L’ultimo numero della rivista dell’Arel è dedicato alla PAROLA. Abbiamo il piacere di anticipare alcuni dei numerosi e interessanti articoli contenuti in questo numero monografico, in vendita, in pdf, sul sito dell’Arel. Ringraziamo la direzione e la redazione di Arel per la gradita cortesia, che rinnova l’ormai consolidata collaborazione tra le due riviste.


1. Premessa
Se è vero che le parole non creano le cose (“Quella che noi chiamiamo rosa, anche chiamata con un’altra parola avrebbe lo stesso odore soave”, fa dire Shakespeare alla sua Giulietta) è anche vero che le parole che si osano pronunciare hanno il potere di evocare eventi che si sono negati e rimossi per molto tempo. È questo il caso della parola ucraina, Holodomor, composta da holod, che vuol dire fame, e morty, ossia uccidere, affamare, esaurire, e che fa riferimento alla spaventosa carestia che colpì ferocemente l’Ucraina nel 1932-33.
Ma perché non parlare di “carestia” e usare questa nuova parola? Appunto perché le parole indicano ciò che è, o almeno ciò che si ritiene che sia. E lo Holodomor non è una “normale” carestia, una di quelle che viene causata da guerre, maltempo, epidemie e non dalla precisa volontà di un potere che intende così distruggere o rendere innocui dei nemici interni. E questo sarebbe proprio quanto accaduto in Ucraina nel 1932-33, laddove Stalin, con una serie di azioni di cui conosceva le conseguenze, avrebbe causato la morte di milioni di contadini e la distruzione (parziale) della stessa vita culturale ucraina.
Il testo che segue ha come obiettivo quello di raccontare una storia poco nota in Occidente per cercare di comprendere la natura dello Holodomor e le sue conseguenze.

2. L’Ucraina sino al 1917
In Occidente si confonde ancora oggi spesso Ucraina con Russia, e si ritiene, a torto, che la prima sia una specie di regione della seconda. Si tratta di una confusione legata a vicende storiche di lunga durata, oltre che a resistenze ideologiche spesso fomentate dalla propaganda prima zarista e poi bolscevica contro gli ucraini. L’Ucraina è più estesa della Francia e più popolosa (almeno sino al terribile esodo dovuto all’invasione russa del 2022) della Polonia. Nel Paese si parla una lingua che è apparentemente simile al russo, esattamente come lo spagnolo è, sempre in apparenza, simile all’italiano, ma non è, come si continua ad affermare anche oggi, un “dialetto” del russo. Non si tratta di una questione di poco conto perché la lingua costituisce sempre un primo, forte, carattere nazionale per un popolo, a maggior ragione quando, come per l’Ucraina, viene impedita la costituzione di uno Stato nazionale indipendente. Sino alla caduta dell’Urss, infatti, l’Ucraina è stata l’unica grande nazione europea a non avere mai avuto il diritto di essere Stato indipendente e per questo la lingua e, più in generale, la cultura ucraina hanno assunto un valore forte, visti anche i costanti tentativi russi di sradicarle.
In realtà, e questo conferma la confusione che regna in Occidente, anche tra gli studiosi più preparati non vi è accordo su questo assunto. Secondo Robert Conquest, nel suo magistrale libro Raccolto di dolore [d’ora in poi indicato come Conquest 1986], infatti, una statualità ucraina era esistita, grazie ai cosacchi che avrebbero formato uno Stato nel 1649, Stato che sarebbe vissuto sino all’annessione voluta da Caterina II nel 1775. Circostanza negata, invece, da molti altri studiosi che, pur ritenendo l’Ucraina non russa, non credono si possa parlare di Stato per quella strana struttura politico militare cosacca. Ciò non toglie che la decisione di Caterina II di dare vita a una “Piccola Russia”, ossia ad una Ucraina sottomessa direttamente agli zar, ebbe conseguenze gravi, costringendo quel Paese ad accettare usi e leggi che gli erano alieni (ad esempio, la servitù della gleba). Inoltre, i nuovi padroni iniziarono quella politica di russificazione che si sarebbe perpetuata, con maggiore o minore intensità, sino quasi ai giorni nostri. Ad esempio, si ricordi che nel 1847 colui che diverrà il poeta nazionale e il simbolo della nazione ucraina, Taras Ševčenko, fu arrestato e spedito in Siberia per aver composto e pubblicato poesie di chiaro sapore nazionalista ucraino, mentre la lingua ucraina non veniva considerata altro che un dialetto poco comprensibile usato da masse di contadini ignoranti.
Dopo il 1861, anno della fine della servitù della gleba, le restrizioni contro gli ucraini si accentuarono nonostante non vi fossero vere pulsioni secessioniste ma solo richieste di un maggiore rispetto per l’identità del Paese. Anzi, nel 1876 lo Zar Alessandro II, che pure aveva fama di “riformatore”, vietò in maniera netta tramite decreto l’uso della lingua ucraina nei libri e nei giornali, che vennero quindi ritirati e chiusi, ma anche nel teatro e nei libretti musicali, finanziando, invece, organizzazioni filantropiche russe anche nell’ottica di una sempre maggiore russificazione legata allo sviluppo industriale delle regioni del Donbas (Donbass), laddove manodopera russa a basso costo entrava in contatto e contrasto con gli ucraini.
2.1 Rivoluzioni e guerre
La rivoluzione del 1905, repressa brutalmente dal governo zarista, ebbe comunque effetti, temporanei, positivi per l’Ucraina, laddove venne sospeso il divieto dell’uso pubblico dell’ucraino e venne eletto un nutrito e agguerrito numero di parlamentari ucraini che diedero voce alle istanze nazionali. Si trattò, però, solo di una breve tregua: nel 1914, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, infatti, le maggiori personalità politiche e culturali ucraine vennero arrestate in quanto “potenziali nemici” dell’Impero russo. La fine dei grandi imperi multinazionali ebbe, evidentemente, conseguenze importanti per gli ucraini che si trovavano sotto gli zar. Il 1° aprile 1917 a Kiev si tenne una grande manifestazione per un’Ucraina nazionale, federata alla Russia: Libera Ucraina in libera Russia (Applebaum, p. 31). Successivamente, si costituiva la Rada Centrale, una specie di governo, pluripartitico, che rivendicava la guida del Paese, non ritenendo ancora necessaria una dichiarazione d’indipendenza. Dopo la Seconda Rivoluzione, quella bolscevica del novembre 1917, la Rada, però, assunse i pieni poteri e fece un passo verso l’indipendenza proclamando, il 20 novembre, la nascita della Repubblica Popolare Ucraina, con carattere “federativo” rispetto alla Russia. I bolscevichi ucraini, in netta minoranza, proclamarono un “governo sovietico” e chiesero l’intervento militare dei russi. Il 26 gennaio 1918 l’Ucraina si dichiarava, infine, indipendente poco prima dell’invasione russa di Kiev e l’imposizione di un governo bolscevico che iniziò subito a procedere a requisizioni massicce di grano e ad attuare prime forme di collettivizzazione delle campagne.
Il governo sostenuto dai russi non durò che pochi giorni, visto che nell’aprile del 1918 l’Ucraina fu invasa da tedeschi e austriaci mentre l’Armata Rossa batteva in ritirata. Anche se i nuovi padroni si spacciavano per alleati degli ucraini, la situazione generale della guerra in corso in Occidente portò a nuove requisizioni e violenze, che apparvero altrettanto intollerabili di quelle russe. In maniera convulsa, si scatenò allora una guerra di tutti contro tutti che vide effimeri governi di natura diversa e violenta. Nel gennaio-febbraio 1919 l’Armata Rossa sferrò un nuovo attacco e riuscì ad occupare Kiev e instaurare un secondo governo bolscevico, che resse poco più del precedente prima di essere rovesciato ancora una volta, non senza aver cercato d’imporre quel “comunismo di guerra” che in Ucraina significava solo requisizioni totali di grano e lotta contro i cosiddetti “kulaki” (in ucraino pugno), ossia quei contadini ricchi che erano considerati nemici naturali dei bolscevichi. Con questa parola assassina Lenin e i suoi indicavano chiunque si opponesse alla loro politica quindi andava distrutto. Nell’agosto del 1919, però, l’esercito dei cosiddetti “bianchi”, guidato da Denikin e alleato con tutti i nemici dei bolscevichi, travolse l’Armata Rossa e mise in crisi il potere leninista non solo in Ucraina. L’alleanza con gli ucraini, però, durò poco perché anche i bianchi avevano quella forma mentis grande russa che non permetteva di vedere l’Ucraina che come una provincia riottosa da riportare all’ordine zarista. Quindi, la momentanea vittoria bianca non solo non fu risolutiva, ma fece sprofondare ancor di più l’Ucraina nel caos e nella violenza. Kiev nel solo 1919 cambiò padrone una dozzina di volte (Applebaum 2107, p. 73) e ad ogni cambio di potere si accompagnavano esazioni e violenze di tutti i tipi; in particolare, spaventose furono le persecuzioni nei confronti degli ebrei. Da queste violenze emerse lentamente la ripresa del potere da parte dei bolscevichi, che approfittarono delle divisioni interne e della incapacità dei vari capi locali a mantenere il controllo di truppe riottose ad ogni disciplina. Ma il pericolo per Lenin non era ancora scongiurato, in quanto nel 1920 la Polonia di Jozef Pilsudski si alleò con i nemici interni dei bolscevichi e invase il Paese giungendo a Kiev il 7 maggio, ma venendone cacciati il 13 giugno. L’Armata Rossa arrivò alle porte di Varsavia, ma a sua volta fu fermata. L’Ucraina rimase divisa in due tra Polonia e Russia bolscevica, che conservò sempre un forte timore nei confronti degli ucraini, considerati traditori e nemici di classe da distruggere, prima o poi.
