Nel suo De L’esprit de conquête et de l’usurpation dans le leurs rapports avec la civilisation européenne del 1814, Benjamin Constant scriveva: “siamo giunti all’epoca del commercio, epoca che deve necessariamente sostituire quella della guerra, così come quella della guerra ha dovuto necessariamente precederla”.
Il passaggio dalla condizione endemica dell’inimicizia reciproca e della guerra alle pratiche di mercato fa sì che gli esseri umani, dalla situazione in cui scambiano in prevalenza degli atti ostili passino a una di collaborazione, in cui ciò che si scambiano sono cose reciprocamente utili alla loro vita.
La logica del mercato accosta e mette in relazione sempre più stretta tra loro realtà e soggetti diversi, con ciò facendo anche risaltare le loro differenze. Inoltre, la legge del mercato li pone non solo in collaborazione, ma anche in concorrenza: ogni soggetto che vi è implicato, prima era misura di se stesso. Dopo che vi è entrata, tutta l’organizzazione sociale di una società deve strutturarsi al fine di misurarsi con gli altri soggetti sul piano della laboriosità, dell’intraprendenza, dell’efficienza, dell’inventività ecc., qualità che derivano da una mentalità calcolatrice e utilitaristica che non tutte le civiltà spontaneamente condividono, che perciò spesso sono state costrette ad adottare a forza. Riportate sul metro dell’economia, tutte le diversità tra società e culture del mondo sono ridotte a differenze. Ognuna vi viene a trovarsi in gara con le altre: “più avanti” o “più indietro”.
Il presupposto è che il mercato porti vantaggio per tutti coloro che vi partecipino, che tutti vi si trovino alla pari, ma contrariamente a quanto pretende l’ottimismo razionalistico sotteso alla logica della scienza economica, niente in natura è pari a qualcos’altro.
Di fatto la condizione agonistica in cui ci si viene a trovare quando si entra nel mercato in certi casi stimola, in altri deprime e schiaccia. La pretesa di risolvere tutti i problemi di relazione tra gli umani entro la logica quantitativa economica è quanto meno semplicistica, la sua imposizione comporta una forzatura. È come un coperchio gettato sopra la realtà: appiattisce tutto. La realtà però – così compressa – prima o poi si ribella, gettando all’aria il coperchio che le era stato imposto. Il mondo reale, il mondo della vita, non sta più dentro la forzatura che si pretende di applicargli e, come dice Theodor Adorno: “il non identico diventa l’identità contro le sue identificazioni”.
La comparazione quantitativa delle diversità naturali è utile se è compiuta in piena coscienza che si tratta di un’operazione convenzionale, se condotta a fini euristici o per scopi pratici limitati e controllati: non può costituire l’orizzonte ultimo dei rapporti tra gli uomini.
Nondimeno, con l’inizio della globalizzazione negli ultimi decenni del XX secolo – dopo il fallimento dell’esperienza del socialismo reale – il mercato, nonostante le esperienze precedenti che di esso si erano avute, fu posto come principio universale del nuovo ordine mondiale.
Alla fine della Guerra fredda, durante la quale esso era stato piegato a ragioni ideologiche e politiche, la questione di un nuovo principio mondiale delle relazioni apparve straordinariamente semplice. Il quadro del nuovo ordine sarebbe stato offerto dal mercato, perché la valutazione che ne veniva data era ancora quella che aveva espresso Constant all’inizio del secolo XIX, nel saggio succitato: “Il commercio poggia sulla buona intelligenza reciproca delle nazioni, si sostiene in virtù della giustizia; si fonda sull’uguaglianza; prospera nella pace…”.
Constant peraltro non pensava che, con l’affermazione del primato dell’economia, la guerra sarebbe stata bandita per sempre. Nelle stesse pagine egli precisava infatti: “Ai giorni nostri, poiché la guerra non procura ai popoli alcun frutto e non è per essi che una fonte di preoccupazioni e di sofferenze, l’apologia del sistema delle conquiste potrebbe fondarsi soltanto sul sofisma e sull’impostura”. Riteneva cioè che la guerra potesse riproporsi nonostante il mercato, non a causa di esso.
