Scendendo il ponte di Rialto verso la chiesa di San Giacometo e il mercato, una lunga calle sovrastata da volte e tagliata da cinque rami corre perpendicolarmente alla Ruga degli Oresi. Non molto frequentata, appare come retrobottega di ristoranti mentre i negozi che guardano la ruga degli Oresi la usano come deposito: lungo il suo lineare percorso che termina all’abside della chiesa di San Giovanni Elemosinaro si notano molte porte a due battenti di legno non molto alte e ben sprangate. Questa calle è la calle del Parangon, e qui fin dal Duecento erano venduti in pieno mercato di Rialto panni e drappi, stoffe talmente perfette da essere da esempio, da “parangon”, da paragone per mantenere alto lo standard della produzione che partiva per il Levante e per l’Europa e che aveva in Venezia vari centri di produzione ed una lunghissima filiera di lavoratori.
Doretta Davanzo Poli era indiscussa e compianta maestra di questa storia antica che intreccia tessuti e società, ricchezze e carovane, mude che trasportavano materia prima che poi a Venezia veniva lavorata e trasformata in preziosi scampoli. Doretta, che circa dieci anni fa venne a Istanbul dopo una bellissima mostra al Topkapi sui tessuti veneziani e le tradizioni orientali, tenne una conferenza presso l’Istituto Italiano di Cultura dell’antica Bisanzio ricucendo i fili di relazioni antichissime.

A Venezia la leggenda racconta di Polissena Michiel della quale nel IX secolo s’innamora Enrico IV Imperatore del Sacro Romano Impero e per lei fa tessere dal maestro Antiope stoffe meravigliose: chissà se veramente i tessitori veneziani, e con loro i tintori e le decine di altre categorie di artigiani, si rifacevano alla leggenda di Antiope: certo è che dopo il primo ritorno di Marco Polo dall’Oriente, nel 1269, arrivarono a Venezia stoffe preziose con disegni zoomorfi e fitomorfi. All’inizio del Trecento inoltre, a seguito delle sommosse tra guelfi e ghibellini nella tormentata Toscana, varie famiglie di tessitori lucchesi a più riprese si trasferirono a Venezia aprendo attività produttive nelle quali erano esperti. La terraferma veneziana divenne luogo di coltivazione dei gelsi e quindi dei bachi da seta, e opifici sorsero in varie epoche per produrre il prezioso tessuto, in concorrenza con l’agguerritissima Francia che a Lione aveva il fulcro della produzione di eccellenza.
Ma a Venezia la filiera della produzione di stoffe nei secoli era consolidata e la produzione partiva sia per il Levante sia per il Nord Europa, in una serie di passaggi import-export degni delle grandi imprese moderne: molte erano le stoffe grezze che giungevano dall’Oriente e che erano rifinite e rese più lussuose dai maestri veneziani, per essere riesportate a varie latitudini. Gli artigiani trovavano a Rialto un centro formidabile di smistamento delle merci più varie, con numerosissime botteghe, non solo di tessuti ma, ad esempio, era impressionante la concentrazione delle botteghe degli oresi, gli orefici già dal 1015 concentrati in zona e dal 1331 obbligati a tener bottega in Ruga vecchia san Giovanni. Marcantonio Sabellico, storico della Serenissima, nato in Sabina e morto a Venezia nel 1506, scrive che nella “ruga piccola” si vendevano anelli mentre nella grande si vendevano suppellettili e manufatti di grandi dimensioni. Il loro patrono era sant’Antonio Abate con altare nella vicina chiesa di San Giacometo, e le regole da parte delle magistrature dogali erano puntuali soprattutto per quel che riguardava le pietre finte che non potevano essere incastonate dagli oresi.

Veri capolavori di oreficeria uscivano da quelle botteghe artigiane, non ultime le catene di “manin”, “opus venetum ad filum”, fittissime maglie minuscole a formare collane d’oro, doni tradizionali per le spose a Venezia. In una contabilità precisa e tutta veneziana sappiamo che nel 1773, quindi quasi alla fine della Repubblica, esitevano ancora 416 oresi e 22 botteghe, 204 gioiellieri da falso (bigiotteria) con 27 botteghe, 26 diamanteri de duro e 75 de tenero. Tale era la fama dei gioiellieri veneziani che Solimano il Magnifico, sultano ottomano Cesare dei Romei e Califfo dell’Islam(1494-1566), aveva commissionato a Venezia un copricapo d’oro massiccio adorno di gemme e di perle a quattro livelli, per rimarcare il suo potere che superava quello del Papa di Roma, che indossava la tiara a tre livelli detta Triregno.
Per controllare la qualità di un’enorme quantità di merci più o meno preziose dalle quali dipendeva la fama della Serenissima fuori dai suoi confini, probabilmente esisteva un ufficio che conservava le misure e pesi per pietre preziose e liquidi, oro e stoffe, alle quali gli artigiani dovevano attenersi, tant’è che in calle della Madonna, vicino a Parangon c’è il barbacane da paragnon in pietra d’Istria [immagine di copertina], a indicare la misura che gli aggetti di legno che sporgevano nelle calli per aumentare la superficie delle abitazioni dovevano avere per essere a norma , secondo la “iuridicion di barbacani”. Regole e controlli erano strettissimi sulle categorie degli artigiani, riuniti in mariegole o regole madri che normavano diritti e doveri delle varie Schole, confraternite numerosissime ed antiche, ognuna con i suoi santi protettori, chiese, altari, e processioni nonché strettissimo cerimoniale nei cortei ufficiali e banchi assegnati in Piazza san Marco in occasione delle grandi fiere. Varie erano le Magistrature preposte ai controlli, tramite i Provveditori che vigilavano su un elenco lunghissimo di categorie, dai macellai agli orafi.

