Condurre uno / a uno a uno nel dolore. E arrancando / se ti vedesse Luca. Se ti vedesse / lo Scarabeo arrossirebbe. E anche / tu nella jacuzzi. In questa vasca / trovi dell’acqua per ribellarti.
In questa manciata di versi, tratta da Jacquerie I, con uno dei suoi tipici slittamenti di senso, Paolo Fabrizio Iacuzzi associa il proprio cognome a quello della celebre vasca idromassaggio, concepita come una sorta di arca veterotestamentaria che racchiude presenze reali e, al tempo stesso, fantasmatiche. Quella di decontestualizzare un oggetto rispetto alla sua funzione originaria è operazione consueta nel poeta pistoiese, incistandosi nel cuore stesso del suo opus magnum, derivato da una serie di esperienze eterogenee: in primis Bigongiari, Luzi, Giudici, “le cinque dita della mano” Cucchi, De Angelis, Carifi, Viviani, Conte, ma anche Frank O’Hara, Basquiat, Keith Haring. Tuttavia, l’oggetto che meglio rappresenta la sua poetica è la bicicletta, ricorrente in tutta la sua produzione poetica, vero e proprio Leitmotiv che si snoda dalla raccolta d’esordio, Magnificat (1996) fino all’ultima, Consegnati al silenzio (2020). D’altro canto, il tema della bicicletta è stato ampiamente sviluppato in ambito letterario: si pensi, tanto per fare qualche esempio, al velocipede fantascientifico che contrassegna l’esperienza delirante del Supermaschio di Jarry, lui stesso ciclista ante litteram, e alla figura di Annina, madre di Caproni, la cui giovinezza mitica è affidata a una bicicletta che sembra lievitare lungo le strade di Livorno.
Iacuzzi arriva addirittura ad antropomorfizzare la bicicletta attraverso il profilo della nonna che si chiamava Bianca: la bicicletta Bianca, presente in Magnificat, perde così la funzione aggettivale presente nella prima lezione a stampa (“la bicicletta bianca”) per rimodularsi su un patronimico (un matronimico?) che non inficia tuttavia una versione polisemica. La bicicletta, con i suoi “cicli” termine ambivalente, compare insistentemente in altri topoi dislocati non solo nella silloge d’esordio, arrivando a subire una significativa metamorfosi in Il passo degli sfollati, tratto dalla seconda raccolta Jacquerie (2000). In tale testo si descrive la deportazione dall’Elba alla Germania dopo l’8 settembre che il padre e altri profughi patirono a opera dei tedeschi, venendo trasformata in quella di “biciclette / stipate una dentro l’altra” in un vagone che non può non rammentare la catabasi della Shoah cadenzata attraverso il suono di innumerevoli campanelli. Parecchi sono al riguardo i riferimenti alla bicicletta: dal “triciclo rosso” che dalla Bicicletta Bianca approda a Indianapolis, accolta in Patricidio (2005), alla Bici dei fidanzati fino all’esperienza di un piratesco, pilatesco Pantani che scala il Mont Ventoux con un fumettistico “Pant pant” in Magliarosa Frankenstein, nella raccolta Folla delle vene (2018). D’altro canto, è significativo che La bici dei fidanzati sia posta come didascalia di una sezione (o microsezione) intitolata La bici con le scarpe, quasi a rappresentare la condizione assurda di un oggetto che da mero veicolo tende a umanizzarsi e trasformarsi, in seno a un processo mimetico dai tratti distopici, nel medesimo fruitore di quel veicolo. Ma anche in Rosso degli affetti (2008) non mancano particolari sulla “bicicletta che porta dal Corso alberato / alla Fortezza delle Armi” (Il soldato Beslàn).

Uno strumento indispensabile per accostarsi alla poesia di Iacuzzi è ora rappresentato dall’antologia Peste e guerra. La poesia non salverà la vita che raccoglie un florilegio di testi che va dal 1982 al 2022. Il libro, ottimamente curato da Michele Bordoni, presenta un’essenziale scelta di poesie suddivisa in sette parti numerate, corrispondenti alle sei singole raccolte pubblicate dall’autore pistoiese, suggellate da un epilogo contenente testi tratti da una silloge inedita, in parte anticipata nel volume collettaneo Sospeso respiro, curato da Gabrio Vitali, incentrato sul tema della pandemia.
Il motivo della metamorfosi, della trasfigurazione, sempre in bilico tra sacro e profano, così pregnante soprattutto nella fase più recente del percorso poetico di Iacuzzi – da tavolo anatomico a Wunderkammer –, si manifesta attraverso una serie di figure, spesso richiamanti una genealogia mitica: il ”vandalo” Gio Batta Iacuzzi, il cui nome è riportato, insieme alla data 1816, in una colonna dello Spedale del Ceppo di Pistoia, il cui fregio in ceramica invetriata di scuola robbiana rappresenta le sette opere di misericordia, ispiratrici della sequenza Pietra della pazzia; Francesco Iacuzzi, omonimo del padre e medico della peste ottocentesco ricordato in Vibrio Cholerae Iacuzzi, contrapposto al modello del nonno materno che forse discende “da quel Filippo che scoprì il colera” descritto in Vibrio Cholerae Pacini. A latere una reiterata investigazione del corps sans organes di artaudiana memoria (con, sullo sfondo, la dimensione algolagnica presente nell’Histoire de l’œil di Bataille, illustrata da Bellmer), non di rado associata a figure eccentriche come quella del pietrificatore bellunese Girolamo Segato o del ceroplasta Gaetano Zumbo. In quest’ottica vanno intesi i riferimenti a Sade, che sfumano in quelli della supposta antenata Laura, intorno alla cui aura si accanisce l’inquietudine da amanuense del Petrarca, o al Frankenstein di Mary Shelley, volto in un’accezione che spazia rocambolescamente dalla tragedia alla parodia e che rinvia allo scempio espressivo compiuto dai film dell’orrore a cavallo tra anni Cinquanta e Settanta. Ma altri profili si stagliano nelle raccolte, come quello del compianto Luca Giachi, paragonato a Palinuro per non aver raggiunto “la terra promessa della maturità” o quello dello stesso autore, che ricorre al diminutivo Iac e si smembra nel doppio di Paolo e Fabrizio, memore forse della duplice identità di Alighiero & Boetti che si stringono la mano in una celebre quanto fuorviante immagine gemellare.