Egli viveva agli inizi del capitalismo, senza poter disporre dell’esperienza storica successiva dei due secoli durante i quali le guerre per ragioni commerciali si erano fatte sempre più frequenti e gravi. Eppure, alla fine degli anni ’80 del XX secolo – come se nel frattempo nulla fosse successo – la globalizzazione veniva ripresentata come una leale competizione mondiale: bastava estendere la logica del mercato a livello planetario e tutti prima o poi avrebbero raggiunto la felicità.
L’euforia per questa scoperta trovò la sua sintesi icastica nello slogan della presidenza di Bill Clinton “It’s the economy, stupid!”, i cui echi aleggiarono sul mondo negli anni Novanta e oltre. In realtà si poteva ben sapere che le cose non erano così semplici. Il capitalismo aveva ormai due secoli di esperienza storica da quando Constant ne aveva fatto l’entusiastico elogio. Durante questo tempo il mercato mondiale e la concorrenza non si erano sviluppati spontaneamente: erano stati imposti dall’Occidente al mondo, e da questo subìti, anche se talvolta di buon grado, per gli effettivi vantaggi che offriva.
Non sempre, infatti, l’apertura al “libero mercato” tra paesi diversi è stata ottenuta con la forza, come per esempio dalla Cina con le Guerre dell’oppio, o nel 1853 dal Giappone con le cannoniere americane del Commodoro Matthew Perry. Ma resta il fatto che, almeno fino a un certo punto, cioè fino che i suoi protagonisti non si sono completamente omologati (e ciò nella realtà non avviene mai), lo scambio economico è sempre in qualche misura ineguale.
Non dipende dalla malvagità e dalla cupidigia di qualcuno (almeno non solo): è il pregiudizio razionalista che – come un letto di Procuste – comprime le diversità reali della vita sotto gli “automatismi oggettivi” dell’economia.
A causa del semplicismo e astrattezza del suo schema, il “libero mercato” risolve, almeno in parte, alcuni problemi umani, ma ne apre allo stesso tempo di nuovi e alla lunga di maggiori. Perciò a un certo punto bisogna abbandonare la logica di mercato e passare al suo esatto contrario: al protezionismo. E, quando neanche questo basta più, si passerà alla guerra, sicché quello che prima era il concorrente diventerà il nemico.
Queste non sono supposizioni: è ciò che è accaduto regolarmente in due secoli, e con due guerre mondiali nel corso del ‘900. A differenza di Constant nel 1814, noi nel 1990 potevamo essere ragionevolmente certi che, come il commercio sostituisce la guerra, così, inversamente, anche la guerra prima o poi sostituisce il commercio.
Dal mercato alla guerra

Nella competizione economica planetaria che si espandeva con la globalizzazione, i paesi occidentali – in particolare gli Stati Uniti – esaltavano la parità delle condizioni tra i concorrenti nel libero mercato. In realtà si trattava di una “parità iniqua”. I suoi promotori, infatti, mettevano sul piatto un immenso vantaggio storico (economico, scientifico, politico, relazionale) che restava fuori da ogni quantificazione.
A dire il vero, tentativi interessanti di misurare questo vantaggio, cogliendolo dall’impronta negativa sull’ambiente planetario lasciata dalla industrializzazione precoce occidentale rispetto al resto del mondo, sono stati fatti, ma una quantificazione economica complessiva del “vantaggio storico” (quindi non solo economico) che l’Occidente ha potuto spendere sul mercato mondiale credo resti impossibile.
Comunque sia, grazie a questo vantaggio incommensurabile, fino a un certo punto l’Occidente in generale e gli USA in particolare sono stati in grado di tenere la globalizzazione sotto il loro controllo. Nel ventennio dopo il 2000 e fino a oggi però, alcuni popoli, classi, gruppi sociali del mondo, hanno cominciato a colmare il loro “ritardo”.
L’iniziale “parità iniqua” della globalizzazione ha lasciato il campo almeno in parte a una “parità” più equa, meno sbilanciata a vantaggio delle potenze occidentali. Diversi paesi subordinati o “in ritardo” si sono guadagnati condizioni meno diseguali nello scambio internazionale, in qualche caso addirittura passando a loro volta in vantaggio.