Seguendo lungo le calli ed i campi gli itinerari che conservano i nomi dei luoghi dove le stoffe vennero lungo i secoli prodotte, tinte, lavorate e vendute, la tradizione orientale legata a gli scambi commerciali e sociali appare attraverso moltissime parole. Ad esempio lo sciamito, stoffa preziosa che deriva dalla tradizione bizantina ed è composta da due orditi e due trame in diagonale con fili di seta pesante, in greco examitos, sei fili: il tessuto era simile al velluto, che a sua volta deriva dalla parola latina vellus, cioè pelo. I samiteri, produttori della costosissima stoffa, erano riuniti attorno alla chiesa dei Gesuiti, mentre i tessitori-testori di fustagno lavoravano a san Tomà, quelli di pannilana a San Simeon Piccolo, e il lino si tesseva a San Marcuola. Erano per lo più piccole botteghe familiari nelle quali lavoravano donne, uomini e bambini: sappiamo che nel 1773 esistevano ancora 183 tessitori e 65 botteghe mentre i telai erano duecento. Già dal 1243 sappiamo che fu redatto il primo statuto relativo all’arte dei tintori, professione che dà il nome ad almeno otto calli veneziane, concentrate nel sestiere di Santa Croce, dove nella cosidetta “camera del purgo” veniva purificata e lavata la lana che giungeva grezza dalle campagne. “Campo della lana”, campiello dei lavadori, calle dei garzotti,(cardatori della lana con i garzi, i ganci) sono solo alcuni nominativi ancora presenti sui “ninzioleti”, bianchi lenzuoli che fanno da “cartelli stradali” per i nomi di calli e campi veneziani. Assieme a queste categorie artigiane, esistevano specifiche botteghe che producevano ad esempio cordoni di seta per abbellire gli abiti o retine per capelli, le vergole prodotte dai vergolai o le calze di seta e di cotone, o le sartorie assieme ai “calegheri”, calzolai creativi.

Testimonianza vivace è quella del medico bolognese Leonardo Fioravanti che nel 1572 descrive la filiera della seta “che dai bachi va alle maestre, sopra i rocchetti poi al filatoio, torna alle donne che lavorano rocchetti, poi a torzersi al filatoio, poi al tentore che la mostra al mercante, la cuoce con acqua e sapone, la tinge del colore che vuole, poi il mercante la fa diventare lustra”. Ma chi erano i clienti di tali preziose meraviglie? L’Impero di Bisanzio e la grande corte imperiale, che dal 992 aveva ridotto le tasse doganali sulle merci che giungevano da Venezia, grazie al capolavoro diplomatico del doge Pietro Orseolo II. Ma anche il mercato veneziano era ricco, e quello delle decine di corti italiane ed europee ambiva alle preziose ed originali creazioni veneziane, taftà, damaschini, ormesini….. ecco ancora parole orientali che diventano di casa a Venezia, taftà da “tabi”, parola persiana che significa “torcere”, tessuto che resta rigido ,luminoso e frusciante grazie all’ordito posto sopra la trama, mentre il damaschino era lavorato con seta e oro a Damasco e poi rifinito a Venezia, città manifatturiera ed industriale. “Ormesino” è parola che si riallaccia allo stretto di Ormuz, nel golfo omonimo che separa Arabia e Persia antiche, da dove arrivavano leggere pezze di seta.
La storia dei tessuti va di pari passo con la storia della Serenissima nei secoli di splendore e decadenza, di sperpero e di ristrettezze: ma nemmeno l’istituzione della magistratura dei Provedadori sopra la pompa delle donne nel 1476 servì a frenare fasti e lussi che anche nell’ostentazione delle stoffe preziose trovavano enorme seguito nella ricca aristocrazia e classe mercantile.
Quante calli dei tentori ci sono a Venezia? E quanti nomi di calli si riferiscono ad attività legate ai tessuti? Tanti e vari, come abbiamo visto: ad esempio “le chiovere” e “chioverette”, in varie parti della città sono luoghi dove forse con i “ciovi” i chiodi, venivano fissate le stoffe ad asciugare, tinte con i colori più vari, ricavati da sostanze vegetali, minerali o animali. Tinte preziose, segreti di stato, procedimenti di tinture tramandati in eredità familiari e spiati da agenti stranieri. Tra tutti i colori, il rosso: la parola “cremisi” è legata alla preziosità di questa tinta, e deriva dall’arabo “qrmizi” o dal sanscrito “prodotto da insetti”, colore ottenuto dalla cocciniglia e riservato a preziosi stendardi o vesti imperiali. Anna Comnena principessa bizantina (1083-1153) e storiografa, ci racconta che i figli degli imperatori erano “porfirogeniti” perché nascevano in una stanza rivestita di porfido rosso egiziano e di stoffe colorate con il murice, mollusco utilizzato fin dai tempi dei Fenici per colorare stoffe rarissime simbolo di potere.
Il rosso dunque è dall’antichità colore regale, e Scarlata era la gondola del Doge, forse ornata da panni rossi: la parola deriva da “saquirot” che in persiano significa “il migliore”.
Le stoffe preziose a Rialto venivano sciorinate e vendute con grande dovizia da un’agguerrita corporazione di mercanti, la punta di diamante di quella formidabile piramide di artigiani che da ogni sestiere della città facevano convergere merci che da lì viaggiavano nel mondo. E questo durò per secoli, nonostante il disastroso incendio del 1514 che distrusse l’intero mercato compresa la chiesa di San Giovanni Elemosinaro: le attività commerciali ripresero, e dopo soli nove anni su progetto dello Scarpagnino un nuovo mercato fu pronto chiesa compresa, anche se diverse dinamiche commerciali dopo la “scoperta” del Nuovo Mondo cambiarono in parte i traffici mercantili.

