In questi ventidue anni Vladimir Putin ha modellato il sistema politico russo, ridefinendo i tratti distintivi del suo regime e modificando gli equilibri tra i diversi poteri dello Stato. Per comprendere l’evoluzione dello scenario politico russo, tra sanzioni, invasione dell’Ucraina e l’azione di repressione totale dei media, della società civile e dell’opposizione, abbiamo parlato con Andrei Kolesnikov, senior fellow presso il Carnegie Endowment for International Peace. La sua attività di ricerca si focalizza sui trend più significativi in grado di plasmare la politica interna russa e, in particolare, sui cambiamenti ideologici che caratterizzano la società.
Per molti anni è stato giornalista politico ed editorialista, lavorando, tra l’altro, in qualità di vice di Dmitry Muratov, Direttore della Novaya Gazeta e premio Nobel per la pace.
Kolesnikov è autore di numerosi saggi sulla storia dell’ultima fase dell’Unione Sovietica e delle riforme dell’epoca post-sovietica, tra cui le biografie dei principali riformatori russi quali Yegor Gaidar e Anatoly Chubais. È, inoltre, vincitore del Gaidar Prize per il suo contributo allo studio della storia.

“Quante cose aveva visto la Russia nei mille anni della sua storia. […] Una sola cosa la Russia non aveva visto in mille anni: la libertà.”, scrisse Vasily Grossman in Tutto scorre. Dall’inizio della storia della Russia contemporanea, nel 1855, ad oggi, il Paese ha visto il susseguirsi e il sovrapporsi di molti regimi politici e sistemi socioeconomici: dalla servitù della gleba al capitalismo post-socialista, dall’assolutismo autocratico, attraverso il regime totalitario, alla democrazia post-sovietica.
Masha Gessen, nel prologo del suo saggio Il Futuro è storia, afferma che dai trenta ai cinquant’anni ha documentato “la morte di una democrazia che non era mai veramente nata”, domandandosi perché la libertà non sia mai stata “abbracciata” o la democrazia non sia mai stata “desiderata” in Russia. A suo avviso, in oltre centosessant’anni, è possibile identificare un punto fermo – o più di uno – nel percorso storico in cui la Russia avrebbe avuto la possibilità di diventare davvero libera e democratica?
Nei nostri dibattiti sono due le scuole di pensiero. La prima ritiene che le fasi di liberalizzazione nella storia russa siano rare deviazioni dalla “linea generale” dispotica. Ad esempio, l’eminente filosofo Merab Mamardashvili sosteneva questo punto di vista. L’altra insiste sul fatto che la Russia è un Paese come tutti gli altri, che quello russo è proprio come tutti gli altri popoli che, di tanto in tanto, tendono a cadere nel populismo, nel nazionalismo e nella barbarie, seguendo la guida di leader autoritari e perseverando nei propri principi. Il mio amico, professore alla European University di San Pietroburgo, Dmitri Travin, sostiene tale idea. La verità sta nel mezzo e sono stati scritti molti ottimi saggi sui fattori storici che hanno influenzato il costante ritardo della Russia rispetto ai Paesi occidentali, la sua separazione da questi ultimi, la sua enfasi sulle esportazioni monoprodotto e sull’intervento dello stato nell’economia – da James Billington con il suo “Icon and Axe” a “Internal Colonization” di Alexander Etkind.
Quando oggi molti dicono che i russi sono particolarmente crudeli e autoritari, si tratta di una semplificazione. È completamente sbagliato dire che tutti sostengono Putin e, dunque, siamo tutti collettivamente responsabili per lui. È come dire che tutti i lituani sono responsabili dell’Olocausto nel loro Paese o che tutti gli italiani sono seguaci di Mussolini. Ma una cosa è vera: vi sono circostanze storiche che hanno separato la Russia dall’Occidente, costringendo la popolazione a sottomettersi alla volontà dei dittatori.
La storia della Russia è caratterizzata da una forte personificazione e, nel contempo, è complessa: tutti i cambiamenti sono sempre avvenuti dall’alto e tutto ciò che è giunto dal basso è stato eliminato. I punti di svolta si sono verificati molte volte, ma qualcosa ha sempre impedito il progresso delle riforme – a tale proposito, su questo tema è stato appena pubblicato il mio ultimo libro (con il sottotitolo The sources of the Russian modernization and the Heritage of Yegor Gaidar). Naturalmente la liberalizzazione è stata possibile sotto Alessandro II, con la Nep, sotto Khrushchev e nel periodo delle riforme di Kosygin (gli anni Sessanta sono stati un periodo speciale nella storia sovietica), senza dimenticare il periodo di Gorbachev e Yeltsin. Una svolta verso la normalizzazione dopo il “congelamento” di Putin è stata possibile anche sotto il presidente Medvedev, ma per una serie di ragioni non è avvenuta.
