Camminare la poesia col quaderno in tasca, il centro della periferia

La poesia di Pasquale Di Palmo.
GIANCARLO SISSA
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Pasquale Di Palmo è un poeta che ama camminare. Con un quaderno in tasca. Perché camminare significa accorgersi di ciò che accade fuori e dentro di noi, mentre percorriamo il paesaggio, i paesaggi, quelli proposti – imposti? – dal territorio e quelli d’anima, quelli che a loro volta ci percorrono. Camminare diventa qui un modo per sapere meglio chi siamo e chi siamo stati. Cosa che anche la poesia può fare, quando viene frequentata con severo scrupolo, con acuta dedizione, come esercizio di civiltà. Del resto, cosa sarebbe la cultura europea, non solo poetica, degli ultimi due secoli – e forse davvero ultimi! – senza i passi di Baudelaire lungo le malinconiche strade d’alba di Parigi? O senza gli aspri passi di Rimbaud verso un Sud feroce e incandescente? O senza l’incedere raccolto e schivo di Robert Walser? Per citare solo alcuni fra gli autori che meglio hanno compreso cosa significa percorrere la modernità e il disagio che ne deriva.

Scrivere poesia è dunque anche un modo di camminare dentro noi stessi, attraverso le nostre più intime contraddizioni, smarrimenti, sbandamenti, minime gioie, improvvise consapevolezze, alla ricerca di quel varco attraverso il quale le cose corrispondono alle parole che le nominano, le pensano, le tentano, lì dove il paesaggio del mondo e quello del pensiero del mondo si rispecchiano, reciprocamente illuminandosi in una trama autobiografica fatta di incontri, esercizi di vera pietas, di stremate malinconie crepuscolari, di ruvidi dribbling su campetti infami di polvere e terra non irrigata, dura come cemento, dura come la realtà.

Ed è un tragitto di scrittura – in versi, in prosa, in lingua, in dialetto veneziano – di oltre vent’anni quello che Pasquale Di Palmo – poeta, critico, traduttore dal francese, grande esperto del Surrealismo come della coeva folgorante eresia del Grand Jeu di Daumal e Gilbert-Lecomte, raffinato esegeta di Artaud – ha deciso di ripercorrere e organizzare in una scelta antologica accurata, meticolosa, spiazzante. Già dal titolo Breviario delle rovine – titolo fortissimo e incisivo i cui estremi trovano i propri sinonimi fra termini quali compendio, sommario, libro liturgico, macerie, relitti – comprendiamo di trovarci fra le mani una ipotesi di lettura del mondo fortemente caratterizzata da una idea di fallimento, di disastro, di profondo e consapevole declino, senza peraltro che tutto questo rimandi a un ipotetico prima preferibile o migliore, edenico o incorrotto. Viene in mente, una volta di più, il Baudelaire dei Tableaux parisiens, del più consapevole Spleen, dei cosiddetti «sogni mali», secondo la splendida traduzione di Gesualdo Bufalino, dove la realtà viene esplorata e restituita nei suoi colori meno rassicuranti, come in uno specchio sfiorato dalla nebbia del mattino, incrinato dalle spossatezze della notte.

Eccoci allora a rileggere le precise scelte d’esordio di Horror Lucis (1997) e le tracce d’ombra e di smarrimento esistenziale del magnifico Ritorno a Sovana (2003) il cui incipit ha una allure programmatica inequivocabile («EN, se male/ non ricordo, contro il male/ di ogni giorno./ Due semplici iniziali per sparire.») in special modo se considerato in dialogo con la citazione da René Daumal che apre la raccolta («Je ne suis pas venu au monde/ pour combattre mon ombre,/ ni pour trouver un jour mes poingsbecquetés par les faisans); e ancora, il farsi minaccioso del paesaggio nell’inquietante incedere delle immagini di Marine e altri sortilegi (2006), dove troviamo segni di un’angoscia non risolta che si è fatta nel tempo algida compagna di viaggio («dove il vento delira intorno al faro») e che si esprime in una pronuncia ossimorica raggelante («per nascondersi tra i rami/ folgorati di quel mandorlo/ a cui pende, mano/ mozzata, il tenero presagio delle gemme».

