AGGIORNAMENTO [30 giugno 2022]
Alla fine la mediazione della Conferenza episcopale dell’Ecuador intervenuta nella grave situazione che si era andata creando ha avuto la meglio. E dopo diciotto giorni di proteste governo e Conaie il 30 giugno hanno sottoscritto un accordo che è costato otto morti, trecento feriti e perdite economiche consistenti per i settori produttivi e per lo Stato.
La Confederazione indigena ha così deciso la fine delle mobilitazioni e il ritorno dei manifestanti nelle loro comunità dopo che il governo ha ridotto ulteriormente il prezzo del combustibile, il cui costo al gallone ora passa da 2,45 a 2,40 dollari per la benzina, e da 1,80 a 1,75 dollari per il diesel. Nel contempo si darà vita a un tavolo di dialogo della durata di novanta giorni per dare seguito agli altri accordi intervenuti tra le due parti. Mentre il governo abolisce fin da subito i decreti che permettevano lo sfruttamento petrolifero e minerario in territori ancestrali senza una previa consultazione con le comunità che vi vivono.

Il parlamento ecuadoregno ha respinto ieri la revoca del mandato presidenziale a Guillermo Lasso. L’iniziativa era stata proposta dalla Unión por la Esperanza (Unes) di Rafael Correa, e ha ottenuto dodici voti in meno rispetto ai novantadue che gli sarebbero stati necessari per far dimettere il capo dello Stato in carica. Oltre ai ventisette deputati di Lasso, gli hanno votato a favore parte dell’opposizione del Partido Social Cristiano e della Izquierda Democrática, una formazione che fa parte dell’Internazionale Socialista. Se la mozione fosse passata, il vice di Lasso avrebbe assunto temporaneamente la presidenza per convocare entro sette giorni nuove elezioni del parlamento e della massima carica dello Stato.
Qualche ora prima, in un messaggio diffuso dalla televisione, Lasso ha annunciato che il governo abbandonava il dialogo con Leónidas Iza, presidente di quella Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador (Conaie), che dal 13 giugno ha mobilitato quattordicimila suoi aderenti contro il governo. L’abbandono del tavolo di trattativa è stato deciso dopo l’attacco a un convoglio militare che traportava combustibile nella regione amazzonica che ha provocato un morto e alcuni feriti tra i militari e la polizia. Detto in breve, questo è momentaneamente l’esito della protesta che dura da sedici giorni e che ora, con le due ultime novità, rischia di avvitarsi.

