Se la sinistra latinoamericana dovesse fare un suo bilancio, sarebbe in rosa. Tanto più che pare essere questo il colore predominante di quell’onda che dall’inizio dell’anno ha dilagato dall’Honduras al Cile, e che dalla Colombia sembra passare il testimone al Brasile con Lula favorito. Se il 2 ottobre anche il gigante carioca confermerà i pronostici, l’intera area, abitata da circa seicentocinquanta milioni di abitanti, avrà cambiato politicamente i connotati.
Tra le varie sfaccettature in cui si declina l’eterogenea sinistra latinoamericana, la vera sfida vedrà impegnata quella che per comodità potremo chiamare nuova sinistra, quella che coniuga riforme sociali e rispetto delle libertà e delle regole democratiche, ridistribuzione della ricchezza, diritti della persona e ragioni ambientali. Quelle forze progressiste che, dopo un breve periodo in cui hanno governato le destre che non sono state capaci di affermare la loro egemonia com’era accaduto col neoliberismo negli anni Novanta, sono tornate al potere dando vita ad un nuovo ciclo politico in condizioni questa volta più difficili. Così, negli ultimi trent’anni, ondata su ondata, l’America Latina è passata dall’egemonia neoliberale alla sinistra. E da lì di nuovo, per un breve periodo, alla destra.
Quella che ora occupa il palcoscenico è una sinistra che potrà contare più sulla scarsità che sull’abbondanza, con l’ausilio della quale hanno governato i vari esponenti da Chávez in poi nei primi due decenni del secolo. È una sinistra consapevole delle sfide che dovrà affrontare in condizioni economicamente e socialmente più difficili, ponendosi il problema del superamento dell’economia estrattivista e della lotta al cambiambento climatico. Temi sconosciuti alla sinistra che l’ha preceduta. Oltre a quello storico del superamento delle disuguaglianze che rendono l’America Latina politicamente e socialmente instabile.
L’aspetta un compito immane. Se dovesse fallire, aprirebbe la strada alla destra e fornirebbe giustificazioni all’autoconservazione della “sinistra giurassica” – come l’ha definita lo scrittore Sergio Ramírez, riferendosi al Venezuela, a Cuba e al suo Nicaragua – servendole su piatto d’argento il pretesto per continuare a proporre un modello ormai considerato superato dalla storia e non praticabile per le grandi masse di latinoamericani desiderosi di giustizia sociale, ma non per questo disposti a vedere conculcate le proprie libertà.
Partendo dal Cile dove da qualche mese opera un governo progressista tra mille difficoltà e incognite, passeremo alla Colombia, dove Gustavo Petro, primo presidente di sinistra nella storia del Paese, assumerà il potere il prossimo 7 agosto. Per finire con il Brasile, dove, salvo sorprese o colpi di mano, sembra al capolinea l’era infausta di Jair Bolsonaro che apre la strada al sempreverde Luiz Inácio Lula da Silva.

CILE
Gabriel Boric ha assunto la presidenza del Cile l’11 marzo scorso ereditando un Paese spaccato politicamente, fiaccato dall’epidemia, impoverito dalla crisi economica, con un’inflazione dell’undici per cento a fine anno che si somma all’impennata del dollaro che recentemente al cambio è attorno ai mille pesos.
Le ragioni dell’ondata inflazionistica sono prevalentemente esterne e riguardano la crescita dei combustibili dovuta alla crisi ucraina e a problemi nella catena di rifornimento provocati dalla pandemia. Ma pesano anche alcuni fattori interni, come l’incertezza politica dovuta al processo costituente, e ad alcune misure che nel 2021 hanno surriscaldato l’economia spingendo i consumi.
Nei primi giorni del suo governo Boric ha dovuto affrontare la radicalizzazione e la violenza scatenata da minoranze mapuche e il problema della crescente criminalità legata al traffico di migranti provenienti dall’area latinoamericana, in prevalenza dal Venezuela. Per quanto riguarda quella che viene chiamata “macrozona sud”, Boric ha rivisto la sua posizione contraria allo stato di emergenza sostenuta durante la campagna elettorale.
La questione delle violenze degli estremisti mapuche, le manifestazioni contro la migrazione illegale alla frontiera nord, e il problema della criminalità veicolata dalle bande che organizzano il traffico di esseri umani in fuga dai loro Paesi, hanno oscurato il piano Chile Apoya, con il quale il suo governo ha esordito mettendo in campo tre miliardi e settecento milioni di dollari necessari a varare varie misure per far fronte alla frenata dell’economia, calmierare i prezzi dei combustibili e creare mezzo milione di posti di lavoro, aiutando direttamente le famiglie.