2.2 La carestia del 1921
La vittoria bolscevica fu una vittoria russa. L’Armata Rossa presente in Ucraina era all’85% composta da russi, e la capitale venne spostata da Kiev e Charkyv proprio perché questa città era più vicina al confine russo e meno ucraina di composizione etnica e linguistica e il Partito Comunista ucraino, nominalmente indipendente, era in realtà totalmente sotto controllo di Mosca. Per questo Mosca non ebbe difficoltà a ordinare nuove requisizioni di grano, aggiungendo questo fattore a quelli legati alla guerra civile e a quella mondiale appena conclusa, e portando, quindi, a una carestia che, però, diversamente da quella del 1932-33, non fu né voluta né accettata dal potere bolscevico che, anzi, pure con grandi difficoltà, accettò anche l’aiuto internazionale per sfamare le popolazioni colpite dal flagello. Sempre a differenza del 1932-33, inoltre, fu consentito a decine di migliaia di persone che non trovavano cibo di allontanarsi dai luoghi di residenza, cercando lavoro nelle città, in particolare nelle nuove fabbriche che di lavoratori avevano bisogno. Anche nel 1921, però, l’Ucraina subì, almeno inizialmente, la diffidenza bolscevica, e ricevette aiuti solo tardivamente; in particolare decisivo fu l’intervento massiccio dell’American Relief Administration (ARA), già attiva in Europa occidentale. Fondata e guidata dal futuro presidente degli Stati Uniti Herbert Hoover, l’ARA intervenne in forze per soccorrere il Paese in difficoltà e, nonostante gli ostacoli che i bolscevichi continuavano a porre, contribuirono ad evitare la catastrofe che, invece, si sarebbe avuta nel 1932-33.

3. Una primavera effimera e illusoria
La carestia era stato uno degli elementi fondamentali per spingere i dirigenti sovietici a modificare le proprie politiche economiche e anche i rapporti con gli ucraini. Nei primi anni Venti del XX secolo, infatti, vi furono aperture anche sul fronte culturale e politico. Il Partito Comunista ucraino, ovviamente autorizzato da Lenin, decise di accogliere ex membri dei partiti di sinistra nazionali ucraini e nel 1923, per la prima volta nella storia, veniva riconosciuto l’ucraino quale lingua maggioritaria della Repubblica e fu disposto che tutti i dipendenti pubblici parlassero ucraino e russo, e anche per questo fu autorizzato un lavoro di omogeneizzazione della lingua ucraina che risentiva degli influssi russi e polacchi e che fu normalizzata nel 1929.
Di particolare peso simbolico fu il rientro in Ucraina dell’antico leader della Rada centrale Hruševs’kyi nel 1924. Non ebbe ruolo politico, ma la sua personalità di studioso della storia e della cultura ucraina era, comunque, estremamente rilevante. Nonostante i controlli serrati cui si trovò sottoposto, Hruševs’kyi fu autorizzato a fondare a Kiev un nuovo istituto di studi storici, sotto l’egida dell’Accademia panucraina delle scienze, e a lavorare ad una gigantesca storia dell’Ucraina-Rus e ad altre opere storiche sul Paese. Se qualcuno si fosse, però, fatto delle illusioni su una sempre maggiore liberalizzazione sarebbe stato presto, tragicamente, deluso.
3.1 Stalin. La “dekulakizzazione” e la collettivizzazione forzata
La malattia e la morte di Lenin, avvenuta nel 1924, diedero via a una lotta feroce di potere tra gli “eredi” del capo. Per crudeltà, abilità manovriera, volontà di potenza, emerse prima di tutti la figura di Iosif Vissarionovic Dzugasvili, Stalin, uomo di ferro di nome e di fatto. Divenuto segretario del Partito Comunista sovietico, Stalin teneva in mano le leve più preziose del potere nella sua lotta contro gli avversari- compagni.
La sua ascesa al potere assoluto non è fulminante, anzi è lenta e graduale, e si fonda sulla fredda tattica di colpire gli avversari quando sono più esposti, dividendo le opposizioni e utilizzando per i suoi scopi le idee altrui, con una politica del pendolo che porta ai primi processi farsa e poi alla sempre più marcata svolta ideologica verso quella che era considerata la vera linea del partito, quella che si era fermata per motivi solo tattici nel 1921, ma era la vera essenza del bolscevismo: sviluppo industriale, collettivizzazione delle campagne, instaurazione del vero Stato socialista (nell’ottica di Stalin). Primo obiettivo, riprendere e completare la lotta ai “kulaki”, qualunque cosa indicasse questa parola.
Il primo passo in quella direzione fu la risposta alla presunta crisi granaria che si sarebbe scatenata in Urss tra il 1927 e il 1929. In realtà, ci si trovava di fronte a una normale situazione dovuta a un calo, non particolarmente allarmante, della produzione di grano, che, comunque, era compensata da buoni raccolti di altri cereali. Sarebbero bastati correttivi dettati da un mercato anche controllato come quello sovietico per poter rispondere alle difficoltà senza dover utilizzare metodi violenti. Ma ciò non accadde; non è chiaro se Stalin attendesse solo un pretesto per riprendere la guerra contro i contadini e per la collettivizzazione, ma sta di fatto che la risposta fu nuove operazioni di ammasso e di requisizione sul modello di quelle intraprese durante la guerra civile. Stalin assicurò che si trattava di misure solo temporanee, ma fu chiaro a tutti che era solo Stalin a decidere quanto lunga sarebbe stata questa “temporaneità”, tenendo anche conto che era stato avviato quel primo piano quinquennale che avrebbe dovuto, tra il 1929 e il 1933, portare a un “balzo in avanti” straordinario l’industria sovietica con obiettivi irrealistici per i quali sarebbe stato necessario pesare in particolare sulle campagne, laddove si riteneva indispensabile la collettivizzazione.
Secondo Stalin, infatti, la proprietà privata contadina, anche nei limiti consentiti dallo Stato sovietico, era incompatibile con l’ideologia marxista e, soprattutto, era – sempre a suo dire – molto meno efficiente dal punto di vista della produzione rispetto alle grandi aziende collettive. Non si capisce su quale base logica, oltre che economica, si basasse questa opinione, dato che da nessuna parte al mondo si vedevano gigantesche imprese collettive agricole aver qualche successo – al contrario di quanto accadeva per le fabbriche –, ma era ormai chiaro che la realtà non era altro che un dettaglio che il volontarismo bolscevico avrebbe potuto piegare, costasse quel che costasse. Ovviamente, obiettivo della nuova rivoluzione sovietica furono quelle zone dove l’agricoltura aveva peso maggiore e dove la proprietà collettiva non era mai stata particolarmente diffusa: in particolare, quindi, l’Ucraina. In teoria, la base dell’ingresso nelle aziende collettive avrebbe dovuto essere l’adesione volontaria ed entusiasta dei contadini, che non avrebbero potuto non vedere i vantaggi di questa svolta, ovviamente se non fossero traviati da nemici di classe. Purtroppo, però, questi vantaggi non erano affatto visibili, anzi non esistevano proprio. Per rimediare a questo dettaglio la dirigenza sovietica, sia centrale sia periferica, non esitò a “violare la legalità socialista”, come si diceva allora, tramite pressioni sulle strutture politiche di villaggio che avrebbero dovuto decidere il passaggio alla collettivizzazione, ma anche e soprattutto tramite brutali misure amministrative (multe, sequestri di beni), per giungere rapidamente alla coercizione fisica e alla tortura, in particolare contro i kulaki, che, come diceva Stalin, andavano “liquidati come classe”.