Questo fatto nuovo non è stato accettato di buon grado da chi era abituato a dominare: se il gioco prende una piega meno favorevole, bisogna cambiarlo. Così quasi d’un tratto siamo entrati in una nuova fase della vicenda del mondo. La logica che pare imporsi non è più quella del mercato: è quella della contrapposizione e dello scontro sul terreno della forza.
Se non fossimo del tutto smemorati, questo non sarebbe una gran novità. Per l’esperienza storica che ne abbiamo sappiamo che il commercio a un certo punto deborda nella guerra.
Già Lenin nel 1917 scriveva, nel suo Imperialismo fase suprema del capitalismo:
In regime capitalistico non si può pensare a nessuna base di ripartizione delle sfere d’interessi e d’influenza, delle colonie, ecc., che non sia la valutazione della potenza dei partecipanti alla spartizione, della loro generale potenza economica finanziaria, militare, ecc. Ma i rapporti di potenza si modificano, nei partecipanti alla spartizione, difformemente, giacché in regime capitalista non può darsi sviluppo uniforme di tutte le singole imprese, trust, rami d’industria, paesi, ecc. (…) Pertanto, nella realtà capitalista (…) le alleanze interimperialistiche o ultraimperialistiche non sono altro che un momento di respiro tra una guerra e l’altra….
Il fatto che l’esperienza alternativa al capitalismo promossa dall’autore di queste osservazioni sia clamorosamente naufragata nell’iperastratta e oppressiva pratica dei piani quinquennali sovietici non toglie nulla alla pertinenza e alla lucidità della sua analisi critica. Fin dagli inizi del secolo XX era già evidente che la globalizzazione, la logica di mercato (la “parità iniqua”) e gli automatismi “economici” di cui era portatrice, non sarebbero bastati a regolare il mondo in modo da bandire per sempre la guerra.
Al contrario, la drastica semplificazione della realtà prodotta dal calcolo economico e il rigido disciplinamento in senso funzionale delle relazioni sociali risolvevano alcuni problemi atavici e miglioravano le condizioni di vita di una parte dell’umanità, ma ne stavano creando del pari di giganteschi o addirittura apocalittici per la sua totalità.
Dal “commercio dei beni” allo “scambio dei mali”

Dalla caduta del Muro di Berlino abbiamo avuto trent’anni di tempo per evitare la tragica reversione dallo “scambio di beni” del mercato allo “scambio di mali” della guerra, per guidare la globalizzazione oltre la mera logica dello scambio concorrenziale. Avrebbero dovuto essere gli anni della costruzione di un nuovo ordine mondiale, con un suo governo capace di correggere e riassorbire le conseguenze negative sistemiche del “trionfo dell’economia”.
Viceversa, il suo predominio si è esteso a ogni angolo del pianeta, traducendo le diversità in differenze e queste in disuguaglianze e tensioni sempre più acute. Come dice San Paolo del formalismo della legge, che “desta le passioni peccaminose” (Romani 7, 5), alla lunga quello della legge economica è destinato a rinfocolare contraddizioni sempre più insanabili e a creare più problemi di quanti ne risolva.
La Guerra fredda, che pure era stata anch’essa assoggettata al principio semplicistico dell’ economia dietro le ideologie (quella comunista e quella liberale), aveva comunque mantenuto viva sul suo orizzonte una tensione universalistica riguardo ai due problemi cruciali che la seconda guerra mondiale aveva fatto emergere: 1) la costruzione di un ordine mondiale autenticamente umano (cioè “concreto”, politico, non solo astrattamente economico); 2) la messa al bando definitiva della guerra, dopo che la comparsa sulla scena delle armi nucleari l’aveva resa “impossibile”.
A questi due problemi dagli anni Settanta in poi si sarebbe aggiunto un terzo, oggi divenuto il più urgente e drammatico di tutti: come salvare l’umanità dalla catastrofe ambientale, dato che il rischio di essa aumenta esponenzialmente in relazione al suo sviluppo.