Il suo progetto di riforma tributaria, presentato recentemente, è stato attaccato dalla destra con la scusa che il problema fiscale non sarebbe prioritario di fronte al surriscaldamento inflazionistico. Secondo i dati che si riferiscono al 2020, il Cile ha raccolto il 29,3 per cento del suo PIL attraverso le tasse, un’aliquota bassa rispetto alla media della regione, che si attesta al 33,5 per cento. Con il nuovo disegno di legge, ancora non conosciuto dal 44 per cento dei cileni e con un 45 per cento contrario (fonte Cadem.cl), si stima che solo il tre per cento della popolazione dovrà pagare una nuova tassa.
Il ministro delle Finanze Mario Marcel ha affermato che con le nuove misure si prevede che entro il 2023 la riscossione delle tasse in Cile aumenterà dello 0,6 per cento del PIL, fino al 4,1 per cento nel 2025. Così, il Paese riuscirebbe a raggiungere la media dei paesi dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), di cui il Cile fa parte.
Nonostante sia uno dei Paesi con il reddito pro capite più alto dell’America Latina, il Cile è uno dei più diseguali e con la minore capacità redistributiva dei membri dell’OCSE, e secondo i dati della Banca Mondiale, oltre il trenta per cento della popolazione cilena è economicamente vulnerabile. Da qui la proposta di riforma tributaria necessaria ad ottenere la “vera trasformazione” promessa da Boric in campagna elettorale.
Il suo progetto introduce una tassa sul patrimonio per le persone con un fortune superiori a cinque milioni di dollari e aumenta le royalties per l’attività mineraria, nello sforzo di migliorare i diritti sociali dei cileni riguardo la salute, il sistema pensionistico e il social housing.
Aumentano quindi le royalties per la produzione di rame per le aziende che producono più di cinquantamila tonnellate all’anno con l’obiettivo di una riforma fiscale che consenta al Paese di avanzare verso una maggiore equità, verso una maggiore uguaglianza e coesione sociale, facendo dell’evasione dei tributi la sfida dell’economia nazionale.
Il presidente più giovane al mondo ha qualche problema con i sondaggi, in cui non brilla. Dopo mesi passati in apnea, domenica è aumentato di due punti rispetto alla rilevazione della settimana scorsa raggiungendo il 38 per cento del gradimento, ma il 58 per cento dei cileni lo disapprova.
Dovrà gestire il processo che porterà il 4 settembre al referendum sulla nuova Costituzione, quando i cileni saranno chiamati a decidere se vogliono una nuova carta fondamentale oppure mantenere quella di Augusto Pinochet del 1980.
Non si capirebbe la ragione per cui il Cile ha sentito la necessità di dotarsi di una nuova costituzione se non si risale alla rivolta sociale scoppiata il 18 ottobre 2018. L’origine dell’estallido social è stato il banale aumento di pochi centesimi del biglietto della metropolitana di Santiago, ma in breve il profondo malessere che caratterizza la diseguale società cilena è dilagato portando in Piazza Italia, ora ribattezzata Plaza de la Dignidad, milioni di persone.
La Costituzione in vigore, seppur rimaneggiata anche dai governi di centro sinistra di Lagos e Bachelet, rimane un testo che delega al privato tutta una serie di materie che ora diventano competenza dello Stato. Conservando l’impianto neoliberista origine delle grandi disuguaglianze del Paese, le manifestazioni si sono poste come obiettivo una nuova carta fondamentale che archiviasse definitivamente l’epoca della dittatura.
In tal modo, dopo aver scelto nel 2020 col 78,3 per cento dei voti di dotarsi di una nuova Costituzione, nel 2021 è stata eletta una Convenzione Costituente composta da 155 membri sulla base della parità di genere. L’esito della votazione ha premiato i candidati indipendenti, in genere esponenti di battaglie ambientali, per il diritto all’acqua, femministe. Mentre ha penalizzato i partiti tradizionali e marginalizzato la destra, alla quale sono andati solo trentasette seggi. Novità assoluta, alla Convenzione erano riservati diciassette seggi alle minoranze degli undici popoli originari o nazioni riconosciuti – Mapuche, Aymara, Rapa Nui, Lickanantay, Quechua, Colla, Diaguita, Chango, Kawashkar, Yaghan, Selk’nam – e la stessa assemblea è stata presieduta per sei mesi da Elisa Loncón, esponente mapuche.