In sostanza, kulak poteva essere chiunque si opponesse al nuovo corso, chiunque manifestasse dubbi, chiunque portasse avanti qualsiasi forma di resistenza e la liquidazione non avvenne contro una classe ma contro persone indifese. A inizio 1930 fu deciso che i kulaki fossero divisi in tre gruppi. Il primo, composto da 63.000 persone, era destinato puramente e semplicemente alla fucilazione; il secondo (che includeva i familiari del primo gruppo) doveva essere deportato in Siberia o in altre aree isolate dell’Urss. Infine, il terzo gruppo doveva essere espulso dai kolchoz, espropriato e spedito in zone isolate del proprio distretto di appartenenza. In più, furono stabilite “quote” di kulaki da colpire in ogni distretto che doveva “consegnare” un certo numero minimo di kulaki e, possibilmente, anche di più. Se non c’erano andavano inventati! Queste disposizioni scatenarono una feroce caccia all’uomo, che fu particolarmente crudele in Ucraina, laddove fu frequente vedere persone spogliate letteralmente di tutto, buttate nella neve, obbligate a marciare nel gelo, e poi chiuse in vagoni merci a decine per essere scaraventate in luoghi inospitali dove nulla era stato approntato per loro, nemmeno una baracca nella quale ripararsi dal gelo micidiale della Siberia. Vassilij Grossmann, nel suo immenso romanzo Tutto scorre… (d’ora in poi Grossman 1970), scrive:
Dal nostro villaggio (…) li scacciarono a piedi. Tutto quello che presero con loro fu di che dormire e di che vestirsi. C’era tanto di quel fango che strappava gli stivali (…). Faceva pena a guardarli: camminavano incolonnati, voltandosi a gettare un ultimo sguardo alle isbe (…). Li avevano fatti partire di furia, lasciando la stufa accesa, con la ministra di cavoli cotta a metà (…). Le donne piangono ma di lamentarsi forte hanno paura (…) (Grossman 1970, pp. 135-136).
Lo stesso Grossman racconta del ruolo degli attivisti, i famosi venticinquemila, giovani comunisti di città piombati nelle campagne, soprattutto in Ucraina, per convincere i contadini delle magnifiche sorti e progressive che li attendevano nelle aziende collettive dopo la dekulakizzazione. Questi giovani, alcuni illusi, altri semplicemente sadici, si trovarono di fronte a un muro di incomprensione. Erano cittadini e, per quel che riguarda l’Ucraina, erano soprattutto russi, o russofoni. Non parlavano la lingua, non avevano nulla in comune con i contadini, e contribuirono attivamente alla distruzione non solo delle persone, cosa di per sé gravissima, ma dell’intero sistema produttivo delle campagne. Ovviamente, la responsabilità di quanto accadeva va ascritta a Stalin e ai suoi stretti collaboratori, ma questi volonterosi giovani (molti dei quali dopo, molto dopo, troppo tardi, avrebbero capito) ebbero comunque la colpa della crudeltà.
3.2 Resistenza disperata nelle campagne
Collettivizzazione e dekulakizzazione furono mezzo per cercare di piegare la resistenza dei contadini, che soprattutto in Ucraina si erano rivelati un osso duro per i bolscevichi, i quali li consideravano una classe irriducibilmente reazionaria e che, comunque, sarebbe stata destinata a sparire nella inevitabile marcia verso il comunismo realizzato. Intanto, però, in attesa dei lendemains qui chantent, la crisi alimentare si stava ripresentando: non ancora carestia, ma era chiaro che la contemporanea accelerazione della collettivizzazione, delle requisizioni, e della “liquidazione dei kulaki come classe” (ossia dei contadini spesso più capaci) non poteva che avere effetti negativi sulle campagne e sui raccolti. Tutti questi fattori diedero vita una reazione dei contadini che, soprattutto in Ucraina, sorprese e allarmò il potere moscovita. L’Ucraina era lontana dalla tradizione russa delle aziende agricole collettive e quindi le resistenze alla collettivizzazione furono più forti che altrove. I contadini poveri temevano apertamente di fare la stessa fine dei kulaki. Timore non infondato visto che lo Stato usava tutta la sua forza, oltre a quella degli attivisti, per costringere i contadini “affidabili” ad entrare a forza nei kolchoz, procedendo a costanti requisizioni di grano, di altri cereali e degli stessi animali, e aumentando sempre di più le pretese di ammasso, ossia le quantità di grano da consegnare allo Stato.
I contadini, quindi, si trovavano ora davanti a un bivio: rifiutare la collettivizzazione e rischiare la morte come criminali o kulaki, oppure entrare nel kolchoz, che però produceva poco e quel poco andava dato allo Stato? Morte per deportazione o morte per fame? Questa la vera alternativa. Ovvio che crescesse la volontà di rivolta.
E mentre le campagne ucraine erano sotto pressione, anche la cultura della Repubblica era da tempo sotto attacco. La politica di “ucrainizzazione” stava per essere superata dalla volontà accentratrice e grande russa del georgiano Stalin, che diffidava dei nazionalismi, fossero pure inseriti nel Partito Comunista (ucraino). Per Stalin era inammissibile che l’Ucraina fosse in qualche modo indipendente, pure se inserita nella Federazione sovietica, e capace, almeno culturalmente, di dare vita a una “Grande Ucraina” alternativa alla Russia ancora di più che all’Urss.
Per mettere in chiaro che la Repubblica Ucraina doveva restare al passo di Mosca, Stalin inviò quale segretario del Partito Comunista ucraino il suo fedelissimo collaboratore Emmanuel Kaganovic, che era sì nato in provincia di Kiev, ma che parlava poco e male l’ucraino e che aveva svolto tutta la sua carriera in Russia. Inizialmente Kaganovic si mosse con prudenza, ma fu chiaro da subito che il vento stava cambiando, e non in bene, per la cultura ucraina. Il nuovo segretario, infatti, non apprezzò che personaggi che avevano occupato ruoli imporranti nella Rada Centrale e nel Governo ucraino del periodo della guerra civile fossero a piede libero nel Paese e potessero anche parlare e scrivere. Il tempo di colpire stava arrivando, e per questo accanto a Kaganovic venne posto Vsevold Balyc’ki, che divenne capo della OGPU (la polizia politica) in Ucraina, che fu il braccio armato di Stalin nella Repubblica, costruendo “prove” che avrebbero dimostrato le infiltrazioni nazionaliste ucraine nel partito, oltre a cospirazioni degli intellettuali con la Polonia in funzione antisovietica. E mentre dirigenti ucraini del partito venivano colpiti per la loro “disattenzione”, l’OGPU creava ad arte gli elementi per un processo spettacolare contro una presunta organizzazione separatista ucraina, la Spilka Vyzvolennja Ukrajiny (SVU – Unione per la Liberazione dell’Ucraina), che semplicemente non esisteva ma che portò all’arresto di almeno 3000 persone (intellettuali, artisti, tecnici, scrittori e scienziati) e ad un processo che, con involontaria ironia, si svolse nel 1930 nel Teatro dell’Opera di Charkyv, luogo perfetto per una rappresentazione teatrale di un copione già scritto che portò alla condanna degli imputati accusati (falsamente) di aver cercato di separare l’Ucraina dall’Urss.
Ma se gli intellettuali ucraini dovevano arrendersi quasi senza combattere, non così avrebbero fatto i contadini. Il 1930, infatti, fu l’anno delle ultime, grandi, rivolte che si videro in Ucraina prima della catastrofe. Rispetto al passato, però, i contadini trovarono uno Stato forte e non in crisi come nel 1917-21, Stato, che tra l’altro, aveva già sequestrato la maggior parte delle armi e che non si sarebbe preoccupato di usare anche l’artiglieria e l’aviazione contro i ribelli. Gli scontri armati furono frequenti, e non sempre la OGPU ebbe vita facile, ma due furono le forme originali di lotta messe in atto dai contadini.
