La prima volta che sono andato a Monaco di Baviera, nel 1989, per partecipare assieme a mia moglie alla sua ordinazione sacerdotale, padre Jakob Paula come primo luogo da farci visitare della sua amata città ci portò al Campo di Concentramento di Dachau. Un breve tragitto di poche fermate con la linea S2 del treno urbano. Una scelta, la sua, che mi ha interrogato tutti questi anni che hanno accompagnato la nostra amicizia e che ha trovato un ulteriore elemento di riflessione nel 2016: dopo anni di impegno come prete diocesano in diverse parrocchie (l’ultimo nella parrocchia “Frieden Christi” del Villaggio Olimpico) il mio amico ha ottenuto dall’arcivescovo, il card. Reinhardt Marx, l’autorizzazione a vivere come eremita nei pressi del campo di Dachau, nel comprensorio del convento delle suore carmelitane di clausura che è a ridosso delle mura del Campo di concentramento. Con le carmelitane celebra alle 6 di mattina le Lodi e alle 7 la Messa, per poi condurre per il resto della giornata una vita da eremita, compreso il lavoro nell’orto per coltivare patate, carote, cavoli, rape.
Non so se c’è un nesso tra questa decisione (la richiesta di padre Jakob al Cardinale era stata avanzata già l’anno prima) e quella assunta da Marx l’anno successivo, nel 2017: quella di istituire per il 12 giugno una giornata dedicata ai martiri di Dachau. Da un punto di vista canonico significa che quel giorno tutte le parrocchie della diocesi celebrano la Messa in ricordo dei Martiri di Dachau. Anche in questo 2022 la giornata è stata celebrata in maniera particolarmente solenne per una serie di circostanze: ricorre quest’anno l’80simo anniversario dell’uccisione della maggior parte dei Martiri di Dachau. Infatti moltissimi di essi furono uccisi nel 1942, e tra questi il primo ad essere proclamato Santo: padre Titus Brandsma, un carmelitano olandese, giornalista e assistente dei giornalisti cattolici olandesi negli anni dell’occupazione nazista. Padre Titus Brandsma è stato proclamato Santo da papa Francesco quest’anno, il 15 maggio in San Pietro, e il 26 luglio è stato l’ottantesimo anniversario della sua uccisione con una iniezione di acido fenico.
Prima di spendere qualche parola per questa figura straordinaria di grande attualità (in Germania e Olanda è partita una petizione al Papa per far proclamare padre Titus patrono dei giornalisti), è opportuna una spiegazione su cosa sono i Martiri di Dachau.
In questa struttura sono passate (dal 22 marzo 1933 al 29 aprile 1945) oltre 200mila persone, di cui una buona metà sono state uccise sul posto (molti altri uccisi in altri Campi). La peculiarità di questo Campo è quella di essere stato il luogo di internamento e tortura non solo di Sinti, Rom e poi Ebrei, ma soprattutto di “nemici politici” del regime di Hitler. Padre Titus era uno di questi, perché in Olanda si batté contro l’ideologia nazista; ma lo furono soprattutto un numero impressionante di preti polacchi. L’occupazione della Polonia da parte della Germania e la sua riduzione a Governatorato, comportò come prima mossa l’eliminazione fisica di quelli che con Gramsci chiameremmo gli “intellettuali”, cioè le personalità in grado di creare una opinione nel proprio popolo, di guidarlo, in grado di esserne l’anima: quindi docenti universitari, professori di liceo, giornalisti, professionisti e, trattandosi della Polonia, soprattutto dei preti cattolici.