I sondaggi sembrano non essere favorevoli all’approvazione. L’ultimo di domenica 17 luglio da un aumento di due punti dei favorevoli (37 per cento), un calo di un punto di chi è contrario a destra e in parte nel centrosinistra (52 per cento), mentre l’undici per cento rimane indeciso. Il 74 per cento dei cileni è d’accordo sull’avvio di un nuovo processo costituente in caso vinca il rifiuto. (fonte Cadem.cl)
Mentre in Cile è in corso la campagna, si è aperta una riflessione. L’ex presidente socialista Ricardo Lagos ha evidenziato i problemi che il Paese si troverà ad affrontare qualunque sia il risultato, dato che esso sarà comunque di stretta misura e lascerà un Paese polarizzato. Da qui la sua proposta di continuare il dibattito costituzionale fino a raggiungere una Costituzione in cui possa riconoscersi la maggioranza dei cileni.
A seguito dell’intervento di Lagos, Gabriel Boric si è detto disposto a fare migliorie del testo nel caso esso fosse approvato dal prossimo referendum, mentre già in aprile aveva avuto modo di dire che non si aspettava una Costituzione partigiana, ma un testo che cercasse il riconoscimento di tutta la società, attualmente divisa. Venerdì scorso a Chilevisión ha detto che il suo governo promuoverà un nuovo processo costituente se prevarrà il rifiuto, e ha assicurato che in parlamento si cercherà di convocare nuovamente una votazione affinché i cileni eleggano i membri di una seconda Convenzione costituente, quelli incaricati di redigere la Carta fondamentale.
La proposta non fa parte dell’attuale accordo politico che regge il suo governo, ma
è la strada che il Cile ha deciso di intraprendere quando ha votato il 25 ottobre del 2020 in un plebiscito per una nuova Costituzione, elaborata da un organo eletto al cento per cento a tale scopo.
Risulta chiaro, insomma, come il superamento della vecchia Costituzione pinochettista sia la condizione necessaria perché il suo programma riformista possa essere realizzato.
Il voto al referendum è obbligatorio e se vince il sì, i più di quindici milioni di cileni disporranno di una Costituzione che ribalta quella del 1980, trasformando il Cile in uno Stato paritario dove alle donne è destinato il 50 per cento dei posti in tutti gli organi statali garantendo misure atte a raggiungere uguaglianza e parità sostanziali tra i due sessi.
Se nel vecchio testo i popoli originari non erano nemmeno menzionati, il Cile si trasforma in uno Stato plurinazionale e interculturale, vengono riconosciute Autonomie Regionali Indigene con autonomia politica, specificando che il loro esercizio non consente la secessione o atti contro il carattere “unico e indivisibile” dello Stato. Stabilisce che, all’interno delle entità territoriali che compongono lo Stato cileno, le popolazioni e le nazioni indigene devono essere consultate e concedere il consenso negli aspetti che ledono i loro diritti. Riconosce gli ordinamenti giuridici dei popoli indigeni, specificando che devono rispettare la Costituzione e i trattati internazionali, e che qualsiasi impugnazione alle loro decisioni sarà risolta dalla Corte suprema.
La vecchia Costituzione tutelava “la vita del nascituro”, anche se ciò non ha impedito nel 2017 la depenalizzazione dell’aborto in caso di violenza, pericolo di vita del feto o della gestante. Ora il nuovo testo riconosce l’esercizio libero, autonomo e non discriminatorio dei diritti sessuali e riproduttivi e afferma che lo Stato deve garantire le condizioni per la gravidanza, il parto e la maternità volontari e protetti e per un’interruzione volontaria della gravidanza.
Il nuovo documento costituzionale descrive il Cile come uno “Stato di diritto sociale e democratico” che deve fornire beni e servizi per garantire i diritti delle persone, mentre il vecchio testo dispensava lo Stato dall’intervenire delegando settori importanti come la salute, l’educazione, le pensioni, il lavoro e la questione abitativa al privato. Ora questa impostazione viene rovesciata modificando radicalmente il modello politico, rispondendo in tal modo alle richieste emerse dalla rivolta sociale del 2019.