La prima coinvolse le donne. Come nella Parigi del 1789, infatti, spesso erano loro a protestare contro la collettivizzazione che affamava le famiglie. Queste manifestazioni creavano un certo imbarazzo sia nei dirigenti comunisti ma anche negli agenti locali della polizia, che spesso si trovavano a doversi scontrare con donne disperate, armate solo delle loro urla. Non che la cosa trattenesse dall’uso della forza e dagli arresti. Ma la protesta vera, estrema e disperata dei contadini, fu quella di abbattere il loro bestiame prima di entrare nelle fattorie collettive.
La macellazione “illegale” degli animali portò a un vero disastro economico, come scrive Conquest 1986 a pagina 188, laddove ricorda che nel 1934 lo stesso Partito Comunista sovietico nel suo Congresso ammetteva la perdita del 42,6% del bestiame dal 1930. In Ucraina in particolare il 48% (dato ufficiale probabilmente inferiore alla realtà) del bestiame fu macellato, e percentuali ancora più alte si ebbero per gli altri animali.
Ma nonostante le resistenze dei contadini le aziende collettive crebbero a un prezzo terribile, sia per quel che riguarda l’economia sia sotto l’aspetto umano, mentre la disorganizzazione e l’odio crescente, oltre ai timori staliniani nei confronti dei contadini e dei “nazionalisti” ucraini, preparavano la tragedia della carestia.

4. Holodomor 1932-33. Decisioni scellerate
Il 2 marzo 1930 sulla «Pravda» era apparso un lungo articolo di Stalin che stigmatizzava la “vertigine del successo” che avrebbe colto gli entusiasti del partito nella collettivizzazione. In pratica gli eccessi che nemmeno Stalin poteva negare, erano attribuiti non ai suoi ordini, ma alla cattiva comprensione che di questi ordini avevano avuto i sottoposti, soprattutto locali, e che aveva portato a esagerazioni dannose. A parole Stalin, quindi, ordinava moderazione. In realtà, la collettivizzazione non si fermò mai, mentre la polizia segreta reprimeva con sempre maggiore violenza le manifestazioni dei contadini e quelle degli intellettuali ucraini, tutti accusati di essere nazionalisti, antisovietici, controrivoluzionari. Nel luglio 1930 il Politburo, inoltre, stabiliva nuovi obiettivi per l’adesione “volontaria” alle fattorie collettive: in particolare in Ucraina il 70% delle famiglie doveva aderire alla collettivizzazione entro settembre 1931, cifra portata all’80% nel dicembre del 1930.
Erano numeri privi di ogni aderenza con la realtà, ma che avevano come conseguenza, riconosciuta e voluta, una sempre maggiore pressione sui contadini per ottenere raccolti favolosi e irrealizzabili. Alla fine del 1930 la penuria alimentare stava diventando costante e si verificarono i primi casi di carestia conclamata. I contadini sotto coercizione stavano entrando nelle fattorie collettive, ma certamente non erano stimolati alla semina per raccolti che non avrebbero loro dato alcun vantaggio e in una situazione che li privava di ogni possibilità di scelta ripristinando una servitù della gleba peggiore di quella abolita nel 1861.
Nonostante queste evidenze, il Cremlino affermò che nel 1930 erano stati raccolte 83.5 milioni di tonnellate di grano e che, quindi, la collettivizzazione era un successo senza pari che consentiva anche di aumentare le esportazioni di grano verso l’estero. Solo che quel grano non c’era se non togliendolo ai contadini. Alla vita delle persone si preferì l’acquisizione di moneta forte dall’estero da poter impiegare per l’acquisto di macchine e altri manufatti necessari per la realizzazione del piano quinquennale. Inoltre, la crisi che dal 1929 aveva colpito l’Occidente rendeva il grano sovietico estremamente importante e diveniva arma per esercitare influenza nei rapporti internazionali. Un elemento da non trascurare per comprendere il silenzio degli occidentali, democratici o fascisti che fossero, quando le notizie della carestia in Ucraina sarebbero trapelate.
Se la cifra del raccolto fosse stata davvero quella affermata dal partito le esportazioni non avrebbero avuto un peso tanto negativo, ma visto che quegli 83 milioni di tonnellate erano in larga parte frutto della fantasia staliniana, il grano esportato era cibo tolto ai contadini che lo avevano seminato. Peggio che mai, visto che il 1931 si presentava complicato, in particolare in Ucraina, in conseguenza di condizioni meteorologiche non favorevoli, ma soprattutto del caos e della impreparazione che la collettivizzazione forzata stava causando. Se il raccolto fosse andato male ne avrebbero sofferto le esportazioni e le città sovietiche, importantissime per Stalin, il quale aveva probabilmente chiaro che dietro questi problemi c’era la collettivizzazione da lui voluta. Ma chi avrebbe mai osato accusare Stalin? E chi avrebbe mai osato chiedere di fermare sia la collettivizzazione sia gli ammassi di grano che erano voluti dal Vodz (capo) sovietico? In realtà, timidamente qualche dirigente provò a far ragionare Stalin, osservando che forse le quote di ammasso erano un po’ alte, che c’era qualche problema dovuto ai controrivoluzionari e che quindi sarebbe stato meglio ridurre le pretese.
Ovviamente Stalin non se ne diede per inteso e a fine 1931 affermò che se era vero che il raccolto presentava delle criticità in alcuni parti del Paese ciò non valeva per l’Ucraina che, quindi, sarebbe stata chiamata a supplire ai vuoti negli ammassi. In pratica, laddove già non c’era grano a sufficienza se ne pretendeva di più. Per questo nei primi mesi del 1932 si assistette a requisizioni fanatiche svolte con i soliti metodi brutali che facevano presagire cosa sarebbe accaduto l’anno dopo: sequestro totale di tutti i cereali presenti in ogni casa, così come di ogni pezzo di pane o altro genere alimentare. Perquisizioni violente, con abbattimenti di mura e sventramenti di pavimento. Pestaggi e torture contro i “kulaki”, operati da brigate di comunisti affiancati da agenti dell’OGPU.
4.1 Holodomor 1932-33. Tentativi di evitare la tragedia respinti da Stalin
Nella primavera del 1932 la situazione si era ormai evidenziata in tutta la sua gravità, tanto che qualche dirigente del Partito Comunista ucraino trovò il coraggio di esporre, timidamente e con prudenza, la propria opinione. Ad esempio, il “vecchio bolscevico” Petrovs’ky, presidente del Soviet supremo ucraino, scrisse al Comitato centrale del Partito Comunista ucraino chiedendo espressamente che gli ammassi di grano previsti per l’Ucraina venissero immediatamente interrotti, e che fosse consentito chiedere aiuto, come nel 1921, a organizzazioni internazionali per alleviare la crisi alimentare in corso, avvertendo che, comunque, l’Ucraina non era in grado di consegnare nulla.
Inizialmente non sembrava che Stalin fosse contrario a prudenti misure per limitare gli effetti negativi della politica messa in atto, ma da aprile 1932 la sua chiusura divenne totale. Probabilmente doveva aver ricevuto rapporti dall’Ucraina che evidenziavano critiche molto più drastiche alle sue scelte, e con la sua tipica paranoia aveva ritenuto di essere di fronte a un vero e proprio complotto per staccare l’Ucraina dall’Urss. Nessun aiuto alimentare venne concesso e il Partito Comunista ucraino fu obbligato a far rispettare le quote da consegnare. Durante la Terza Conferenza del partito, Molotov e Kaganovic, in rappresentanza di Stalin, respinsero qualunque richiesta di moderazione, e negarono che l’Ucraina non fosse in grado di dare quanto preteso da Mosca. Alla fine, il partito ucraino si arrese (ma questo non lo salverà dalla vendetta di Stalin) e s’impegnò a raccogliere 5,8 milioni di tonnellate di grano, pur sapendo bene, come lo sapeva Stalin, che si trattava di una cifra irrealistica e che avrebbe spinto alla disperazione e ad azioni “criminali” i contadini.
E, infatti, i furti di grano dalle fattorie collettive aumentarono. Si trattava, evidentemente, di contadini che cercavano di nutrire sé stessi e le proprie famiglie, ma la reazione di Stalin fu spietata. Di suo pugno scrisse un Decreto, datato 7 agosto 1932, sui furti di proprietà pubblica (dello Stato, dei Kolchoz, delle cooperative, ecc.), che era duro anche per gli standard feroci del diritto sovietico. Chiunque fosse colpevole di furto di proprietà dello Stato, in primis dei Kolchoz, sarebbe stato punito con la fucilazione, che avrebbe potuto essere commutata in una pena (nei Gulag) di almeno dieci anni.