La Russia è sotto pressione a causa di un’eccessiva personalizzazione della sua storia e del suo passato imperiale. Il Paese è divenuto normale, capitalista in senso consumista. Ma non ha accettato i valori universali come propri e qui risiede il grande dramma del disprezzo di massa nei confronti della democrazia.
Se i liberali e la famiglia Yeltsin non avessero cercato di controllare la storia e politici come Putin non fossero apparsi in Russia, oggi vivremmo in un Paese normale con cittadini russi “normali”, tutt’altro che militanti.
Focalizziamo ora la nostra attenzione sull’evoluzione del regime di Putin. In questi ventidue anni, mentre gli analisti occidentali discutevano dei concetti di “democrazia guidata” e “democratura”, il Cremlino ha ridefinito il contesto politico, trasformando la Russia in un sistema autoritario ibrido e poi in un regime autoritario “maturo”, attraverso una crescente azione di repressione nei confronti degli oppositori politici, dei media indipendenti e della società civile, una legislazione repressiva, la completa epurazione dell’arena politica, le detenzioni e la criminalizzazione dell’organizzazione di Navalny, etichettata come estremista. Tuttavia, la transizione era ancora in corso. Come da lei indicato in una delle sue recenti analisi, anche prima dell’invasione dell’Ucraina il sistema era divenuto ciò che il sociologo Lev Gudkov ha definito “totalitarismo ricorrente”. Lei ha affermato, inoltre, che il termine corretto per descrivere il regime è “totalitarismo ibrido” in quanto alcuni elementi che caratterizzano l’autoritarismo sono stati mantenuti. Secondo lei, perché i circoli di sinistra occidentali, salvo eccezioni, si sono accorti di questa transizione solo dopo il 24 febbraio? Quali fattori chiave potrebbero definire un sistema politico basato sul “totalitarismo ibrido”?
Probabilmente non parlerei di sinistra, ma, in linea di principio, di quelli che hanno visto in Putin un tipo di leader alternativo e ambito che non accetta il liberalismo e i valori occidentali e agisce senza preoccuparsi delle norme di decenza e coesistenza. Non solo queste persone e forze non credevano che Putin stesse deviando dalla norma, ma erano convinte, come del resto lui stesso, che il leader russo stesse impostando nuove regole. Tuttavia, non vi sono regole. Vi sono dispotismo, potere assoluto e impunità. Avendo represso qualsiasi tipo di resistenza civile nel suo Paese, di cui è diventato re, si è reso conto che questo non era abbastanza per lui – era tempo di conquistare il mondo. In tal senso, Putin è la classica figura del cattivo dei cartoni che desidera il dominio del mondo.
Personalmente, mi è stato subito tutto chiaro. Nella primavera del 2000 ho pubblicato un editoriale su Putin alludendo al film “Un tè con Mussolini” di Franco Zeffirelli. Ma al tempo i miei colleghi liberali non intravedevano il pericolo insito nella costruzione da parte di Putin di uno stato corporativo. Ecco la cosa strana: sono sicuro che Putin non ha subito un’evoluzione ideologica, aveva solo le mani un po’ legate all’inizio e ha cercato di agire secondo le regole. Nel 2003, quando ha arrestato Khodorkovsky, tutto era ormai chiaro. Nel 2007 vi è stato il discorso di Monaco, poi il suo ritorno nel 2012 e la Crimea nel 2014, l’azzeramento del numero dei mandati presidenziali e l’avvelenamento di Alexei Navalny nel 2020, la brutale repressione delle proteste nel 2021, la liquidazione dei custodi della memoria nazionale – la “Memorial” Society nel dicembre del 2021 – e poi l’invasione, l’apice della sua evoluzione.
Il sistema di Putin non è interamente totalitario. E non richiede solo un’obbedienza silenziosa, ma anche aperto sostegno. In ogni caso, nei settori e nelle aziende che dipendono dallo stato e dal suo bilancio. Il suo sistema incoraggia le denunce, “l’autopulizia”, la lotta contro “i traditori della patria”. La legge sugli agenti stranieri viene continuamente inasprita, ora anche le persone che sono, senza che vi sia alcuna prova, “sotto l’influenza straniera” possono essere considerate agenti stranieri. Questi sono elementi di uno stato totalitario.