Il nuovo testo propone un sistema pubblico di sicurezza sociale, finanziato con reddito nazionale e contributi obbligatori. Per quanto riguarda la salute, si propone di creare un sistema sanitario nazionale che riceverà tutti i contributi sanitari obbligatori, lasciando aperta la possibilità di stipulare un’assicurazione privata extra. Viene introdotto il diritto a un alloggio dignitoso, il riconoscimento del lavoro domestico e la creazione di un sistema di assistenza integrale universale e solidale.
Per un tema sentito come quello dell’acqua, in un Paese soggetto a crisi idriche con intere zone rifornite da autobotti e dove essa è in buona parte proprietà del privato, il nuovo testo la definisce un bene che non può essere oggetto di appropriazione e un “diritto umano”, a cui dà la priorità rispetto agli altri suoi usi, e crea un’Agenzia nazionale per il suo uso sostenibile.
Per finire, gli effetti sulla politica. Per quanto riguarda il presidente si abbassa da 35 a 30 anni l’età in cui si può essere eletti, la durata della carica rimane di quattro anni, ma la rielezione consecutiva è autorizzata per una volta. Rimane la Camera dei deputati composta di 155 membri eletti sulla base della parità di genere, viene abolito il Senato, al cui posto viene introdotta una Camera delle Regioni. S’introduce di fatto un sistema con poteri molto asimmetrici, proprio dei sistemi semipresidenziali o semi parlamentari, e si ammettono le iniziative popolari di legge, consentendo forme di democrazia diretta.

@FranciaMarquezM]

COLOMBIA
Gustavo Petro ha vinto il ballottaggio con il 50,44 per cento lo scorso giugno in sodalizio con Francia Elena Márquez, contro il populista Rodolfo Hernández. In campagna elettorale si è dichiarato a favore di una nuova idea di sinistra latinoamericana lontana dalle suggestioni bolivariane, e più in sintonia con gli esperimenti di democrazia progressiva di Gabriel Boric in Cile, di Alberto Fernández in Argentina, o di López Obrador in Messico, al quale assomiglia per il suo carattere terco, testardo, che lo ha portato al trionfo dopo vari tentativi, com’è accaduto al messicano. Del resto dallo scoppio della rivolta sociale lo scorso anno un cambiamento dopo decenni era necessario, e Petro, pur tra tante resistenze, per tutta la sua lunga storia politica, lo rappresentava.
La sua vice è una ex colf afrocolombiana, poi laureatasi in legge, madre single, originaria del dipartimento del Cauca, che in marzo era stata la terza candidata più votata nelle primarie interne. Gli ha portato in dote un programma femminista, e con il suo Vivir sabroso ha spopolato tra i discriminati e gli esclusi, i “nessuno” ai quali ha voluto fin dall’inizio dare voce, dichiarando la notte della vittoria che “questo è per le nostre nonne e nonni, le donne, i giovani, le persone Lgbtiq+, gli indigeni, i contadini, i lavoratori, le vittime, i miei neri, coloro che hanno resistito e coloro che non sono più… Per tutta la Colombia. Oggi iniziamo a scrivere una nuova storia!”

Per governare e per attuare il suo programma, Petro, spesso accusato di non dar retta a nessuno e di non essere esente da tentazioni da caudillo, ha promesso che cercherà maggioranze parlamentari più ampie di quelle su cui al momento può contare. Nella sua agenda, predomina la lotta contro la povertà, un problema che coinvolge il 39 per cento dei suoi concittadini, quella vasta area di “nessuno” che lo ha premiato col voto. Ma la sua sfida più impegnativa sarà quella per porre le basi per un cambiamento del modello estrattivista su cui la Colombia ha finora vissuto, e procedere sulla strada della riduzione della dipendenza dagli idrocarburi.
La prima proposta indirizzata agli Stati Uniti è stata quella di porre al centro della collaborazione tra le due nazioni il problema ambientale, del cui deterioramento il Grande Fratello americano è ampiamente responsabile, e non più il problema del narcotraffico, per il quale la Colombia viene fatta sedere sul banco degli imputati. Un tema in cui il Paese registra qualche progresso perché per la prima volta ha ridotto la produzione di cocaina, avendone prodotto nell’ultimo anno 972 tonnellate, il 2,2 per cento in meno rispetto alle 994 tonnellate del 2020. Un risultato consentito dalla diminuzione degli ettari di coltivazione, passati a 234.000, il 4,5 per cento in meno rispetto ai 245.000 dell’anno precedente. (Fonte Office of National Drug Control Policy, ONDCP). Il cambiamento di prospettiva rispetto agli anni passati è palpabile e mette al centro la lotta al riscaldamento globale e la necessità di varare politiche ad hoc.