La Guerra fredda non affrontò direttamente i primi due problemi che erano già allora ben evidenti e sfiorò soltanto il terzo che si stava affacciando. Rispetto a quest’ultimo, le due ideologie a confronto (quella liberale e quella comunista) erano entrambe ancora troppo impregnate di pregiudizi razionalistici, di economicismo e di ottimismo ottocentesco. I due primi, dunque, non li ha risolti, ma li ha almeno tenuti vivi alla coscienza mondiale, contribuendo significativamente a dare a quell’epoca un “colore” che non si può dire, nonostante tutto, che sia proprio cupo.
Per quanto mai in grado di svolgere un effettivo “governo del mondo”, l’ONU, che dell’afflato universalistico era la massima espressione storica, rimase per tutto l’arco di tempo del confronto Est – Ovest la principale camera di decompressione delle tensioni del mondo. Le armi nucleari vennero via via limitate con una serie di accordi e trattati che potevano aprire la strada alla loro definitiva messa al bando.
Nel trentennio successivo, quello appunto della globalizzazione testé concluso, invece, l’attenzione verso entrambi i due primi problemi dell’umanità si è allentata, mentre cresceva solo timidamente e troppo lentamente l’impegno sul terzo: ora il mutamento climatico è diventato la suprema, più diretta minaccia alla sopravvivenza dell’umanità.
Durante questo tempo, trovandosi nelle mani la bacchetta del direttore dell’orchestra, l’Occidente – e gli Usa che ne sono il capofila – trovarono comodo pensare che il mercato e la sua “mano invisibile” avrebbero messo tutto a posto. Il “libero mercato” però – dovevamo saperlo – è mantenuto fino a che la potenza dominante vi si trova in vantaggio. Quando non è più così, la musica cambia. Prima si comincia con il protezionismo, poi via via si ricorre alla pressione militare. Infine, alla guerra. È quello che sta succedendo.
Geopolitica: il nome “nuovo” dell’imperialismo

Dunque, nel trentennio della globalizzazione, sotto l’apparente parità dei soggetti delle relazioni di mercato, si cumulava il potenziale esplosivo di violenza a esse connesso. Per la segmentazione e crescente funzionalizzazione delle vite alla macchina economica e per la conseguente frammentazione degli orizzonti di gruppi e individui, sono regrediti durante questo tempo il senso di un orizzonte comune dell’umanità e la tensione universalistica.
Il neoliberismo, la semplicistica teoria economica ripescata dal passato che ha ispirato la globalizzazione in questo tempo di minestre riscaldate, si è legittimato ed ha potuto vivere di rendita sul fallimento del suo antagonista – la pianificazione economica centralizzata del socialismo reale – essendo questa ancora più semplicistica e astratta di lui. Ma nemmeno il formalismo neoliberista può celare per sempre l’essenza astratta e “innaturale” della relazione economica: il suo coperchio è saltato.
Quella in cui oggi siamo coinvolti non è una guerra come le altre cui abbiamo assistito negli ultimi decenni: conflitti localizzati, di attrito, di assestamento e di decompressione ai margini del sistema. Questa è il segno del collasso dell’ordine della globalizzazione. È “Guerra di sistema”, con la G maiuscola. Una guerra frontale tra potenze nucleari, per interposti attori e comparse, allo scopo di evitare – per ora e non si sa per quanto – l’apocalisse. Una guerra che ha il suo epicentro in un’Ucraina trasformata in un tragico “teatro”, mentre dietro le quinte si ridefiniscono altre “parità diseguali” del mondo, altri mercati.
Tutto ciò è divenuto possibile perché la tensione storica vitale dell’umanità in questo trentennio di globalizzazione è arretrata. Il trionfo dell’economia l’ha dispersa e indebolita. Così ha potuto tornare in auge la cosiddetta “geopolitica”, termine tratto dall’Ottocento, dapprima cioè che il Novecento la chiamasse con il suo nome più autentico: imperialismo.