Secondo Hannah Arendt, i regimi totalitari come quello nazista o sovietico erano basati, in estrema sintesi, sulla combinazione di terrore, come strumento permanente di governo, e ideologia, come principio permanente d’azione. Il partito unico di massa, la polizia segreta, l’isolamento e l’estraniazione degli individui, il completo controllo dei mass media, solo per citarne alcuni, sono elementi distintivi del totalitarismo, sempre collegati al binomio terrore/ideologia. Gli studi della Arendt possono essere applicati solo ai regimi sopraindicati, mentre altri autori e politologi – Friedrich e Brzezinski, ad esempio – hanno ampliato l’interpretazione del concetto di totalitarismo. In considerazione del contesto storico differente e alla luce della drammatica evoluzione del regime di Putin avvenuta in questi anni, vi è un comune denominatore per identificare specifiche analogie tra la governance della Russia contemporanea e i regimi totalitari del passato?
Lo stalinismo, ovviamente, non è scomparso dalla società russa. Non c’è stato alcun pentimento nazionale. La popolarità di Stalin è cresciuta, mentre il regime di Putin è diventato più autoritario. Per molti il periodo staliniano e i relativi metodi sembrano un esempio di governo adeguato. Tutto questo è molto grave. Quando i miei colleghi affermano che lo stalinismo non ha nulla a che fare con tutto ciò, sono fortemente in disaccordo. La destalinizzazione non è stata completata sotto Khrushchev, Gorbachev e poi Yeltsin – questo richiedeva un lavoro intellettuale e spirituale da parte della nazione. E questo lavoro non è stato fatto. E il risultato è che siamo a questo punto.
Negli anni Cinquanta Zbigniew Brzezinski, in collaborazione con Karl Friedrich, sviluppò la teoria della dittatura totalitaria e dell’autocrazia. Secondo la sua concezione, nell’autoritarismo l’elemento principale sono i divieti e vi è consapevolezza di ciò che le persone non dovrebbero fare. Il totalitarismo, invece, combina divieti e imperativi, prescrizioni: ossia, i soggetti sono obbligati a sapere non solo cosa non devono fare, ma anche cosa devono fare, in linea con gli ordini diretti dello Stato. Non sono importanti solo la repressione e il controllo, ma anche la mobilitazione delle masse in un contesto di obbedienza preventiva.
Gli elementi alla base del rapporto tra Stato e società si sono manifestati “a pieno regime” subito dopo l’inizio dell’“operazione speciale”. Non basta più smobilitare per mantenere il silenzio: bisogna esprimere a gran voce il proprio sostegno al regime. Bambini negli asili allineati a forma di Z, lezioni sui metodi di contrasto alle fake nelle scuole, alunni e studenti incoraggiati a denunciare insegnanti e professori e viceversa.
L’appello del primo cittadino dello Stato all’“autopulizia” della società non è una pratica autoritaria, ma totalitaria. Anche la divisione dei cittadini in “patrioti” buoni e “traditori della patria” cattivi, la “quinta colonna” sono pratiche totalitarie. In altri casi, non basta essere silenti “a supporto di”: bisogna far sentire la propria voce e mostrare lealtà. Questo è il tratto distintivo di un buon cittadino. Più precisamente, non un cittadino, ma un suddito.
La misurazione del dissenso è un altro tema strategico, soprattutto dopo l’invasione dell’Ucraina. I russi rischiano la reclusione fino a quindici anni in caso di diffusione di informazioni non in linea con la posizione del governo sull’“operazione militare speciale”. Detto questo, secondo alcuni analisti, per molte persone è difficile esprimersi contro la guerra quando sono in gioco lavoro e vita. In base ai sondaggi del Levada Center, l’ultimo indice di gradimento di Putin era pari all’83 per cento in giugno. In tale contesto, questo indice avrebbe anche senso, anche se l’opinione pubblica internazionale trova difficile credere che tutti i russi siano complici degli orrori e delle atrocità (deportazioni, genocidio, crimini di guerra etc.) perpetrati dal governo in Ucraina. Tra mobilitazione forzata, richiesta dalle autorità come prova di lealtà, a supporto delle azioni del Cremlino, e “conformismo passivo” della maggioranza vi è una linea sottile. Anche rimanere in silenzio nella Russia di oggi, per paura o indifferenza, de facto, potrebbe portare a una tacita approvazione di ciò che sta accadendo nel Paese e, in questo caso, in Ucraina. Escludendo gli attivisti dell’opposizione e molte persone che sono scese in piazza a protestare, rischiando la propria vita, vi è un reale dissenso tra i russi? Come si possono applicare i concetti di “responsabilità politica collettiva” e di “colpa morale e/o legale” all’attuale contesto sociopolitico russo?