Il Decreto venne attuato con durezza inusitata: 4500 giustiziati da agosto a dicembre 1932, oltre 100mila condannati ai campi di lavoro. È evidente che si preferisse usare questa seconda opzione, la privazione della libertà, in modo da alimentare (è il caso di usare questo termine!) l’arcipelago Gulag da dove trarre manodopera schiavile. Eppure, per assurdo, per alcune persone il Gulag fu la salvezza, o comunque evitò le spaventose conseguenze della carestia. Ancora Applebaum 2017 (p. 238) riporta un episodio nel quale una ex contadina, detenuta in Gulag da anni, ricevuto un tozzo di pane piccolo, duro, rinsecchito, lo accarezzava come se fosse un bambino: «Chebluška, mio pezzettino di pane. E pensare che ce lo danno tutti i giorni!».

4.2 Holodomor 1932-33. Le ultime scelte
Le preoccupazioni di Stalin non erano certo dettate dalla possibilità che milioni di persone morissero per colpa sua, ma dal timore di “perdere l’Ucraina”. E per scongiurare questo pericolo riteneva vi fosse un solo modo: continuare nella politica di ammasso del grano, prendendo tutto quello che c’era da prendere, anche se ne sarebbe andata di mezzo la vita dei contadini ucraini. Ovviamente non esiste un ordine esplicito di Stalin in questo senso, come non esiste un ordine esplicito di Hitler per lo sterminio degli ebrei, ma è chiaro che le politiche decise dal signore del Cremlino, sempre informato di tutto quanto stava per accadere, fanno di lui e dei suoi complici i colpevoli di quello che sarebbe successo, e di non essere intervenuti per evitare che la tragedia raggiungesse dimensioni spaventose.
Tra l’altro, anche stretti collaboratori di Stalin, non esattamente dei cuori teneri e men che meno dei “controrivoluzionari” o dei “nazionalisti ucraini”, segnalavano al leader che a fine 1932 in Ucraina stava accadendo qualcosa di mostruoso legato alla fame.
Caucaso settentrionale (etnicamente ucraino) e Ucraina stavano diventando da terre fertili distese desolate dove la gente si trascinava disperata. A nulla valsero queste segnalazioni, che anzi furono viste da Stalin come debolezza se non come complicità con i nazionalisti ucraini, per cui respinse ogni accenno a una carestia. La pioggia di preghiere che arrivavano sino a lui, però, un risultato lo ottenne: fingendo una bonarietà che non gli era propria, Stalin concesse all’Ucraina di consegnare una quantità di grano minore di quella prevista, ma a patto che essa venisse consegnata tutta, senza nemmeno un grammo in meno. Dietro la “benevolenza” c’era ancora una volta un ordine impossibile da eseguire e criminale nelle sue conseguenze. Il Partito Comunista ucraino obbedì e dispose che per l’ammasso andasse consegnato anche il grano che sarebbe servito per la semina futura, quello per dar da mangiare agli animali delle fattorie collettive e individuali, ma anche quello per il consumo quotidiano dei contadini e delle loro famiglie, con una nuova, tragica, alternativa: o consegnare tutto il grano, e aver quindi l’altissima probabilità di morire di fame, o non consegnarlo e allora divenire nemico, kulak, e finire fucilato o in Gulag.
Abbiamo affermato che Stalin non ha lasciato nessuna traccia scritta, e nemmeno orale, che confermi la sua volontà sterminatrice nei confronti degli ucraini. In realtà, non è del tutto esatto: il 1° gennaio 1933 egli, infatti, inviò una lettera ai dirigenti del Partito Comunista ucraino nella quale ordinava che per colpire gli agricoltori, individuali e collettivi, che si presumeva nascondessero grano, si ricorresse alle norme previste dal decreto del 7 agosto 1932. Quindi, chi avesse cercato di nascondere qualcosa per sé stesso e la sua famiglia sarebbe stato passibile di fucilazione o deportazione. O, appunto, di morte per fame. Pochi giorni dopo un nuovo decreto attenuò in apparenza le precedenti decisioni, sostituendo all’ammasso una tassa per i contadini. Solo che quella tassa sarebbe stata in vigore dall’agosto 1933. Per i primi sette mesi dell’anno, invece, si sarebbe ancora proceduto al sequestro di grano, con ovvie conseguenze sulla mortalità dei contadini, afflitti anche dalle esportazioni verso l’estero che, pur riducendosi, continuavano e sottraevano loro cibo prezioso. Ma come fare per realizzare le pretese di Mosca? Il Partito Comunista ucraino, ormai terrorizzato, decise di usare il micidiale sistema delle “liste nere”. Coloro, singoli, fattorie collettive, villaggi, distretti, che non rispettavano le quote assegnate erano inseriti in queste liste rese pubbliche. Non si trattava di una condanna per così dire “morale”, ma mortale. Chi, infatti, veniva inserito, e indicato comunque col nome, in quelle liste, era escluso da ogni possibilità di acquistare qualunque bene di prima necessità, compresi i fiammiferi per accendere il forno dove cucinare un po’ di pane (se era così fortunato da averlo). Ancora peggio: se era un villaggio intero a finire in lista tutti gli abitanti di quel villaggio, pure se non c’entravano nulla con i contadini “colpevoli”, erano espropriati dei loro beni. Ovviamente questa scelta non servì a spingere i contadini a lavorare di più, ma a renderli ancora più soggetti alla fame e quindi disperatamente pronti a fuggire.
Cosa che accadde fino a quando, dicembre 1932, un ennesimo decreto sovietico impose il passaporto interno, vietando gli spostamenti non autorizzati. Non serve molta fantasia a immaginare che ai contadini quel passaporto non sarebbe stato mai concesso. Chi provava a fuggire in città veniva facilmente espulso. Era, infatti, sin troppo facile identificare i contadini affamati: bastava guardare all’aspetto fisico emaciato, ai vestiti a pezzi, alla disperazione negli occhi. Costoro venivano arrestati, portati fuori città e abbandonati al proprio destino.
Molti morivano, ma altri tornavano ancora sino a che la fame non li uccideva. La mattina a Kiev e Charkyv si vedevano camion che raccoglievano i morti e li portavano fuori dalla vista dei cittadini spaventati. Stalin era molto preoccupato dall’impatto politico di queste migrazioni e quindi dispose che ogni contadino trovato fuori dal suo villaggio fosse riportato a forza da dove veniva. Jagoda, allora capo della OGPU, informò Stalin e Molotov che in pochi giorni, dal 22 al 30 gennaio 1933, i suoi uomini avevano arrestato e riportato indietro 24.961 persone, due terzi delle quali provenienti dall’Ucraina, tutte le altre dal Caucaso settentrionale. (Applebaum 2017, p. 262). Ancora una volta furono mobilitati i volontari del partito per trovare “il grano nascosto”. Le testimonianze concordano tutte sui metodi violenti delle “brigate” mandate per le campagne: forniti di lunghe aste con uncini, e di pieni poteri, i componenti delle brigate d’assalto sfondavano tutto quello che trovavano sulla loro strada, convinti che da qualche parte i contadini nascondessero il grano. Ma non solo questo era l’obiettivo: tutto ciò che poteva essere in qualche modo utile a procurarsi cibo poteva e doveva essere sequestrato. Mobili, vestiti, pentole, e, soprattutto, tutto ciò che risultava potenzialmente commestibile. Fanatizzati da una propaganda di odio e spinti dalla paura e dalla speranza di aver vantaggi economici, i volontari, o presunti tali, si abbandonavano alla ferocia più pura, picchiando, torturando e, cosa ancora più vile, rendendo immangiabile quel cibo che non fosse stato possibile portare via. Di solito una sola ispezione non bastava. Convinti che i contadini nascondessero cibo anche fuori casa, i militanti tornavano più e più volte e ripetevano le loro ispezioni sempre più violente.
Alla persecuzione feroce contro i contadini si aggiunse, ancora una volta, quella contro la cultura ucraina. Come detto già alla fine degli anni Venti Stalin aveva ordinato di fermare il processo di ucrainizzazione che era stato voluto da Lenin dopo il 1921. Con due decreti segreti si attribuì la colpa delle innegabili difficoltà della collettivizzazione in Ucraina proprio alla politica di apertura verso la cultura di quella Repubblica. Gli organismi locali ucraini furono accusati di non aver lavorato come dovevano nella polita degli ammassi, in quanto il partito era infiltrato da “controrivoluzionari”. Per questo Stalin diede un primo colpo al Partito Comunista ucraino, facendo le prove generali del Grande Terrore del 1937-38, con arresti e condanne, contestualmente alla messa in atto di una vera opera di distruzione morale e materiale della cultura ucraina a tutti i livelli.