Queste considerazioni testimoniano un’interpretazione complessa, stratificata, a tratti debordante rispetto al testo originario. Si tratta di una sorta di unicum, di un procedimento personalissimo e anomalo, le cui ascendenze storiche e letterarie diventano di non sempre facile decrittazione, ricche come sono di criptocitazioni, quasi si trattasse di un elenco di geroglifici che solo un illuminato Champollion sarà in grado di interpretare tramite la rivelazione della stele di Rosetta. Senz’altro si impone una deformazione di impronta surrealistica, anche se innervata intorno a barlumi di senso che contrassegnano tale poetica in maniera decisiva: “Per non avere niente / se non trascrivere in versi il male dentro le sillabe” (La trascrizione inversa). Tale spunto, dove risuona un’eco di La vita in versi, sembra anticipare Campari per campare, dedicato a Giudici, del quale si richiama il titolo della raccolta Quanto spera di campare Giovanni. Oltre a immagini e temi che ricorrono quasi ossessivamente, trasferendosi da un componimento a un altro, da una raccolta a un’altra, la fedeltà a queste radici mitopoietiche si manifesta attraverso una ricerca prosodica che sembra perseguire un obiettivo rivolto a un sostrato metrico che sconfina in un timbro di voce quanto mai riconoscibile e persuasivo. Il ricorso insistito alla quartina – ma anche al distico e alla terzina – o a componimenti che sembrano rifarsi a modelli canonici come il sonetto sono tuttavia “erosi” dall’interno, pressoché snaturati, mancando del loro riferimento più ovvio (l’endecasillabo o, nel caso del respiro più ampio del poemetto, il verso martelliano a cui ricorre Pasolini nelle Ceneri di Gramsci), ricordando il lavoro di distorsione compiuto da Bacon intorno all’anatomia di corpi in movimento o rilevato da Baltrušaitis nelle sue anamorfosi. Rimane lo scheletro del sonetto, uno pseudosonetto basato su un verso libero tendente alla dimensione prosastica che, oltretutto, rivendica la propria inadeguatezza rinnegando ogni costrizione interna, comprese rime baciate o alternate nelle rispettive coppie di quartine e terzine. A volte solo la sprezzatura dell’enjambement si contrappone a un approccio prosastico che aspira a debordare dal proprio alveo espressivo.
Segue una lunga intervista all’autore effettuata da Bordoni, il cui encomiabile lavoro si segnala per precisione e conoscenza approfondita della materia trattata. Qui si chiariscono molti aspetti della poetica di Iacuzzi, a cominciare dalla particolare forma di costruzione e decostruzione delle singole raccolte, nonché della profonda correlazione esistente fra le stesse. I richiami tra un titolo e l’altro, sia di ordine tematico che strutturale, sono infatti molteplici, procedendo per empatia o contrapposizione: “Folla delle vene è il libro della madre, mentre Consegnati al silenzio è quello del padre”, dichiara l’autore nell’intervista. Ma si pensi anche al progetto articolato della “vita a quadri”, in cui ogni raccolta corrisponde a un differente colore: bianco per Magnificat, blu per Jacquerie, giallo per Patricidio, rosso per Rosso degli affetti, rosa per Folla delle vene, verde per Consegnati al silenzio. È significativo che Iacuzzi asserisca che “la Storia si intreccia alla mia storia”, in una sorta di osmosi tra dimensione privata e retaggio storico che, senza mai scadere in un afflato cronachistico che non sia adulterato da esiti allucinati (vedi la guerra in Bosnia o le Torri Gemelle), rappresenta il miglior viatico per parlare oggigiorno di poesia civile senza scadere nella deriva ideologica che ha irretito l’opera di autori di primo piano come Fortini e Pasolini.

Paolo Fabrizio Iacuzzi,
Peste e guerra. La poesia non salverà la vita
introduzione e dialogo a cura di Michele Bordoni,
Interno Poesia 2022, euro 18,00.


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