Sul piano interno, il problema del nuovo presidente è il diffuso anti petrismo. L’aver fatto parte della guerriglia dell’M-19 quando era all’università – aveva allora scelto come nome di battaglia Aureliano in omaggio a Cien años de soledad di García Márquez – seppur in ruoli non cruenti, favorisce il rifiuto nei suoi confronti di settori diffusi della società colombiana. Dai militari che, una volta catturato, lo hanno anche sottoposto a torture, è visto come un nemico, o comunque con sospetto. Il comandante dell’esercito Eduardo Zapateiro ha annunciato la sua rinuncia alla carica dal 20 luglio, onde evitare di dover accompagnare il neopresidente il 7 agosto nel giorno del suo giuramento.
Per quanto l’esercito colombiano sia storicamente privo di aspirazioni golpiste, durante la campagna elettorale Zapateiro aveva avuto un insolito scontro pubblico via Twitter con l’allora candidato, ottenendo l’appoggio del presidente uscente Iván Duque, creatura politica dell’ex padre padrone della Colombia Álvaro Uribe. Un fatto che la maggioranza dei costituzionalisti colombiani ha considerato un’intromissione inaccettabile da parte del militare, esponente dell’ala più dura delle forze armate, in seguito al quale Petro ha dichiarato la sua volontà di sostituire tutta la dirigenza militare una volta assunto il potere, visto il suo allineamento con l’esecutivo uscente e i suoi comportamenti in violazione dei diritti umani.

Una realtà che è stata documentata dal recente rapporto finale della Comisión del Esclarecimiento de la Verdad (CEV) che ha ricostruito ciò che è accaduto in Colombia negli oltre cinquanta anni di conflitto interno. Il documento rivela che dal 1985 al 2016 sono stati denunciati 450.664 omicidi, dove l’ottanta per cento erano civili disarmati e include anche dati su rapimenti, sfollamenti, sparizioni forzate, con il 2002 come l’anno con la più alta incidenza di questi crimini. Massimi responsabili di questi crimini risultano essere i paramilitari, le forze civili create per combattere la sovversione con l’appoggio di alcuni settori delle forze militari. A loro è imputabile il 51 per cento degli omicidi, mentre la guerriglia delle FARC è responsabili del 21. Al neo presidente, se ce ne fosse stato il bisogno, il rapporto deve aver confermato la necessità di dare aria ai vertici militari al fine di tutelare democrazia e rispetto dei diritti umani.
In attesa di assumere la carica, Petro ha fatto di tutto per dimostrarsi meno radicale di quello che è stato un tempo, e di quello che fino ad ora era conosciuto. Ha dichiarato di voler essere presidente della Colombia, non delle due Colombie. Consapevole di prendere la guida di un Paese radicalizzato, ha operato per aprire il dialogo con il suo avversario Rodolfo Hernández e con lo stesso Álvaro Uribe, capo dell’élite politica, il quale, usciti i risultati delle elezioni, aveva twittato:
Per difendere la democrazia, è necessario rispettarla. Gustavo Petro è il presidente. Lasciamoci guidare da un sentimento: prima la Colombia.
In attesa di assumere la carica, ha nel frattempo cominciato a nominare i membri del suo gabinetto. Prima di tutto il ministro degli Esteri Álvaro Leyva, un politico conservatore che è stato promotore degli accordi di pace all’Avana tra il governo di Juan Manuel Santos e la guerriglia delle FARC, già ministro delle miniere e dell’energia di Belisario Betancourt e precandidato presidenziale del Partido Conservador nel 2014. Al momento della nomina, Petro ha detto che Leyva sarà “un ministro degli esteri della Pace”. E non a caso, la residua guerriglia colombiana dell’Ejército de Liberación Nacional (ELN), che quella pace aveva rifiutato, ha dichiarato di voler tornare a trattare.
Un’altra nomina di peso è quella che riguarda Alejandro Gaviria ministro dell’Educazione. Un accademico moderato, amico del candidato centrista Fajardo che al ballottaggio aveva votato per Petro pur di evitare le incognite di Hérnandez. E’ stato anche ministro della Salute di Manuel Santos e rettore dell’Università delle Ande. Il suo compito sarà quello di
ottenere l’educazione superiore pubblica e gratuita”, “centri di eccellenza universitari pubblici centrati sulla ricerca [e] aumentare sostanzialmente il numero di bambini e bambine nella fascia prescolare.