Un primo sommario tentativo di bilancio

Come ho detto, durante il trentennio della globalizzazione le condizioni di vita di una parte consistente degli esseri umani sono effettivamente migliorate, ma contemporaneamente quelle di un’altra parte non trascurabile di essi sono peggiorate. I grandi problemi universali, del governo del mondo, della messa al bando della guerra e della imminente catastrofe ambientale sono stati quasi solo rimpallati e ingigantiti.
È stato un errore tragicamente colpevole aver puntato tutto sull’economia. Un autentico ordine mondiale non potrà mai essere raggiunto con la sola applicazione della sua logica quantitativa e “automatica”. Con la sua astrattezza, con il suo violento semplicismo, essa porta all’imbarbarimento delle relazioni sociali e internazionali.
Troppo facile, velleitario e utopistico è stato sperare che si realizzasse da sé – senza l’impegno diretto di miliardi di noi esseri umani – più di quanto ci impegnassimo volontariamente a fare, che come d’incanto nascesse un ordine per tutti, mondiale, mentre noi pensavamo ciascuno ai fatti propri. Se non si vuol credere alle favole e ai miracoli, si deve riconoscere che un ordine universale dell’umanità potrà essere realizzato solo se posto e perseguito consapevolmente come obiettivo comune, costruito e continuamente ricostruito a partire dalla constatazione del carattere complesso, non omologabile della vita reale.
Volgendoci indietro, nel momento in cui ce ne stiamo congedando, possiamo dire che questo trentennio di globalizzazione iniziato dopo la caduta del Muro di Berlino è stato un’epoca di crescita quantitativa e di regressione qualitativa, di poche luci e di molte ombre. Rispetto ai grandi problemi dell’umanità, un tempo di ristagno o di risacca. Il suo tempo, aperto dall’euforica promessa della “aurora dalle dita rosate” dell’economia, si chiude con i sinistri bagliori della Guerra.
Una controtendenza nella globalizzazione: l’Unione europea

Non sarebbe completo il bilancio del trentennio della globalizzazione (per quanto in ogni caso esso possa essere qui solo ultrasommario), se non dedicassimo un po’ d’attenzione a un cospicuo fenomeno di controtendenza che in quest’epoca si è manifestato. Mi riferisco alla nascita e allo sviluppo della UE.
L’Unione europea pur con tutti i suoi (gravi) limiti e incertezze, ha – si può dire – seguito un percorso inverso rispetto a quello per lo più compiuto in questi ultimi decenni dagli affari del mondo.
Quella che è oggi la UE nasce bensì dalla globalizzazione ma dall’esigenza di coordinare il mercato in una zona del mondo – l’Europa appunto – ricca (in vantaggio) ma frammentata, destinata perciò all’eclisse nell’epoca di confronto tra grandi stati o complessi continentali. Per quanto la base della sua legittimazione fosse economica, e la sua ispirazione ideologica fosse il liberismo, la UE ha dovuto, per il solo fatto di istituire una comunità, sia pure solo economica, assumere ruoli sempre più decisamente politici. Non c’è comunità senza politica.
Quando Christine Lagarde, fresca di nomina a presidente della BCE, in una criticatissima conferenza stampa dichiarava: “non siamo (la BCE) qui per chiudere gli spread degli stati membri della Banca” ribadiva formalmente il principio tecnico-economico su cui questa istituzione era stata inizialmente fondata. Lei stessa però doveva rendersi conto che una rigorosa tecnicità nella prassi della BCE ne avrebbe ben presto reso impossibile la sopravvivenza, e, con questa, quella dell’Unione.
Al contrario, il celeberrimo “Whatever it takes”, di Mario Draghi, del 2012, aveva esplicitamente, e per la prima volta, manifestata l’essenza politica dell’Unione. Era il riconoscimento solenne che una comunità non può esistere solo “economicamente”, senza una politica a farle da motore e da quadro. Quest’essenza politica ha costretto l’Unione, per far fronte ai problemi della armonizzazione delle economie della sua area, a occuparsi sempre più degli aspetti extraeconomici delle relazioni interumane.