4.3 Holodomor 1932-33. L’orrore imperversa
Ma tutto questo fu poco rispetto a quello che accadde nella orribile primavera ucraina del 1933. In realtà, era già dalla fine del 1932 che la mortalità per fame stava crescendo, ma con lo sciogliersi delle nevi d’inverno la realtà si mostrò in tutta la sua violenza, con un crescendo di morte e disperazione da marzo al maggio di quell’anno funesto.
La fame ha manifestazioni tutte eguali: prima il corpo consuma le sue scorte di zuccheri, mentre la mente si concentra sul cibo. Successivamente, in una fase che può durare settimane, si bruciano le riserve di grasso mentre la debolezza aumenta. Poi il corpo umano divora le proteine che ha in sé, cannibalizzando tessuti e muscoli mentre la pelle diventa sempre più sottile e gli occhi si dilatano. Occhi e ventre si gonfiano perché gli squilibri provocano ritenzione idrica, mentre si viene aggrediti da malattie e infezioni. Infine, giunge la morte (Applebaum 2017, p. 308). Questa descrizione quasi asettica rende poco l’idea di quel che accadde realmente ai contadini ucraini. Più chiaro Vassilij Grossman, che unisce precisione a forza letteraria:
La neve si era ormai sciolta, quando gli uomini cominciarono a gonfiare, era sopraggiunto l’edema da fame: visi gonfi, gambe come cuscini, acqua nelle budella, tutto il tempo a pisciarsi addosso, non avevano neppure il tempo di andare in cortile (…) (Grossman 1970, p. 145).
Inoltre, la fame distrugge la voglia di vivere e fa impazzire, provoca episodi, riportati dalle fonti orali, ma anche dai cupi verbali della polizia segreta, di cannibalismo e necrofagia. Spesso i bambini sono vittime dei genitori che li divorano. Oppure, accadeva che fossero i genitori a raccomandarsi ai figli di nutrirsi dei loro cadaveri. Nei primi giorni di primavera in molti ancora lottavano per vivere, nutrendosi di cani, gatti, topi, marmotte o altri piccoli animali. Poi, quando mancava la forza anche per cacciare queste bestiole, si ricorreva a ciò che la terra genera spontaneamente. Si cucinano rane e rospi, e poi si passa alla corteccia degli alberi, al muschio, alle ghiande, alle formiche, alle foglie, all’erba appena spuntata, alle ortiche, alle patate marce – rarissime e preziose! – dalle quali veniva anche tratto l’amido che veniva fritto (Applebaum 2017, p. 333). Naturalmente, se non passavano le squadre di requisitori, sempre più rari perché anche loro travolti dalla fame ma ancora capaci di colpire chi, non essendo morto, era sospetto di essere accaparratore.
I più fortunati mangiavano pesce che riuscivano a pescare, evitando per quanto possibile di essere attaccati dalla polizia politica, oppure si dedicavano al furto. Nonostante le tremende minacce del decreto del 7 agosto 1932, inoltre, chiunque era in grado di farlo rubava dalle fattorie collettive reagendo con violenza disperata se si veniva scoperti. Infatti, inizialmente la fame induce a comportamenti violenti, aggressivi e dettati da una rabbia disperata e incontrollabile. Ma poi, con l’avanzare della lenta morte per inedia, anche la rabbia finiva e su tutti calava quel silenzio mortale che colpì i soccorritori quando alla fine arrivavano: interi villaggi vuoti, nessun vivo nelle poche case, nessun animale se non i topi che avevano invaso tutto. Nemmeno le foglie degli alberi sembrava avessero la forza di fare un qualunque rumore! Per la fame morivano per primi gli uomini, mentre le donne lottavano ancora per sé stesse e per i figli. Spesso, per non impazzire le madri fuggivano, ma ancor più spesso affidavano agli orfanotrofi i figli in modo da dare loro una speranza. Quelle strutture non erano certo ben organizzate, e il numero sempre maggiore di bambini rendeva tutto più difficile, ma alla fine chi riusciva a entrare in un orfanatrofio o in una istituzione analoga poteva sperare di salvarsi. L’infanzia era un lusso che in quella primavera ucraina non ci si poteva permettere.
Bande di bambini riuscivano a mettere a segno piccoli furti, puniti con severità dalle autorità che li spedivano in “campi di lavoro” e quando il loro numero cresceva eccessivamente si procedeva alla fucilazione (Conquest 1986, p. 335 e p. 341). La descrizione più terribile, che deve essere riportata integralmente perché nulla mostra meglio quello che stava accadendo, si trova in Grossman:
E i (…) bambini! Hai mai visto sui giornali i bambini nei lager tedeschi? Identici: teste pesanti come palle di cannone, colli sottili come quelli delle cicogne, nelle mani e nei piedi potevi vedere il movimento di ogni ossicino, sotto la pelle (…). Lo scheletro era tutto fasciato dalla pelle, tesasi come una garza gialla. Bambini con il viso da ecchietto, tormentato, quasi fossero al mondo da settanta anni, e verso primavera non fu neanche più un viso, somiglia ora a una testolina d’uccello col suo beccuccio, ora al musetto di una ranocchia, con quelle labbra larghe e sottili (…). Non erano più visi umani. E gli occhi, o Signore! (Grossman 1970, p. 145).
Solo nel maggio 1933 Stalin si decise a intervenire e ordinò che l’Ucraina cominciasse ad essere fornita di grano, in particolare di semi per poter avere un nuovo raccolto. Furono presto ridotte le misure repressive contro i contadini, che ora stavano diventando necessari per seminare, ma che erano troppo deboli per farlo. Per una prima emergenza, allora furono mandati ancora attivisti, stavolta non per tormentare ma per seminare, e successivamente fu decisa una politica di ripopolamento di aree rimaste ormai svuotate: una prima ondata di coloni partì dalla vicina Russia, e, pure con difficoltà e ostilità da parte di chi era sopravvissuto, molti rimasero, contribuendo, non volontariamente, al processo di russificazione in particolare del Donbas, come ben osservato dal console italiano Gradenigo, che la collegava alla chiusura dei teatri di lingua ucraina, alla limitazione della musica ucraina solo a tre città e alla fine della ucrainizzazione (Applebaum 2017, p. 365). Successivamente il governo sovietico ritenne utile spostare i contadini ucraini che vivevano ai confini con la Polonia, nelle aree più orientali, lontani da tentazioni politiche che Stalin temeva particolarmente.
Quanti furono i morti? Non è stato possibile dare cifre precise. La statistica non è mai stato il forte dei sovietici, in particolare sotto Stalin, laddove gli statistici finivano spesso fucilati e i censimenti, come quello del 1937, venivano censurati perché i risultati non erano in linea con le pretese del Capo. In più, da un certo momento in poi in Ucraina non si ebbero più certificati di morte, sia perché i morti erano troppi, ed era difficile giustificare tutto con improvvisi malori o epidemie inesistenti, ma anche perché pure coloro che avrebbero dovuto redigere i certificati erano morti di fame o sottoposti a una tale pressione terroristica da non avere il coraggio di dire nulla. Basandosi, comunque, su stime prudenti e analisi statistiche successive, sia Conquest 1986 (pp. 345-354), sia Applebaum 2017 (pp. 350-352) ritengono di poter parlare di circa 4.5 milioni di morti nella sola Ucraina tra il 1932 e il 1933, e di un radicale abbassamento della speranza di vita nel Paese. Una situazione che sarebbe stata rapidamente sfruttata da Stalin per completare la collettivizzazione, stavolta senza resistenze contadine, e per eliminare del tutto, almeno così credeva lui, il sentimento nazionale ucraino sia nella stessa Ucraina sia in Occidente, laddove «negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso (…) gli stranieri, se pure ricordavano il nome dell’Ucraina non riuscivano per lo più a distinguerla dalla Russia» (Applebaum, p. 368).