O ancora «Ecco il sole lebbroso che dispensa/ i moncherini dei rami/ in quest’aria di acquamarina», e ancora «Non pensare, non pensare,/ “pensare di non pensare” il ritornello/ che ti lacera il cervello.») a indicare una ipotesi tremenda di indebolimento della tenuta psichica e della conseguente inermità dello scrivente rispetto alle energie meno limpide della realtà cui però prestasoccorso il «quadernetto di poveri appunti» di cui si faceva cenno in apertura di questo nostro dire, vero e proprio talismano esistenziale; per approdare, nel 2015, dopo un silenzio durato quasi dieci anni, allo struggente Trittico del distacco, dedicato alla morte del padre dopo malattia e dove una volta di più il dialetto di Venezia e la lingua interagiscono con effetti di emozionante prossimità a un’idea non solo privata di destino – che da personale sa farsi sociale – e condivisa nell’apertura a tutta una galleria di personaggi e incontri, di destini appunto, che la storia e il quotidiano – e il quotidiano con le sue storie – collocano sul cammino del poeta: da Addio a Mirco (creatura suicida poiché umiliata nella sua fragilità), alle figure di ragazzi down che «spaesati, a gruppetti di quattro/ di sei di otto,/ tenendosi per mano,/ le lunepiene dei volti// (…) Si inebriano per un gelato,/ piangono per un nonnulla./ In realtà sono loro che dovrebbero/ avere di noi compassione», ad altre ancora cariche di dolente luminosissima umanità, ma, e di nuovo, comprese anche entusiasmanti e rovinose partitelle di calcio fra amici, ragazzi, «nei pomeriggi d’estate sui campetti spelacchiati di qualche oratorio.» o d’inverno «giocate in cappotto» con la stessa «sfrontata allegria» che si riconosce oggi nel proprio figlio – dopo che l’età e i casi della vita ci hanno portato a saperci padri dei nostri padri («Io, diventato padre di mio padre./ Tu, diventato figlio di tuo figlio.», nella bellissima sequenza intitolata Centro Alzheimer),

E arrivare a La carità (2018), raccolta nella quale i temi sin qui accennati si compendiano tutti – il camminare, la rilevanza del disagio esistenziale e sociale che caratterizza la vita di molti nei luoghi delle periferie delle città moderne, la figura del padre, il dialetto veneziano, le prose liriche dedicate al gioco del calcio, gli incontri con figure di esposta fragilità e smarrita emarginazione – in un linguaggio che si conferma – raccolta dopo raccolta – nella sua limpida severità e ineludibile precisione, senza ombra di dubbio il più adatto – il più onestamente adeguato – a significare e a raccontare la profonda ricerca di autenticità e di condivisione dell’umano che, con parola immensa e ardente, chiamiamo carità, appunto.

Chiudono l’antologia la raccolta Vertebre (2020) in dialogo con l’opera grafica di Giorgio Bertelli e con l’aggiunta di un testo inedito, La barena vista dalla polveriera (del 2021) e una Canzone delle torri telemetriche (2020), poemetto dedicato al tema della pandemia e del quale vorrei citare alcuni passaggi che, nella loro evidente e pietosa crudezza, testimoniano una volta di più della pietas e della carità che informano tutta l’opera di Pasquale Di Palmo:

(…)
Si parla dell’orrore dei forni,
delle fosse
comuni, lo sguardo si smarrisce
tra le pareti
riandando al tragitto
che porta al faro
di Punta Sabbioni
dove mi recavo quando stavo male,
con l’intento di esaurirmi
a forza di camminare.
(…)

Dicono che niente sarà più come prima.
Ma com’era questo «prima»
se non vita invivibile,
d’accatto, in cui ogni valorese edifica sul profitto
più bieco, sul più bieco edonismo
sulla vertigine di giorni
che si susseguono senza senso
– non l’uomo, ma il Pil, il Pil …-
tesi, per compensazione,
al consumo, al piacere
più degradato e spicciolo
che ancora evita l’unanime deriva?

L’antologia di Pasquale Di Palmo è soprattutto, a ben guardare, una autobiografia poetica – o, se si preferisce, una biografia della propria opera in versi –  e in quanto tale  non si sottrae alle evidenze della contemporaneità, alle asprezze dell’oggi, non cerca facili sublimazioni o maschere di retorica, ma si espone con fermezza, traduce la fragilità propria (e di tutti noi) in presenza e in adesione, malinconia certo, disfatta forse, ma mai distante sufficienza, compiutezza piuttosto, profonda corrispondenza dell’umano con le proprie declinazioni nelle grammatiche dell’esistenza. Perché la poesia, oggi e in ogni tempo, non può dirsi tale se non sa accogliere, anche, i tribolatissimi interrogativi dell’uomo che vive il disastro del presente senza rinunciare a cercare di coglierne il senso occulto.

E forse, tuttavia, il male del nostro tempo contiene proprio in sé celato – o svelato da una manciata di versi? – l’ipotesi d’una sorta di rimedio omeopatico e antichissimo, noto ai figli e ai padri dei quartieri popolari di tutto il mondo, che sfuma nel ricordo o nel sogno ad occhi aperti, dove la sconfitta si configura come errore sorridente, vessillo della simpatia umana e del riscatto:

Sogno ancora di essere l’adolescente
che gioca interminabili partite
sulla piattaforma in cemento della Gescal,
con il vento che affila volto e fianchi,
la palla servita
al compagno più imbranato
che spreca l’occasione imprecando
nel sole allucinato delle due e quaranta.

E forse la poesia è proprio quell’occasione sprecata, quell’imprecazione dalle guance sudate.

Pasquale Di Palmo,
Breviario delle rovine,
Medusa, 2021,
19,50 euro

Immagine di copertina: Pasquale Di Palmo da Poesia del nostro tempo

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Camminare la poesia col quaderno in tasca, il centro della periferia ultima modifica: 2022-08-18T11:25:39+02:00 da GIANCARLO SISSA
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