Anche nell’arte ed in particolare nell’arte sacra fu riversato il sentimento degli artigiani legati alla produzione di stoffe, che avevano nella chiesa di San Giacometo un loro altare. La Madonna dei sartori dipinta nel 1553 da Bonifacio De Pitati oggi alle gallerie dell’Accademia a Venezia è un omaggio alla importantissima categoria dei sarti che cucivano le stoffe preziose: la grande tela si trovava sull’altare della Scuola dei Sartori, ai piedi della Vergine una forbice, ai lati sant’Omobono protettore dei sarti e Santa Barbara protettrice dei varoteri, i pellicciai. I sartori avevano altare presso la chiesa dei Gesuiti e nei dintorni erano le botteghe dei sartori da veste, da calza, e i giuboneri fabbricanti di giubbe. La scuola dei varoteri o vaiai cioè pellicciai esiste ancora in campo santa Margherita: il nome “vaio” è quello dello scoiattolo grigio dal quale si ricavavano calde pellicce.
I testori, tessitori che lavoravano a casa, nel 1488 si riuniscono in un’unica Schola, ai Gesuiti, su approvazione del Consiglio dei X: dal 1489 la mariegola stabilisce le cariche direttive di “4 maistri de pello e 4 senza pello”, mentre nel 1634 un grande edificio accanto all’Abazia della Misericordia viene acquistato per seimila ducati per la confraternita. L’arte dei testori fu soppressa nel 1807 con i decreti napoleonici che affossarono ogni attività artigianale veneziana. Al numero 4877 del sestiere di Cannaregio una lapide ricorda un restauro avvenuto nel 1704.
Lampassi, soprarizzi, broccatelli, damaschi, broccati: sono nomi che ancora oggi appartengono al linguaggio per gli specialisti dell’arredamento e del costume. Le loro denominazioni antiche derivano dal francese, come lampasso, o dal rilievo del velluto rispetto alla base del tessuto, come il soprarizzo, mentre il broccato deriva dalla parola latina “broccus”, ornato di punte, ed il damasco denota la sua origine orientale perché ideato nell’antica città di Damasco. Questi tessuti a base di preziosa seta o di raso ma anche di tela erano lavorati con differenti altezze di trama e ordito con disegni floreali e fili d’oro o d’argento, sia per l’arredamento e la tappezzeria che per l’abbigliamento. La complessa lavorazione a telaio venne rivoluzionata dall’invenzione del telaio Jacquard, negli anni trenta del Settecento. Il telaio inventato da Giovanni il Calabrese nella seconda metà del Quattrocento per le manifatture di Lione al servizio del Re Sole fu in seguito modificato da Joseph Jacquard durante il secolo della rivoluzione industriale, quel Settecento che vide sempre di più le macchine sostituire la mano dell’uomo in molteplici attività, e tra queste la tessitura.
Preziosi tessuti lavorati con tecniche antiche e con gli stessi telai sono ancora oggi prodotti a Venezia da antiche manifatture. Tessuti per arredamento che sono esportati a ogni latitudine ripercorrendo quelle vie che da oltre mille anni lasciano tracce di eccellenza partendo da Venezia.

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