Incompetenza, corruzione, fattori esterni come la pandemia e la guerra in Ucraina ma soprattutto una gestione familista e mafiosa dell’economia hanno portato lo Sri Lanka in una crisi senza precedenti.
È un miracolo alla rovescia se si considera che si tratta di un paese insulare di circa 65mila chilometri quadrati, con 22 milioni di abitanti e notevoli risorse naturali e che si trova in una invidiabile posizione di cerniera tra il sud e il sudest dell’Asia nell’Oceano Indiano.
Al centro della tempesta c’è la famiglia-mafia dei Rajapaksa: ne fanno parte il presidente Gotabaya, l’ex-primo ministro Mahinda, i loro fratelli Basil e Chaman e decine di figli, nipoti, cugini, nuore, generi, zii, zie e clienti vari, tutti con posizioni importanti nel governo, nelle istituzioni e nelle imprese statali.
Come ha detto il nuovo primo ministro Ranil Wickremasnghe l’economia ha subito “un collasso completo”. L’inflazione su base mensile è arrivata in giugno a sfiorare il cinquanta per cento, le casse di valuta pregiata sono vuote dopo che il paese non è riuscito a rispettare le scadenze di circa cinquanta miliardi di dollari di debito estero, si sta in fila quattro o cinque ore per fare un pieno di benzina – sempre che la benzina si trovi – e gli stessi rifornimenti alimentari sono in dubbio. Gli ospedali sono senza medicine; una giovane donna ha dichiarato alla Bbc che “se mi morde un cane rabbioso, sono morta”, per la mancanza di medicine e di siringhe. L’unico modo di pagare i salari dei dipendenti pubblici è stampare moneta, misura che fatalmente alimenta l’inflazione.
Dallo scorso mese di marzo, il paese è nel caos.

Dimostrazioni quotidiane si sono tenute nella capitale Colombo, dove il lungomare conosciuto come Galle Face e in particolare l’enorme parco chiamato Galle Face Green sono stati il centro delle mobilitazioni. Analoghe proteste si sono verificate in tutte le altre regioni del paese, in un raro esempio di concordia tra la maggioranza cingalese e buddhista e la minoranza tamil, in gran parte hindu ma con forti presenze sia di cristiani sia di musulmani.
Una richiesta su tutte: la rimozione dalle posizioni di responsabilità di tutti i Rajapaksa e di tutti i loro alleati.
A scendere nelle strade sono stati prima di tutto gli studenti ma anche migliaia di professionisti, agricoltori, commercianti, pescatori, camionisti: insomma, tutti i settori della società civile. A tratti le proteste sono state violente, con incendi e saccheggi, e la reazione delle forze di sicurezza pesante, ma a conti fatti per una crisi di queste proporzioni le conseguenze sono state contenute: arresti, feriti ma “solo” una decina di morti.
Tre dei quattro fratelli Rajapaksa sono fuggiti o all’estero o in basi militari protette dall’esercito e solo Gotabaya rimane al suo posto di presidente, ma nessuno può dire per quanto tempo ancora.
Due dei fratelli, il gaudente Mahinda e il severo, astemio e vegetariano Gotabaya, si contendono la leadership della famiglia-mafia.
Fu Mahinda a portare la dinastia al potere, nel 2005, quando vinse le elezioni presidenziali. Gotabaya, che è stato un militare per oltre vent’anni, fu nominato ministro della difesa. Gotabaya lanciò l’ennesima offensiva militare contro le Tigri per la Liberazione della Patria Tamil (LTTE), un temibile gruppo terrorista e secessionista della minoranza etnica dei tamil che aveva raggiunto negli anni precedenti una notevole forza d’impatto. L’LTTE aveva creato il proprio governo nel nordest dell’isola e rispondeva colpo su colpo all’esercito, assassinando un gran numero di esponenti di spicco della maggioranza cingalese fossero essi politici o militari (esiste peraltro il fondato sospetto che anche una serie di regolamenti dei conti interni alla maggioranza furono attribuiti alle “tigri tamil”).

