato un proiettile in dotazione all’Esercito israeliano. A quel punto ho detto basta.

Un passo indietro nel tempo. A febbraio, il ministro degli Esteri Yair Lapid aveva annunciato che lei sarebbe stata nominata console generale di Israele a Shanghai, in quello che secondo fonti politiche era un tentativo di estrometterla per stabilizzare la coalizione.
Una lettura corretta. Insomma, promuovere per rimuovere… Ma la cosa che mi ha tolto ogni dubbio è stata la consapevolezza che c’era ancora di peggio che paventare un ritorno di Netanyahu…

Vale a dire?
La concretissima possibilità che per accontentare ancora di più la destra estrema dentro il suo partito e nella maggioranza, Bennett era pronti ad affidare il ruolo di ministro della Pubblica sicurezza a Ben Gvir (parlamentare di estrema destra noto per gli attacchi razzisti nei confronti dei parlamentari arabi e per aver assunto a più riprese posizioni “kahaniste”, il movimento estremista di destra a suo tempo dichiarato fuorilegge ma successivamente “sdoganato” dalla destra parlamentare, ndr). Una scelta del genere avrebbe ampliato ancora di più la faglia esistente dentro la società israeliana, una faglia istituzionalizzata dalla legge del luglio 2018 su Israele, Stato della nazione ebraica, che codificava una cittadinanza di serie a e una di serie b, sulla base dell’appartenenza etnico-religiosa. In quell’occasione, noi di Meretz fummo gli unici tra i partiti sionisti a votare contro. Io temo fortemente che la rottura interna alla società israeliana possa trasformarsi in qualcosa di terribile, irrimediabile: una guerra civile latente.

Già negli ultimi mesi ci sono state pericolose avvisaglie, come le violenze compiute dagli estremisti di destra a Gerusalemme nei confronti di civili arabi, comprese donne e adolescenti. E questo senza che dal Primo ministro venisse una parola di condanna. Il mio impegno resta quello di sempre: lavorare per unire ebrei e arabi, tutti cittadini dello stesso Stato, con eguali diritti e doveri di fronte alla legge e alle istituzioni. Così come non mi sento certo io la “traditrice” quando affermo che una pace giusta con i palestinesi, può essere ricercata su due direttrici: o la soluzione a due Stati, oppure quella di uno Stato in tutto e per tutto binazionale. Mi lasci aggiungere che se mi fossi dimessa, il mio posto alla Knesset sarebbe stato preso da chi avrebbe votato a favore dei Regolamenti di Giudea e Samaria (quelli che applicano la legge israeliana anche ai coloni residenti nei territori occupati, legge che viene prorogata ogni cinque anni, ndr). 

Con ogni probabilità, Israele si avvia, prevedibilmente a ottobre, a nuove elezioni anticipate, le quinte in poco più di tre anni. La sinistra sembra destinata a lottare ancora per la sopravvivenza parlamentare…
Farò tutto ciò che è nelle mie possibilità perché ciò non avvenga. Occorre unire le forze, evitare i personalismi, e aprire le liste a candidati giovani, espressione di quei movimenti e associazioni che rappresentano la speranza per la nostra democrazia. Un’alternativa alle destre è possibile. Non facile, certo, ma possibile. Ma per provarci, occorre una discontinuità netta col passato. Rincorrere la destra sul terreno che le è più congeniale è un errore che continuiamo a pagare a caro prezzo. Non sono mai stata un’estremista e so che in politica bisogna scendere a compromessi. Non soni una “purista”. Ma compromesso per me non è sinonimo di cedimento, tanto meno di resa. Sarebbe un grande segnale se riuscissimo a dar vita a una piattaforma elettorale comune tra la sinistra sionista e i partiti arabi che si riconoscono nella Joint List. Un segnale di unità e di cambiamento. Questo sì, vero. E se c’è una cosa che mi imputo, è quella di non aver raccolto prima la bandiera del Meretz, quella della lotta contro l’occupazione, della vera uguaglianza tra ebrei e arabi, della vera partnership. 

(da Gerusalemme ha collaborato Cesare Pavoncello)

Israele. “Perché ho fatto cadere il governo“ ultima modifica: 2022-06-28T18:22:06+02:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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