Nel novembre del 2020 gli Usa hanno cancellato l’East Turkestan Islamic Movement (Etim) dalla lista dei gruppi terroristi. La ragione, ha spiegato il dipartimento di stato, è che “da oltre un decennio non si hanno prove credibili che l’Etim esista ancora”. Eppure l’inseguimento di questo fantasma è il principio guida della politica cinese in Afghanistan. East Turkestan è il nome che i nazionalisti uighuri danno alla provincia cinese del Xinjiang, ricca di risorse naturali e abitata da circa tredici milioni di musulmani in gran parte uighuri o di altre etnie minoritarie come i kirghizi.
Per Pechino è infatti essenziale che i nuovi governanti del paese, i Taliban, “non permettano attività terroristiche contro la Cina” a partire dal loro territorio e citano continuamente “la minaccia” dell’Etim nelle loro interazioni con gli aghani e con tutta la comunità internazionale.
L’Etim esisteva negli anni ottanta, quando l’allora numero uno cinese Deng Xiaoping inviò i suoi militanti in Afghanistan per combattere contro gli invasori sovietici, prendendo i due provierbiali piccioni con una fava: contribuiva alla mobilitazione antisovietica e si levava di torno dei pericolosi terroristi.
Col tempo, il gruppo si è estinto. Nel 2001, quando gli americani intervennero in Afghanistan per attaccare le basi di Al Qaeda e i suoi protettori Taliban, furono arrestati 22 (ventidue) uighuri. Nel Xinjiang, mentre Pechino mandava nei campi di rieducazione 1,8 milioni di musulmani, ai quali è vietato praticare la loro religione nel modo che ritengono più consono, non si sono verificati atti di resistenza organizzati. Gli episodi di violenza che ci sono stati sono chiaramente frutto di iniziative mal organizzate di individui esasperati dalla feroce repressione. La resistenza uighura è in gran parte non violenta ed è gestita dalla diaspora e in particolare dal World Uyghur Congress, che è riuscito con una massiccia campagna d’informazione a far conoscere e condannare in tutto il mondo i campi di rieducazione cinesi. Pechino, dunque, chiede ai Taliban di garantire la “sicurezza” dei suoi confini. I rapporti tra la milizia integralista e la Cina sono buoni, grazie anche all’intermediazione del Pakistan, che controlla i Taliban ed è un alleato “di ferro” di Pechino. Inoltre, essendo l’Afghanistan un paese poverissimo, gli investimenti cinesi sarebbero benvenuti.
I cinesi vigilano sulla frontiera tra Afghanistan e Xinjiang da una base nel Tajikistan il cui controlllo gli è stato ceduto dal governo di Dushanbe. Il parlamento tajiko – che in realtà si limita a confermare le decisioni del governo – ha approvato un progetto per la costruzione di una seconda base cinese nei pressi della frontiera tra i tre paesi.
Non solo: la presenza di militari cinesi nella base militare di Bagram, settanta chilometri a nord di Kabul, usata in passato da sovietici, afghani e americani è stata denunciata dalla rivista americana AND, che ha citato sue fonti sul posto. Secondo la rivista nella base i cinesi stanno addestrando militanti dell’Haqqani network, la milizia tribale alleata dei Taliban e il capo della quale, Sirajuddin Haqqani, è il ministro degli interni nel governo al potere a Kabul. AND aggiunge che nella base sono presenti anche esponenti dei servizi segreti militari pakistani (l’InterService Intelligence, Isi) – cosa che non può sorpredere dati gli stretti legami tra l’ esercito di Islamabad e i Taliban – e delle Guardie Rivoluzionarie iraniane.

Il fondatore e direttore di AND, Charles “Sam” Faddis, è un ex-agente della Central Intelligence Agency e in questa veste ha probabilmente delle fonti attendibili. Però è un esponente della destra filo-Trump e un amante delle teorie del complotto e la rivista è dedicata più che altro a dimostrare che tutto ciò che fa e dice il presidente democratico Joe Biden è sbagliato.
In seguito la notizia, anche se con un punto interrogativo, è stata ripresa dal Salaam Times, pubblicato dal dipartimento della difesa americano, che dedica molto spazio all’Afghanistan. Salaam Times cita un tweet di Amrullah Saleh, ex-vice presidente dell’Afghanistan ed ex-capo dei servizi segreti, secondo il quale “diverse fonti” sostengono che “addestratori stranieri” stanno lavorando a Bagram con le reclute degli Haqqani. Abdul Basir Salangi, ex-governatore della provincia afghana del Parwan oggi in esilio, ha sostenuto che “esiste una forte possibilità che i cinesi addestrino militanti dell’Haqqani network a Miranshah, Peshawar e Quetta”, tutte località in territorio pakistano a ridosso del confine con l’Afghanistan.
Quello che è certo è che, come ha affermato l’analista Jennifer Murtazashivili, corteggiare i Taliban e’ per Pechino “una necessità”, per mantenere il controllo sui confini con l’Asia centrale, una delle culle del fondamentalismo islamico. La migliore garanzia che né i Taliban, né gli Haqqani, né altri gruppi dell’internazionale islamica del terrore decidano in futuro di aiutare i per ora dimenticati “fratelli uighuri”, viene proprio da Islamabad e dal controllo che essa esercita sulla galassia integralista. Non per niente i rappresentanti cinesi hanno bloccato nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, la designazione di “terroristi globali” di due “guerrieri santi” che frequentano assiduamente il Pakistan: Abdul Rauf Azhar, responsabile del dirottamento di un aereo indiano nel 2010, e di Abdul Rehman Makki, dirigente del gruppo terrorista Lashkar-e-Toiba e cognato del fondatore e capo del gruppo Hafiz Saeed.

Non ci sono segni dell’Etim – o di quello che secondo Pechino sarebbe il suo successore, il Turkestan Islamic Party o Tip – ma in Afghanistan ci sono circa cinquecento famiglie di uighuri che si sono trasferite nel paese negli anni passati i cui membri rischiano ogni giorno di essere additati quali “terroristi anticinesi” e addirittura di essere consegnati alla Cina, dove li attendono i campi di rieducazione.
Il ministro degli esteri cinese Wang Yi , nel marzo di quest’anno, ha lodato i Taliban affermando che “hanno fatto grandi sforzi per stabilizzare la situazione e per provedere beni di prima necessita’, qualche volta con successo”.
Un governo “stabile” è indispensabile per Pechino anche per garantire gli investimenti che ha intenzione di fare nello sfruttamento delle miniere afghane ricche di litio, di terre rare e di altri minerali preziosi. Tra le miniere che hanno attratto l’attenzione dei cinesi c’è quella di Mes Aynak, vicino alla quale si trovano le rovine di una città vecchia di duemila anni che rischia di essere distrutta dall’attività estrattiva. Contatti per l’intervento cinese nelle miniere sono in corso da un anno ma ancora non hanno raggiunto risultati concreti.
L’Afghanistan potrebbe anche fungere da anello di congiunzione tra il China Pakistan Economic Corridor (Cpec), il fiore all’ occhiello della Nuova via della seta, il megaprogetto infrastrutturale di Pechino, e l’Asia centrale. Sicurezza, economia e l‘esistenza di un pericoloso nemico comune, gli Usa, spingono allo strano matrimonio tra i comunisti atei di Pechino e i fanatici religiosi di Kabul.
La Cina appare destinata dunque a impantanarsi sempre di più nelle sabbie mobili afghane.

Immagine di copertina: Aiuti umanitari cinesi a Kabul.

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