A guidare le grandi manifestazioni è la Conaie, assieme ad altre realtà contadine e indigene, cui hanno aderito organizzazioni urbane, raggruppamenti di studenti, di professori e di operai, e una moltitudine di collettivi femministi, di quartiere e ambientalisti.
La Conaie è nata nel 1986 per una fusione di organizzazioni indigene dell’Amazzonia e della Sierra, e nel 1990 è stata protagonista di una grande mobilitazione che ha paralizzato l’intero Paese. Ciò le ha consentito di diventare il vero e proprio rappresentante delle comunità indigene ecuadoregne e il più serio oppositore delle politiche neoliberali che si diffusero a macchia d’olio in America Latina dopo la caduta del Muro di Berlino.
Nello stesso tempo, la massima organizzazione dei popoli indigeni dell’Ecuador ha anche rappresentato una spina nel fianco sinistro di Rafael Correa (2007-2017), criticato per le sue scelte sulle problematiche agrarie, sull’utilizzo delle risorse idriche, per le sue politiche estrattiviste che hanno spesso caratterizzato il suo governo, come del resto altri del cosiddetto Socialismo del XXI secolo latinoamericano.
Il suo vasto radicamento ha consentito a Conaie di esprimere un proprio braccio politico fondando il Pachakutik, con il quale, dopo aver partecipato a elezioni locali, ha corso alle elezioni nazionali del 2021, presentando come candidato presidenziale Yaku Pérez Guartambel che ha ottenuto il venti per cento dei voti. Yaku non è andato al ballottaggio per un soffio, e sono in molti a pensare che qualcosa di poco pulito sia all’origine del suo insuccesso che all’epoca era dato per scontato.
Dal giugno dell’anno scorso la Conaie aveva avviato un dialogo col governo. Di fronte alla chiusura di Guillermo Lasso, quel dialogo si è interrotto e la tensione è andata crescendo fino alla proclamazione dello sciopero nazionale per ottenere il soddisfacimento di dieci richieste. Tra queste, il rientro dell’aumento dei prezzi della benzina, la rinegoziazione del debito dei clienti del sistema finanziario nazionale, la regolamentazione dei prezzi dei prodotti agrari, la cancellazione dei decreti che favoriscono l’aumento dello sfruttamento petrolifero e minerario, il rispetto della consultazione prima di avviare progetti estrattivi nei territori comunitari indigeni, e la regolamentazione dei prezzi dei prodotti di prima necessità.
Temi ricorrenti che, restando ai tempi recenti, avevano portato allo scoppio nell’ottobre del 2019 della rivolta sociale contro il governo di Lenín Moreno, costretto a lasciare Quito e a riparare nella città costiera di Guayaquil dalle manifestazioni indigene. Da allora la situazione è perfino peggiorata a causa dell’epidemia di Covid-19 che ha messo a nudo la mancanza di scelte politiche in grado di ridurre le disuguaglianze sociali. Questo è il risultato dell’ex banchiere Guillermo Lasso che ha fatto gli interessi del mondo della grande impresa e della finanza in una situazione in cui, a causa dell’inflazione, la stragrande maggioranza della popolazione ha difficoltà ad accedere all’alimentazione base, e dove sono altissimi i tassi di disoccupazione e di sottoimpiego.
Un brodo di cultura che ha favorito lo scoppio della nuova crisi sociale su cui ha avuto effetto di benzina sul fuoco la risposta repressiva da parte dello Stato, che al secondo giorno di sciopero nazionale ha risposto arrestando Leónidas Iza, il presidente della Conaie, per interruzione di servizio pubblico. Un atto che è stato letto come una persecuzione politica, dal momento che solo poche settimane prima Lasso aveva affermato che il leader indigeno sarebbe finito “con le sue ossa in carcere”. Mentre capi delle forze armate si sono lasciati andare a dichiarazioni con le quali hanno creato un collegamento tra manifestazioni, narcotraffico e delinquenza organizzata.
Non deve quindi stupire se all’originario movimento indigeno si sono affiancati fin dall’inizio studenti e movimenti delle donne. I primi spinti a protestare contro le mancate promesse di ampliare gli accessi allo studio universitario. Le seconde in quanto il presidente, aderente all’Opus Dei, si rifiuta di firmare un provvedimento che consente l’aborto in caso di violenza.
La popolarità dello stesso Lasso è in caduta libera a solo un anno dall’assunzione della carica di presidente. Allora godeva del 75 per cento del sostegno, mentre ora l’ottanta per cento degli ecuadoregni ne disapprovano le politiche, dal momento che l’unica promessa mantenuta in qualche misura è stata quella della campagna vaccinale contro il Covid. Quanto al suo programma filo imprese, con il quale ha vinto solo in virtù della frammentazione delle altre forze di opposizione, esso rappresentava un’inversione di rotta rispetto ai decenni precedenti, e si è rivelato una iattura per la maggioranza della popolazione del Paese.
Se al primo turno l’esito delle urne gli ha dato il venti per cento dei voti, la conseguenza è stata che a livello parlamentare l’ex banchiere di Guayaquil può contare su una ristretta compagine parlamentare. Realtà aggravata anche dal fatto che dopo le elezioni il neo presidente si è allontanato dal Partido Social Cristiano (Psc) che era stato suo alleato. Un allontanamento che si spiega più con motivazioni caratteriali che con ragioni più solide, dato che anche quel partito corrisponde ad interessi che coincidono con quelli delle élite economiche difese dal governo.
L’opposizione, rappresentata dal Pachakutik e dalla Unión por la Esperanza (Unes) di ispirazione correista, si è fatta impelagare in ambigui giochi di alleanze col governo in nome della governabilità. Col risultato che è riuscita ad aumentare la sfiducia e il discredito di cui soffrono i partiti.

La frammentazione dello schieramento parlamentare e l’oggettiva debolezza della politica ecuadoregna hanno messo a dura prova la navigazione di Lasso nel suo primo anno di vita, il quale ha dovuto giostrare tra trabocchetti e minacce di ricorrere alla “muerte cruzada”, un dispositivo presente nella Costituzione che gli da facoltà di sciogliere il parlamento con l’obbligo di indire nuove elezioni entro sei mesi, durante il quale il presidente rimane in carica e governa con decreti, per eleggerne uno nuovo e un nuovo presidente.
Ora, con la chiusura del dialogo e soprattutto con il suo momentaneo rafforzamento grazie all’annunciato fallimento della raccolta delle firme per la sua destituzione, Lasso, salvo sorprese, potrebbe essere tentato di averla vinta sul terreno, acuendo lo scontro in atto, forte dell’appoggio degli ambienti economici che difende e del controllo delle forze repressive.
Qualche risposta, come l’abbassamento del prezzo del carburante di dieci centesimi, era anche stata data alle richieste della Conaie. Una misura che tuttavia è stata considerata insufficiente dagli indigeni che chiedevano che diminuisse di quaranta. Se a questo punto la strada fosse quella dell’irrigidimento, è difficile poter prevedere quali esiti e soprattutto quanti danni ciò potrebbe arrecare a una popolazione stremata e alle istituzioni democratiche.

immagine di copertina: Quito invasa dai manifestanti (foto da @davidrkadler)

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