I francesi si sentono colpevoli o almeno responsabili a livello collettivo per il successo elettorale del movimento di estrema destra? Penso di no. Lo stesso vale per una parte della società americana. Tutti gli americani sono responsabili del fenomeno Trump? Probabilmente no. Ma la democrazia americana ha una rete di sicurezza chiamata “rotazione del potere”. Putin ha disattivato questo meccanismo in Russia.
I russi sono diventati consumatori, ma non cittadini. Un elemento che è stato fatto emergere nei cittadini stessi di proposito. Soprattutto a Mosca, la città più ricca, che aveva le migliori premiere, le migliori mostre, i migliori ristoranti, i migliori posti di lavoro. E se tutto questo esiste senza democrazia, a cosa serve la democrazia? Si scopre che senza di essa il progetto di modernizzazione autoritaria fallisce completamente.
Tuttavia, analizziamo i dati di base: secondo il Levada Center, poco più del settanta per cento degli intervistati sostiene l’operazione. La metà degli intervistati, invece, “indubbiamente” la sostiene, un altro trenta per cento è esitante, aderendo alla corrente mainstream per paura o perché non ha un’opinione personale e vuole essere un “buon cittadino”. La nazione non è rafforzata, ma divisa dalla guerra. Alla polarizzazione delle opinioni si affianca la loro radicalizzazione. Coloro che si oppongono alla guerra non sempre hanno il coraggio di esprimere pubblicamente le loro opinioni, ma sono molti. Spesso per le strade di Mosca la gente mi viene incontro e mi dice semplicemente “Grazie”, senza spiegare cosa intenda. È comprensibile: io intervengo spesso su YouTube esprimendomi contro la guerra e loro condividono questa posizione. Certo, è una resistenza tacita, ma è quella che ha portato al crollo dell’Unione Sovietica.

L’atteggiamento del Cremlino nei confronti della storia è stato molto controverso in questi anni, dal costante revisionismo alle nuove linee guida per i libri di testo, dalla riabilitazione di Stalin alla glorificazione di un passato militare basato sulla Grande Guerra Patriottica, fino alla persecuzione e alla “liquidazione” di “Memorial”, per non parlare della decisione di Putin di ordinare alle scuole russe di nominare appositi “consiglieri patriottici” per instillare “valori spirituali-morali” negli studenti durante la guerra in Ucraina. Secondo Maxim Trudolyubov, senior fellow presso il Kennan Institute ed Editor-at-Large di Meduza, “il tempo non guarisce le vecchie ferite. Dobbiamo superare non solo la sindrome del ‘vincitore’ del Cremlino, ma anche ogni sorta di atteggiamento al di fuori del Cremlino che ci ha impedito di affrontare il nostro passato in tutta la sua gravità. Viviamo in un enorme armadio pieno di scheletri”. Secondo lei, in che modo la società civile sta affrontando il passato? E, soprattutto, come sarà il futuro se i russi decideranno di unirsi al “Noi” – una massa anziché una comunità di persone – immaginato dallo scrittore Yevgeny Zamyatin nel suo romanzo distopico?
Il passato è il problema più doloroso, compresa la questione dell’identità nazionale basata sull’interpretazione ufficiale della storia. Non è un caso che l’invasione dell’Ucraina sia stata preceduta dalla liquidazione di “Memorial”, la più antica organizzazione civile che preserva la memoria dei crimini di Stalin. Distruggere “Memorial” significava distruggere la memoria nazionale. Questo è esattamente ciò che le autorità volevano: colmare sistematicamente i vuoti nell’ambito della trasmissione della memoria nazionale con la storia mitologizzata. A tale scopo, vi sono due organizzazioni pro-Cremlino: la Russian Historical Society e la Russian Military Historical Society. Sono supervisionate da Naryshkin, capo dei servizi di intelligence, e da Medinsky, collaboratore del presidente ed ex ministro della Cultura. La storia mitologizzata si sta facendo strada nelle scuole. E il principale insegnante di storia è Putin stesso.
È molto difficile per la società civile contrastare la massiccia propaganda statale di un’unica versione della storia, che già include il “riconoscimento dell’indipendenza” del Donbas. Molto dipende dalla conservazione della memoria privata, la memoria delle famiglie. Ma nel regno della storia, proprio come in politica, è più facile per il cittadino medio unirsi al “Noi” collettivo dell’ufficialità di stato che capire in autonomia cosa sia successo al Paese. L’ignoranza e l’indifferenza sono grandi alleati di Putin.