A dirigere l’importante ministero dell’Economia ha posto José Antonio Ocampo, professore ad Harvard e a Yale, economista di fama, mentre la riforma agraria andrà a Cecilia López, alla quale ha dato indicazione di agire nel rispetto della proprietà privata. Un terreno sul quale potrebbe peraltro incappare in assurde accuse di castrismo o di chavismo da parte delle forze della conservazione.
Mentre ad occupare il ruolo di ambasciatore a Washington Petro ha designato Luis Gilberto Murillo, già candidato vice presidente di Sergio Fajardo. Una nomina che ha destato qualche sorpresa e la soddisfazione dell’amministrazione Biden. Tutte nomine azzeccate che sono state apprezzate anche dall’opposizione.
Cruciale sarà la nomina del ministro della Difesa vista la problematica con le forze armate. Ma nel frattempo, la scelta dei ministri, nessuno in odore di castrochavismo, la posizione nei confronti del rapporto della Comisión de la Verdad – snobbato da Duque, contrario al trattato di pace e in missione all’estero – i suoi rapporti con Uribe e l’annuncio di voler tassare le bevande zuccherate gli hanno valso il gradimento dei colombiani per il suo stile differente. Ora la sua approvazione è arrivata al 64 per cento dopo le elezioni del 19 giugno, 22 punti più che in febbraio, e rappresenta il dato più alto per un presidente dal 2005.
Rappresentante di un ambiente politico che non ha mai tenuto le redini del potere, Petro interpreta la necessità di cambiamento della classe dirigente e dello stesso sistema. Dovrà affrontare il problema delle relazioni con il vicino Venezuela, se vorrà intervenire seriamente sul flusso migratorio incontenibile e cercare di risolvere l’endemica violenza da cui è afflitta tutta la zona della frontiera. Fino ad ora, Gustavo Petro sembra aver fatto le mosse giuste e la luna di miele col Paese sembra del tutto meritata. Lo vedremo alla prova.

BRASILE
Mancano due mesi e mezzo al 2 ottobre, giorno in cui i brasiliani andranno alle urne per scegliere tra il presidente in carica Jair Bolsonaro e Luiz Inácio Lula da Silva, mentre il Paese vive nel clima di uno scontro che il leader di estrema destra dipinge come duello tra “bene contro male” e come “amore contro odio”. Qualche giorno fa, un militante del Partito dei Lavoratori di Lula da Silva è stato assassinato durante la sua festa di compleanno a Foz do Iguaçu da un sostenitore del presidente Jair Bolsonaro.
Lo stesso Lula ha dovuto recentemente indossare un giubbotto antiproiettile mentre una bomba fatta in casa è stata lanciata da un sostenitore di Bolsonaro durante un comizio dell’ex presidente, per fortuna senza fare vittime. Alle accuse della sinistra di fomentare la violenza, Bolsonaro ricorda l’accoltellamento di cui è stato vittima – in verità, opera di uno squilibrato – durante la scorsa campagna elettorale, mentre i suoi sostenitori manifestano per ottenere la libertà di portare armi. Lo stesso presidente in carica si dice sicuro che le useranno in caso di frodi elettorali permesse dal sistema del voto elettronico e getta ombre sull’esito delle elezioni. Lo ha fatto anche non più tardi di ieri, senza per altro provare le sue accuse, quando ha invitato nella sua residenza ufficiale a Brasilia rappresentanti dell’amministrazione americana e dell’Unione Europea.
In tutto ciò, pesa l’atmosfera di profonda radicalizzazione in cui da tempo il Paese sta scivolando, un motivo di preoccupazione per il quartier generale del presidente in carica, dato che quanto accade indebolisce il discorso a favore della libertà di armarsi e rafforza l’immagine bellicosa di Bolsonaro rendendogli difficile ottenere voti dagli indecisi.
Secondo i sondaggi demoscopici, Lula mantiene un ampio vantaggio e potrebbe persino vincere le elezioni al primo turno. L’ultima rilevazione di Datafolha dà al candidato progressista il 47 per cento delle intenzioni di voto, rispetto al 28 di Bolsonaro.
Ciononostante, l’ampio vantaggio di Lula si riduce a San Paolo, sede di 35 dei 156,4 milioni di elettori brasiliani – secondo l’Alto Tribunale Elettorale “il maggior numero di elettori registrati nella storia” – e un sondaggio pubblicato dalla società Genial/Quaest prevede persino un pareggio tecnico tra i due nella regione più ricca del Paese. Per queste ragioni i due contendenti stanno concentrando i loro sforzi per convincere gli elettori indecisi dell’area paulista, il cui riferimento politico in prevalenza è il centro.