4.4 Holodomor 1932-33. Occultamento sovietico, cecità occidentale
È facile immaginare che in Urss sulla carestia del 1932-33 cadesse immediatamente la censura più totale. Anche in questo caso nessuno diede un esplicito ordine (che avrebbe ammesso l’esistenza di ciò che non doveva esistere!). Era chiaro che qualunque accenno a quanto accaduto significava mettere in evidenza il fallimento della collettivizzazione voluta da Stalin, e anche confrontare ciò che era stato fatto nel 1921 per aiutare le persone che stavano subendo il flagello, con ciò che, invece, non era stato fatto in questo caso. Chi si fosse fatto sfuggire la parola “carestia”, o analoghe, sarebbe stato accusato, come fu, di parlare da nemico, con le conseguenze del caso. E chi si fosse fatto sfuggire quella parola davanti a Stalin, come accadde a Roman Terechov, uno dei capi del partito in Ucraina, avrebbe subito una brutale reprimenda direttamente dal Capo Supremo e, se fosse stato fortunato, avrebbe perso il posto in tempi rapidissimi. Per i semplici cittadini la polizia segreta era uno spauracchio costante e sufficiente a far tacere chiunque, mentre nelle forze armate erano gli ufficiali a controllare le parole, anche scritte, dei soldati, con minacce di punizioni terribili. Anche coloro che erano stati mandati nel maggio 1933 in Ucraina a seminare subirono la censura preventiva e a cose fatte.
Complicato fu per i sovietici impedire che gli occidentali fossero così “indiscreti” da parlare ad alta voce di quanto stava accadendo. Ma in questo caso non vi fu bisogno di eccessive pressioni: l’Occidente, come al solito, soffriva della sindrome da ammirazione della “Russia” mista a timore reverenziale per i presunti successi sovietici confrontati con la debolezza occidentale. Non erano solo i “veri credenti”, i socialisti puri e duri a voler negare l’evidenza. Gli stessi governi occidentali avevano interesse a non indagare troppo. Tra l’altro, a inizio del 1933, in Germania era salito al potere Adolf Hitler, che in quel momento destava qualche preoccupazione in più di Stalin e faceva desiderare di non peggiorare i rapporti con Mosca. Certo, i rappresentanti diplomatici italiani e tedeschi in Urss vedevano bene quello che stava accadendo, attribuendolo alla volontà di Mosca di cancellare la specificità ucraina e portare avanti la russificazione del Paese, ma i rispettivi governi non avevano interesse ad alzare la voce. In Germania, ovviamente, visto il cambio in corso non c’era tempo e voglia di parlare di Urss, dovendo Hitler rafforzare il suo potere all’interno. In Italia Mussolini sembrava ostentare una certa solidarietà tra dittatori, sia pure di matrice ideologica diversa, ma sempre nemici della democrazia, alla quale si univano forti interessi economici e politici che non favorivano certo l’utilizzo propagandistico delle carestia in Ucraina.
Ma anche le democrazie occidentali non brillarono per attenzione e interesse. La Francia, ad esempio, inviò l’ex Presidente del Consiglio Herritot, che nulla vide e nulla volle vedere. Il governo inglese spiegò in Parlamento che aveva certamente informazioni sulla carestia, ma non riteneva di doverle diffondere per non irritare il governo sovietico. Anche il neopresidente americano Roosevelt nel 1933 non accolse le proteste che gli erano inviate da esponenti della diaspora ucraina, troppo interessato a stabilire feconde relazioni diplomatiche con i sovietici per curarsi degli strepiti di alcuni anticomunisti importuni.
La Realpolitik è triste ma, almeno in parte, comprensibile; molto peggio fu quello che fece, o non fece, la stampa libera, in particolare quella americana. Brilla in negativo la figura del giornalista del New York Times Walter Duranty, che per i suoi articoli sull’Urss ottenne anche il Premio Pulitzer. Certamente la stampa occidentale era tollerata da Mosca, che poteva espellere chiunque in ogni momento e comunque aveva il potere di rallentare o bloccare le spedizioni degli articoli dei giornalisti “ribelli”. Ma Duranty non era tra questi. Convinto che fosse sempre necessario ascoltare l’altra campana, anche quando questa fosse evidentemente stonata o la situazione del tutto chiara, onusto di gloria e vezzeggiato dai sovietici, che gli concessero due interviste all’inavvicinabile Stalin, Duranty non era cieco ma non ritenne necessario scrivere nemmeno una parola sulla carestia e, in sostanza, appoggiando la linea sovietica su tutto il fronte. Questa condotta, più consona a un dipendente del potere che a un orgoglioso giornalista americano, sarebbe stato già grave, ma Duranty fece di peggio, mettendo a disposizione la sua penna, e il suo peso, in favore dei sovietici per rintuzzare quanto scritto da un coraggioso giovane giornalista inglese: Gareth Jones, ventisettenne gallese, ex collaboratore del ministro britannico Lloyd George, che era riuscito a viaggiare, praticamente da clandestino, nell’Ucraina devastata.
Jones vide, ascoltò, scrisse, e dopo essere uscito dall’Urss raccontò al mondo l’orrore che si stava verificando. La reazione sovietica fu rabbiosa, e anche quella dei colleghi di Jones, che rischiavano di perdere onori e favori sovietici per colpa sua. Ci pensò, appunto, Duranty a risolvere le cose. Non è chiaro se fosse sollecitato da Mosca o solo dalla sua vanità, ma resta il fatto che il giornalista americano mise tutto il suo peso per svilire il giovane collega, ironizzando su di lui, negando il valore del suo lavoro, e confermando che se in Urss esistevano problemi nulla autorizzava a parlare di carestia. Duranty era un giornalista affermato, Jones uno alle prime armi. E l’americano offriva l’autorevolissimo «New York Times» come tribuna per la difesa di Stalin.

5. Le responsabilità della strage. La volontà di Stalin
Si pone a questo punto la questione delle responsabilità di quanto accaduto in Ucraina. Ancora oggi c’è chi si ostina ad affermare che la carestia, se vi fu, sarebbe stata comunque dovuta al clima (si parla di siccità e di troppe piogge al contempo) o, comunque, a effetti della guerra (che era finita da oltre dieci anni!). In realtà, non serve essere anticomunisti per capire che responsabile della tragedia è Stalin, ovviamente circondato da tanti volonterosi aiutanti. Ma in un regime come quello sovietico, e dopo il trionfo del potere personale di Stalin almeno dal 1928, è ben difficile non attribuire a lui quanto accaduto in Ucraina.
Il leader sovietico sapeva bene quello che faceva. Gli archivi sovietici conservano rapporti che arrivavano direttamente a Stalin e che egli annotava con grande attenzione, oltre a lettere a lui indirizzate e alle quali spesso rispondeva. Aveva, quindi, chiaro il quadro della situazione. Ma nulla fece per modificarla. Non sospese le esportazioni, non fermò le requisizioni e nemmeno ridusse in maniera sensata le pretese di ammassi di grano. Non mosse un dito per salvare i contadini che morivano di fame, anzi aumentò la pressione in maniera intollerabile. In più: al contrario di quanto fatto da Lenin nel 1921, Stalin non ricorse al soccorso internazionale. Negò quella carestia che avrebbe indicato il fallimento della sua politica. Sapeva quel che faceva, e non serve un pubblico ministero per dirlo. Anne Applebaum scrive al riguardo: «A causare la carestia oggi ricordata come Holodomor furono le reiterate serie di direttive di quell’autunno, relative a requisizioni, liste nere di fattorie e villaggi, controlli ai confini e la fine dell’ucrainizzazione, insieme al blocco delle informazioni e a perquisizioni straordinarie volte a portar via dalle case di milioni di contadini tutto ciò che vi era di commestibile. Il Holodomor, a sua volta, sortì il risultato prevedibile: il movimento nazionale ucraino sparì completamente dalla politica e dalla vita pubblica sovietiche» (Applebaum 2017, p. 247), ma non dai timori sovietici e post-sovietici, come scrive acutamente la stessa Applebaum 2017 a pagina 208:
La paranoia di Mosca sul potenziale controrivoluzionario dell’Ucraina sarebbe sopravvissuta anche alla Seconda Guerra Mondiale, perdurando fino agli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Essa fu installata in ogni successiva generazione di agenti della polizia segreta (…), come in ogni successiva generazione di leader del partito. E non è escluso che abbia contribuito a informare il pensiero dell’élite post-sovietica ben dopo la scomparsa dell’Urss.
5.1 Genocidio?
È, quindi, difficilmente discutibile non solo che Stalin sia responsabile ma che sapesse bene quello che faceva e che avesse obiettivi che andavano oltre la “semplice” raccolta di grano. Fu una politica scientemente genocida. Ma fu genocidio? E se sì chi ne fu vittima? Quando accadevano i fatti sopra narrati, lo stesso concetto non esisteva, in particolare se si faceva riferimento all’attacco di uno Stato contro un gruppo etnico o nazionale, e non era previsto in nessuna legge internazionale; ma dopo il Processo di Norimberga, che pure non usa espressamente questo termine, si era sentita la necessità di definire cosa fosse, appunto, “genocidio”.