Nel 2009 l’LTTE fu liquidato e il suo leader Vellupillai Prabakharan fu ucciso nel suo bunker sulla costa orientale del paese dopo che la sua forza militare era stata ridotta ai minimi termini.
Il merito dell’inaspettata vittoria andò ai due fratelli Rajapaksa.
In realtà i secessionisti tamil sono stati vittime di una serie di circostanze sfortunate. Prima di tutto dopo gli attentati alle Torri Gemelle di New York del 2001 i moltiplicati controlli internazionali dettero un colpo mortale alla loro struttura di finanziamento, che si basava sull’appoggio delle comunità tamil espatriate in Europa, negli Usa e nel sudest asiatico; nel 2005 le aree “liberate” dall’LTTE furono colpite da un terribile tsunami, che ne mise in ginocchio l’infrastruttura; infine, nel 2006, morì di morte naturale a Londra il cervello “politico” dell’organizzazione, Anton Balasingham.
Una volta al potere, Mahinda iniziò una politica di taglio delle tasse e di grandi progetti edilizi finanziati contraendo debiti con istituzioni private e con governi stranieri. Prima di tutto, quello di Pechino, che da parte sua stava investendo nell’iniziativa diplomatico-economica conosciuta come One Belt One Road o Nuova Via della Seta. La Cina ha puntato sui paesi vicini alla sua grande rivale, l’India, che ha circondato con i suoi nuovi amici coinvolti nel progetto: Pakistan, Nepal, Bangladesh e, appunto, Sri Lanka.
Il progetto più preso di mira dai critici è il gigantesco porto di Hambantota, nel sudest dell’isola, costruito con un enorme finanziamento cinese e dato nel 2017 in gestione ad una società cinese perché lo Sri Lanka non era in grado di ripagare il prestito nei tempi convenuti. Secondo l’ambasciatore cinese a Colombo, Qi Zhenhong, intervistato dalla Bbc, “gli investimenti cinesi nello Sri Lanka (grossi progetti infrastrutturali) sono per loro natura trasparenti (…) e la popolazione locale non crede alla storia della ‘trappola del debito’ cinese ”.
Il porto è stato fortemente voluto dai Rajapaksa e bisogna aggiungere che la famiglia-mafia è responsabile anche di una serie di pazzeschi investimenti nei quali i cinesi non sono coinvolti. Tra questi il gigantesco nuovo stadio di Hambantota che è stato battezzato – indovinate – “Mahinda Rajapaksa International Cricket Stadium”.
C’è da sottolineare che lo Sri Lanka non è il paese con il peggiore rapporto tra Prodotto interno lordo e debiti con istituzioni cinesi: per Colombo il rapporto è dell’8,4 per cento, per le Maldive del 30,6, per il Congo del 48,7 e per Gibuti addirittura del 68,5 per cento, secondo dati del 2017.

Cosa succederà ora? Le proteste guidate dai giovani – che sono la maggioranza della popolazione dello Sri Lanka – e sostenute dal resto della società, proseguono. Gotabaya Rajapaksa è ancora il presidente. Il primo ministro Ranil Wickermasinghe è un politico di lungo corso, che in passato è stato a volte critico, a volte alleato dei Rajapaksa. Il governo di Ranil sta chiedendo, e in minima parte ricevendo, aiuti al Fondo monetario internazionale e ad alcuni governi stranieri, in particolare quello indiano e quello statunitense. Tutti chiedono a Colombo severità fiscale e una politica monetaria severa, cose che non possono che tradursi in nuove difficoltà per la maggioranza della popolazione. Contatti sono in corso anche con la Cina ma su questo fronte sembra che non siano stati fatti progressi.
L’unica proposta articolata per evitare il disastro è venuta dall’ex-presidente Chandrika Kumaratunga (1994-2005) che parla di una profonda riforma costituzionale i cui cardini sono una limitazione dei poteri del presidente – oggi estremamente ampi – e la creazione di una serie di istituzioni affidate a esponenti della società civile con il compito di controllare che non si verifichino episodi di corruzione. Idee buone per salvare una società che con le mobilitazioni dei mesi scorsi ha mostrato di essere più matura di almeno una parte della sua classe dirigente.

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