Lula ha stretto un’alleanza con il suo ex avversario Geraldo Alckmin e cerca di estendere il suo messaggio oltre i confini della sinistra. Qualora vincesse, difficile che possa recuperare le direttrici dei governi targati Partito dei Lavoratori che ha guidato il Brasile tra il 2003 e il 2016 per quattro mandati consecutivi. L’ultimo, quello di Dilma Rousseff, è stato interrotto da un procedimento di impeachment. Dopo un anno da allora, Lula è stato condannato a nove anni e sei mesi di carcere per presunta partecipazione a casi di corruzione che coinvolgono Petrobras, la compagnia petrolifera statale. Condanna annullata nell’aprile dell’anno scorso con la restituzione dei diritti politici.
Bolsonaro non ha deluso le aspettative dei suoi avversari, ha deluso buona parte di chi lo ha sostenuto, soprattutto in relazione alla pandemia di Covid-19. Ultimamente, andando contro il discorso ultraliberale e le promesse di severo controllo della spesa pubblica che hanno segnato la sua campagna – in sintonia con il suo ministro delle finanze, Paulo Guedes – ha fatto approvare dal parlamento una proposta che dichiara il Paese in “stato di emergenza” fino a fine anno, varando un pacchetto di aiuti sociali a meno di tre mesi dalle elezioni.
Le misure sociali impegnano circa 41,25 miliardi di reais (7,65 miliardi di dollari), inizialmente non previsti nel bilancio di quest’anno. Tra i benefici vi sono l’aumento del valore minimo dell’aiuto mensile già distribuito tra le famiglie più povere fino a 600 reais (110 dollari), che significherà un aumento del 50 per cento e un contributo per l’acquisto delle bombole di gas.
Il testo prevede anche un aiuto per i tassisti e un altro di mille reais (185 dollari) al mese per i camionisti autonomi, che fanno per lo più parte della base sociale che sostiene Bolsonaro. Un provvedimento elettorale che è stato etichettato come “kamikaze” dato il suo potenziale impatto negativo sui conti pubblici e sull’inflazione, che attualmente è vicina al dodici per cento su base annua.
Nonostante questi provvedimenti Lula rimane in vantaggio. E se è certo l’effetto frenante nei confronti del deterioramento della democrazia brasiliana di un suo governo, rimane l’incertezza su quello che esso potrà effettivamente rappresentare. Se, detto in altri termini, riprenderà il filo interrotto nell’agosto 2016 o se, vista l’alleanza coi moderati, intraprenderà una strada alternativa.

Durante i suoi otto anni di presidenza, Lula ha saputo favorire la crescita economica aumentando la spesa pubblica, onorando il pagamento dei debiti con il Fondo monetario internazionale e incrementando le riserve valutarie del Paese. In ciò, come altri governanti latinoamericani che hanno condiviso la stessa sorte, è stato favorito dal congiunturale aumento delle materie prime e dal boom delle esportazioni verso la Cina; mentre numerose scoperte di giacimenti petroliferi in oceano hanno trasformato il Paese in una superpotenza energetica.
In campo sociale, il programma “Bolsa Família”, chiuso da Bolsonaro, ha tolto dalla povertà estrema quaranta milioni di brasiliani, destinando alle famiglie delle somme mensili in cambio della vaccinazione e della frequenza di una scuola per i figli. L’aumento del salario minimo ha consentito a milioni di cittadini di diventare consumatori con beneficio del mercato interno. E recentemente Lula ha dato degli imbecilli ai banchieri che sostengono Bolsonaro per non aver capito che se si aumenta l’area dei consumatori i primi a guadagnarci sono proprio loro.
Se durante il suo governo la vita dei poveri è migliorata in misura considerevole, ciò non ha comunque intaccato le profonde disuguaglianze sociali, lasciando sopravvivere un sistema fiscale generoso coi ricchi e le imprese, e punitivo con la classe media, su cui, con una imposizione equivalente al 32 per cento del Pil, pesano elevate imposte dirette e indirette, con in cambio scadenti servizi pubblici.