Ovviamente tutte le persone morte a Dachau e negli altri Campi di concentramento possono essere da noi considerati martiri, martiri laici, perché la loro morte è testimonianza per noi tutti, testimonianza dell’orrore che deve suscitare la morte di un innocente, e dell’orrore che deve suscitare una ideologia totalitaria. Il termine martire, nella Chiesa cattolica significa qualcosa di più specifico: quando la morte della vittima per mano dell’aguzzino avviene “in odium fidei”, vale a dire motivata dall’essere la vittima un fedele di Gesù Cristo. In tal senso, parlando di martiri in senso più stretto, per attribuire questo titolo la Chiesa cattolica porta avanti una sorta di “processo” (prima in sede locale e poi in sede centrale in Vaticano) in cui si raccolgono le testimonianze sulla vita e sulla morte della persona, che quindi può poi essere anche proclamata Beato (il culto è ammesso a livello locale) e poi Santo (il culto è universale). La maggior parte dei santi e dei martiri sono anonimi, e questo vale soprattutto per Dachau, perché è difficile che i parenti e gli amici di una persona normale abbiano i mezzi per raccogliere le testimonianze su di essa. Ed è la ragione per cui la stragrande maggioranza dei Santi e Beati sono preti, religiosi o suore, perché l’Ordine o la Diocesi a cui appartenevano hanno i mezzi per raccogliere le testimonianze.

Tornando a Dachau va detto che nel Campo furono internati 2.700 religiosi cattolici, di cui 1.780 polacchi! Di questi circa duecento sono stati riconosciuti martiri, 57 sono stati proclamati Beati, 47 dei quali sono polacchi. Dal 15 maggio c’è anche un Santo, appunto padre Titus Brandsma, il primo Santo di Dachau. Il flyer che l’Arcidiocesi ha preparato per il 12 giugno di quest’anno reca i tomi di tutti i martiri e quelli polacchi dominano. Se si ha il “coraggio” di digitare su un motore di ricerca i nomi di ciascuno questi uomini, emergeranno per molti di essi le fotografie: sono per la maggior parte dei casi volti di uomini giovani e giovanissimi, anche con meno di trent’anni. Una visione che lascia senza fiato.

Dopo la mia prima visita a Dachau nel 1989, ho spesso collegato la decisione di padre Jakob Paula alla memoria che la Chiesa tedesca ha tenuto viva dei propri esponenti che seppero opporsi al nazismo, proprio in nome della loro fede. Tuttavia quel collegamento che ho spesso fatto non è corretto, o almeno lo è solo in parte. Dachau è un luogo di martirio di innocenti provenienti per la stragrande maggioranza da altre nazioni (ci sono anche alcuni tedeschi e anche italiani, come padre Giuseppe Girotti o Giovanni Palatucci) soprattutto dalla Polonia. Come ha spiegato il cardinal Marx, il ricordo dei martiri di Dachau (non solo di quelli ufficialmente riconosciuti tali dalla Chiesa), è innanzi tutto la memoria delle vittime stesse, è il proclamare che la loro è stata una vita degna di essere vissuta in quel modo; e in secondo luogo è la memoria dell’orrore che uno dei popoli più civili d’Europa ha compiuto. In tal senso va apprezzato l’impegno che la Chiesa cattolica continua a profondere a servizio dell’intera Germania in questa direzione, perché non dimentichi, e in particolare quello dell’Arcidiocesi di Monaco per quel che riguarda Dachau.

Quest’anno, dunque, è l’ottantesimo anniversario del martirio di quaranta dei 57 Beati e Santi (ora che tra questi c’è padre Titus) di Dachau, ed è giusto che il giorno memoriale di ciascuno di essi padre Jakob celebri la Messa nel convento delle Carmelitane con particolare intensità. La Lettura del volantino del 2022 con tutti questi nomi polacchi – ai miei occhi – attualizza questa ricorrenza in una direzione drammatica, quella dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin. Non voglio fare paragoni forzati ma dalle notizie che sono sin qui arrivate dal teatro di guerra, il modus operandi delle truppe di invasione russe ricorda quello delle truppe di Hitler in Polonia in un punto specifico (oltre alle atrocità gratuite): quello della sistematica uccisione di insegnanti, professionisti e preti (della Chiesa ortodossa ucraina) nei villaggi conquistati. Questo modo di agire, scoperto dopo che la controffensiva ucraina ha liberato villaggi e cittadine a nord di Kiev inizialmente occupate, ci fa capire che l’obiettivo di Putin era quello di fare dell’Ucraina né più né meno che un Governatorato simile a quello messo in piedi da Himmler in Polonia nel 1939: con un elemento in comune tra le due situazioni, vale a dire il razzismo dell’occupante verso il popolo occupato, e il tentativo di togliergli l’identità attraverso l’uccisione degli uomini che ne potrebbero costituire l’anima.

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