La parola nasce proprio in Ucraina, precisamente nella città di L’viv, e fu dovuta al giurista Raphael Lemkin, combinando il termine “genos” (etnia, nazione) e il suffisso latino “-cidio” (“uccisione”). In uno studio, pubblicato in America nel 1944, nel quale affermava che
in termini generali, genocidio non significa necessariamente distruzione immediata di una nazione, se non quando è compiuto tramite l’uccisione in massa di tutti i suoi membri. Il termine è inteso piuttosto a designare un piano coordinato di azioni diverse mirante alla distruzione di fondamenti essenziali della vita di gruppi nazionali, allo scopo di annientare i gruppi stessi. Gli obiettivi di un simile piano sono la disintegrazione delle istituzioni politiche sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e dell’esistenza economica di gruppi nazionali (..). Il genocidio è diretto contro il gruppo nazionale in quanto entità, e le azioni che implica sono dirette contro gli individui non nella loro qualità di individui, ma in quanto membri di un gruppo nazionale (citati da Applebaum 2017, pp. 433-434).
Questa descrizione appare congrua con quanto accadde in Ucraina, ma le analisi giuridiche, etiche e storiche non potevano reggere al vento di Guerra Fredda che soffiava con sempre maggior forza. L’Urss era uno dei Paesi vincitori e non avrebbe mai accettato che nella Convenzione ONU per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio venissero inserite clausole che potevano evocare la carestia o la “dekulakizzazione”. Per questo si preferì (e anche Lemkin approvò temendo che altrimenti non si sarebbe giunti a nulla) una definizione più ristretta e ”organicamente legata al nazifascismo” (Applebaum 2017, pp. 435). In pratica si ritenne che genocidio indicasse solo la distruzione fisica di un intero gruppo etnico. Ora, è chiaro che Stalin non ha mai puntato alla distruzione di tutti gli ucraini, e nemmeno di tutti i contadini, ma intendeva piegare le resistenze alla sua politica di collettivizzazione e, al tempo stesso, rendere quanto meno pericoloso possibile per il suo potere il nazionalismo ucraino, tramite la distruzione fisica. Che si tratti, quindi, di genocidio sembra ormai indiscutibile, anche se l’attualità mette di nuovo tutto in gioco, con la negazione che dal 2014 la Russia sta facendo della stessa esistenza della carestia del 1932-33 e con la giustificazione delle sue aggressioni all’Ucraina del 2014 e 2022, basata anche su una lotta al “genocidio” che gli ucraini avrebbero compiuto contro i russi. Nonostante ciò, al di fuori della propaganda, quel che si può seriamente discutere è contro chi fu scatenato il genocidio. Secondo Conquest 1986 e Applebaum 2017 esso sarebbe stato diretto contro la nazione ucraina nel suo complesso. Da questa posizione dissente l’autore della postfazione al libro di Conquest, lo storico Ettore Cinnella, il quale contesta proprio la visione di Conquest, che voleva i contadini baluardo del nazionalismo ucraino, e per questo obiettivo di Stalin. Secondo Cinnella non vi sono prove che la carestia sia stata voluta per stroncare la resistenza nazionale ucraina. Non esiste prova di un genocidio nazionale, e la fame fu usata come arma anche altrove, ad esempio contro i cosacchi del Caucaso settentrionale, attaccati come cosacchi e non come ucraini, e in Asia contro i nomadi. Si trattò, quindi, di un genocidio contro i contadini, fossero ucraini, cosacchi, o di ogni altra etnia, in quanto classe irriducibilmente nemica dei marxisti.
5.2 Holodomor: la parola e la cosa
Resta il fatto che il genocidio per fame del 1932-33, legato alla guerra e alla cultura ucraina, è ormai chiaramente identificato con quella parola specifica di cui si è già parlato: Holodomor, morte per fame causata scientemente. Perché si è avvertita la necessità di usare questa parola, non bastando non solo “carestia”, troppo legata a circostanze casuali, e nemmeno “genocidio”, che abbiamo visto essere comunque applicabile a quanto accaduto in Ucraina? Perché la memoria è il nome e la cosa. Dare un nome è impedire la cancellazione delle vittime annegate nel corso inesorabile del tempo. Dare un nome è impedire che la memoria si perda, e che pure quando la memoria si sia perduta resti il comandamento di ricordare, per dirla come Primo Levi. Dare un nome è definire in senso letterale del termine e definire un genocidio non è svilirne un altro, quasi fosse una sorta di “pareggio” di crimini (nazifascisti da un lato, comunisti dall’altro, alla fine tutti eguali!). Non è così; Holodomor non rivaleggia con Shoà ma evidenzia che gli eventi unici restano ciascuno unico, ma non sono così rari come pensiamo, soprattutto nel XX secolo, quello dei genocidi. Che quanto accaduto in Ucraina meritasse un nome proprio era già chiaro negli anni Trenta del XX secolo, quando in documenti della diaspora ucraina fu usato il neologismo Haladamor, con significato simile a Holodomor, che, invece sarebbe stato usato in pubblico per prima volta, scrive Applebaum 2017, p. 451, nell’Ucraina ancora sovietica nel 1988. Da allora la parola e il concetto hanno preso sempre maggior forza e credibilità sia in Ucraina ma anche al estero, come conferma il voto del 23 ottobre 2008 del Parlamento europeo che riconosce l’esistenza del genocidio ucraino e lo definisce, appunto, Holodomor, affermando tra l’altro che il Parlamento
riconosce l’Holodomor (la carestia artificiale del 1932-1933 in Ucraina) quale spaventoso crimine contro il popolo ucraino e contro l’umanità.
Il nome e la cosa, quindi, perché le parole servono e salvano dalla perdita della memoria e dalle falsificazioni e relativizzazioni che possono uccidere non solo il passato
Nota
1 Per questo articolo sono stati utilizzati i seguenti volumi. Nelle citazioni viene indicato il cognome dell’autore e l’anno di pubblicazione in lingua originale.
Applebaum, A., La grande carestia. La guerra di Stalin all’Ucraina, Mondadori, Milano 2019 (1a edizione in lingua inglese 2017).
Bulgakov, M., Il Maestro e Margherita, Einaudi, Torino s.d. (1a edizione in russo censurata 1966-67; 1a edizione in russo integrale, pubblicata da Einaudi, 1967; 1a edizione italiana (Einaudi) 1967).
Bulgakov, M., La guardia bianca, Feltrinelli, Milano 2012.
Chlevnjuk, O. V., Stalin. Biografia di un dittatore, Mondadori, Milano 2016.
Cinella, E., Ucraina, il genocidio dimenticato 1932-1933, Della Porta Editori, Pisa 2015.
Conquest, R, Raccolto di dolore. Collettivizzazione sovietica e carestia terroristica, Edizioni Liberal, Milano 2004 (1a edizione in lingua inglese 1986).
Conquest, R., Il grande Terrore, Rizzoli, Milano 2016 (1a edizione 1968).
D’Alessandro, R., Holodomor. Primavera in Ucraina, Armando Editore, Roma 2020.
Gogol, N. V., Taras Bulba e gli altri racconti di Mirgorod, Garzanti, Milano 2020.
Graziosi, A., L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica. 1941-1945, il Mulino, Bologna 2007.
Grossman, V., Tutto scorre…, Adelphi, Milano 2022 (fu scritto in russo tra il 1955 e il 1963 ma venne pubblicato dopo la morte dell’autore in Germania Occidentale nel 1970; 1a edizione italiana 1987. Pubblicato per la prima volta in URSS nel 1989).
Grossman, V., Vita e destino, Adelphi, Milano 2015 (1a edizione in russo – pubblicata in Svizzera, con molte lacune 1980; 2a edizione tradotta dalla 1a pubblicata in Unione Sovietica e completa 1992; 1a edizione in Urss 1990; 1a edizione italiana 2008).
Koeslter, A., Buio a mezzogiorno, Mondadori, Milano 2020.
Montefiore, S. S., I Romanov 1613-1917, Mondadori, Milano 2017.
Orwell, G., La fattoria degli animali, Mondadori, Milano
Pasternak, B., Il dottor Zivago, Feltrinelli, Milano 2018. Puskin, A., Umili prose, Feltrinelli, Milano 2022.
Turgenev, I. S., Memorie di un cacciatore, Garzanti, Milano 2020.

Immagine di copertina: Il memoriale per le vittime dell’holodomor a Washington, opera di Larysa Kurylas. Le altre immagini che illustrano l’articolo sono tratte da Голодомор в Україні (1932—1933)

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