Sul piano politico, il Brasile non ha superato il fenomeno legato alla proliferazione dei partiti rappresentati in parlamento, con i quali ogni governo deve trattare l’appoggio in cambio di concessioni a favore delle loro clientele; e rimane anche inalterato il monopolio informativo dei grandi gruppi, con la Red Globo prima di tutti.
Nulla è stato fatto da Lula sul piano della promessa riforma agraria: le sue politiche si sono limitate a un finanziamento della piccola agricoltura famigliare e hanno prodotto un leggero aumento dei trasferimenti di proprietà ai lavoratori sem terra rispetto al suo predecessore, il socialdemocratico Cardoso. Una certa continuità con Cardoso si trova persino nella scelta di alcune figure chiave della politica economica, come quella di Henrique Meirelles, nominato direttore del Banco Central, e già deputato del partito socialdemocratico di centrodestra.
Per quanto riguarda la sua base di appoggio, essa si è trasformata dal 2006 in poi, perdendo il sostegno dei lavoratori e della classe media, a favore dell’elettorato più povero che vive nelle zone economicamente più arretrate del Brasile, come il Nordest, maggiori beneficiarie delle politiche sociali dei governi progressisti. L’origine di questa perdita si fa risalire allo scandalo del 2005, dal quale i brasiliani hanno appreso che il partito di Lula aveva incassato somme non dichiarate per la campagna del 2002, ridistribuendole tra i suoi alleati. Una pratica illegale ma tradizionalmente tollerata, che tuttavia ha rovinato per sempre l’immagine del partito.
Sta di fatto che, con l’andar del tempo, l’appoggio a Lula si trasforma da anelito di cambiamento e rottura col passato, a desiderio di poter contare su uno Stato che abbia la forza di migliorare il livello di vita della gente, senza la forza propulsiva della mobilitazione sociale che metta in pericolo gli equilibri esistenti. La sua leadership assume i caratteri di un riformismo debole, che si esplicita nello sforzo di una conciliazione permanente con i potentati economici e politici dominanti, dove la dirigenza del partito si trasforma in un braccio burocratizzato che controlla l’apparato, e dove il nucleo originario del Partito dei Lavoratori costituito dai movimenti sociali e dal sindacato, diventano secondari. Questo per il passato, resta da indagare cosa può riservare il futuro.
Lula è consapevole di muoversi su un terreno difficile dove ogni errore può favorire il suo avversario, il quale potrebbe persino essere premiato per i suoi più recenti provvedimenti, chiaramente improvvisati e di breve durata, attuati per alleviare i disagi delle fasce sociali più colpite dalla crisi economica. Per questo cerca di rafforzare il suo schieramento con nuovi alleati, e ha intrapreso da tempo una marcia “al centro” che gli tornerebbe utile soprattutto in caso si andasse al ballottaggio. Nel tentativo di tessere la più vasta rete di alleanze possibili, si allea anche con quelle forze economiche e politiche che hanno fatto fuori Dilma Rousseff e fatto incriminare lui. Accettando, per mancanza di alternativa, di correre lo stesso rischio che ha segnato allora drammaticamente la sinistra e aperto la strada a Bolsonaro.
Per intanto, lo scotto che ha dovuto pagare è stato quello di subire una sorta di metamorfosi della propria configurazione politica al fine di riuscire a rappresentare l’intero campo democratico. Questo è allo stesso tempo il suo punto di forza in quanto esprime la capacità di unire le più diverse anime del variegato panorama democratico. E rappresenta anche la sua irriducibile debolezza, per l’inevitabile scolorire di un proprio nucleo programmatico fortemente delineato.
Qualora vinca, di sicuro Lula non potrà riproporre il sé stesso di venti anni fa. Per il momento si limita a descrivere la coalizione che lo sostiene come l’alternativa all’autoritarismo e alle minacce alla democrazia rappresentate da Bolsonaro, e lascia nel vago gli obiettivi del governo. Quello che sembra mancare è un piano di fuoriuscita dalla crisi sociale e democratica di cui Bolsonaro ha approfittato per vincere e in cui ha vieppiù precipitato il Brasile. Un piano sacrificato alla necessità di tenere assieme un campo variegato e composito che a lui si opponga.
Ne consegue che è lungi dall’essere alla vista un programma politico per obiettivi condivisi che ruoti su temi precisi in base ai quali riformare il Paese. Una mancanza di chiarezza che espone drammaticamente il futuro esecutivo al rischio di un insuccesso che potrebbe spianare la strada alla versione peggiore dell’estrema destra.

Immagine di copertina: Un recente comizio di Lula.

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