Così l’Unione ha iniziato a percorrere quasi preterintenzionalmente – per aspera ad astera – la via che dall’economia conduce alla politica. Mentre la globalizzazione scomponeva e dissolveva le comunità tradizionali, traduceva ovunque le diversità in differenze, e queste in disuguaglianze e contraddizioni, l’Europa si ricomponeva: si costituiva in una comunità riflessiva di tipo nuovo.
La UE è la prova vivente di quanto sia difficile, ma non impossibile, ricostruire consapevolmente dalla violenta astrattezza dell’economia e del mercato il vivo intreccio delle relazioni interumane, non vivisezionandolo come fa l’economia, ma ordinandolo entro quadri di sintesi via via sempre più concreti ed efficaci.
Ma la logica della relazione e dell’integrazione ha bisogno di pace per condurre il suo delicato lavoro di tessitura. Essa si scontra con l’urgenza degli Stati Uniti, oberati dai costi militari crescenti dell’impero, di passare dalla dialettica del mercato a quella della forza. Il loro primato di potenza ed economico nel mondo si è andato rapidamente deteriorando negli ultimi anni. La Russia si ribella all’ordine impostole nell’ultimo trentennio. Crescono sempre più agguerriti concorrenti, come la Cina, o… l’Europa stessa.
Europa schiacciata, Italia al grado zero

Questo brusco cambio di quadro appiattisce e marginalizza l’Europa. In questa situazione si inscrive la caduta del governo Draghi. Non bisogna dimenticare che l’ex banchiere centrale era stato inviato dalla UE nella veste di commissario con un carico di soldi da spendere per tentare di riallineare l’Italia agli standard di efficienza, soprattutto pubblica, europei. Il pesante indebolimento della UE prodotto dalla guerra si è tradotto quasi immediatamente in un indebolimento di Draghi, mentre le gravi ripercussioni di quella sulle economie dei paesi europei hanno ridimensionato l’impatto e l’efficacia del PNRR.
Ciò ha dato una scossa galvanica a una politica nazionale italiana tecnicamente morta, specchio di un paese da tempo bloccato, assopito, frammentato da un berlusconismo all’apparenza irreversibile, scritto, come il fascismo – ora di nuovo ritornante – nel suo DNA. Nel “teatrino” della politica italiana tutto ciò che accade oggi sembra futile, che la polvere conti più dei macigni. Ma non è così. Se questa è l’impressione è perché i macigni sono già crollati da tempo e nell’aria resta a volteggiare solo la polvere.
Non sarà una scossa politica interna a dare una direzione al paese perduto nelle sabbie mobili. L’Italia sta vivendo esausta e rassegnata una sorta di eterno ritorno a un fascismo che le serve da foglia di fico per coprire la sua atavica ignavia sociale e civile. I suoi problemi non sono per loro stessi insormontabili: semplicemente essa non ha in sé abbastanza energie per affrontarli. Sarà forse il gigantesco terremoto che lo scontro tra imperialismi sta provocando, squassando il vecchio ordine ormai obsoleto della globalizzazione, a liberare dal profondo le energie che le sono necessarie.
Per quanto riguarda l’Europa, anch’essa sta vivendo la sua prova della vita. La costruzione della sua originale identità – la transizione governata dall’astrattezza dell’economia alla concretezza complessa del mondo della vita – è un’impresa epocale e senza precedenti, che finora essa ha condotto a un livello poco più che iniziale. La sua “via lunga” è opposta alla scorciatoia della Guerra verso il baratro. Perciò in questa nuova situazione essa boccheggia come un pesce fuor d’acqua: deve essere consapevole che nessuna incertezza, nessuna debolezza, nessuna prova le sarà risparmiata.
Essa sconta il fatto di non avere abbastanza scavato e plasmato la sua originale identità, di non avere esplicitato le potenzialità universalistiche e le conseguenze strategiche globali della sua esperienza. In questo momento è necessario che diventi pienamente consapevole che può rappresentare nel mondo l’unica seria alternativa. Tanti e immensi sono i problemi e gli ostacoli sulla sua strada. Non è detto che riesca a percorrerla. Ma se non ci riuscisse sarebbe una grande sciagura per tutta l’umanità.

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