Nelle ultime settimane abbiamo assistito a un lungo dibattito sulla vulnerabilità del regime in relazione alle sanzioni imposte dall’Occidente, per non parlare di tutte le congetture sulla salute di Putin. Tatiana Stanovaya su The Moscow Times ha sostenuto che, in caso di morte di Putin, “‘il ‘quando’ è più importante del ‘se’”. In particolare, la tempistica di questa possibile “dipartita” è cruciale per capire chi verrà dopo: un successore conservatore o un riformista. Secondo Stanovaya, “prima Putin muore, maggiori sono le possibilità di una revanche conservatrice”. Considerato che il “Putin collettivo”, per quanto ne sappiamo, esiste ancora, i circoli di potere vicini a Putin (soprattutto i siloviki) come hanno ridefinito il proprio ruolo nella verticale del potere? Il putinismo sarà in grado di sopravvivere a potenziali cambiamenti politici nel medio periodo?
In generale, la domanda è se il putinismo sopravviverà a Putin. Di fatto, l’intera storia di Putin è una storia di revanche conservatrice di successo. È già avvenuta ed è radicata in un sistema politico che continua a reprimere tutto ciò che non è conservatore.
Putin ha creato un sistema personalistico e, di conseguenza, attorno a lui non vi sono figure politiche realmente pubbliche. La maggioranza obbediente è più propensa ad accettare il suo modello di successione, che ha già funzionato una volta nel caso di Medvedev. Nonostante sia già in atto la corsa dei favoriti – Medvedev, Kiriyenko, Volodin, Patrushev – questo non significa che siano considerati davvero degli eredi. Inoltre, il sistema è fagocitato, provocando una selezione negativa e sovraccaricandosi di nuovi task gestionali e spese statali (“ricostruire” l’impero necessita di risorse finanziarie e umane). Putin faticherà a scegliere un successore completamente fedele.
Il franchismo è sopravvissuto al Caudillo Franco, ma era, comunque, condannato. Qualcosa di simile accadrà nella Russia post-Putin. La storia russa dimostra che la liberalizzazione ha seguito inevitabilmente la dipartita dei tiranni. I periodi di Khrushchev e Gorbachev ne sono la prova.
Le elezioni governatoriali russe si terranno, salvo “imprevisti”, l’11 settembre in quindici soggetti federali. Secondo fonti vicine al Cremlino, riportate da Meduza all’inizio di giugno, Sergey Kiriyenko ha “personalmente convinto Putin” a non annullare le elezioni: “Se le elezioni vengono annullate, significa che qualcosa sta andando storto nel Paese, che le autorità hanno paura dei risultati”. A maggio Putin ha nominato i governatori ad interim di cinque regioni (Kirov, Ryazan, Saratov, Tomsk e la Repubblica di Mari El) dopo che i loro predecessori avevano annunciato di volersi dimettere. La cosiddetta “gubernatoropad”, “la pratica di cambiare i governatori nelle regioni potenzialmente problematiche mesi prima delle elezioni” per “evitare voti di protesta contro i governanti impopolari in carica”, è considerata da alcuni analisti un segno di normalità. Non dimentichiamo che i governatori vengono eletti, ma sono politicamente subordinati al Cremlino. Secondo lei, le autorità come “gestiranno” l’equilibrio di potere in queste regioni, considerate tutte le criticità connesse (la scarsa popolarità di Russia Unita, ad esempio)? E quali regioni potrebbero avere un impatto cruciale sull’attuale scenario politico ed economico?
La società è disorientata, frammentata, demotivata e, in tempo di guerra, si affida al potere e lo sostiene. Per il potere le elezioni sono uno strumento importante per dimostrare che è ancora sostenuto dalla maggioranza e controllato dall’organo supremo. Quindi, le procedure elettorali sono un atto di propaganda e di psicoterapia. Non credo che vi saranno sorprese alle elezioni. Le sorprese sono possibili in luoghi in cui non sono previste e in circostanze, ad oggi, ignote. Nessuno poteva prevedere le proteste del 2020 a Khabarovsk. E le proteste potrebbero non essere politicizzate, almeno all’inizio. La società civile esiste ancora. “La Russia è un Paese di opportunità” è lo slogan della società responsabile della selezione dei nuovi tecnocrati. Ma la Russia è anche la terra dell’imprevisto.

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