Nelle prime scene del film di Pier Paolo Pasolini, Medea, l’eroina greca, interpretata da Maria Callas, sovrintende a un pasto singolare. Un giovane, incredulo e terrificato, è condotto di fronte a una folla disposta in cerchio e fremente, come intorno a una tavola. È legato a un tronco e strozzato; il suo corpo frantumato in tanti pezzi dall’ascia di un sacerdote-guerriero e offerto alla folla, che vi si avventa e lo sparpaglia, con il sangue gocciolante, nei campi destinati alla semina. Il corpo della vittima è il tropo della fertilità che sostenterà la comunità, che, così, non conoscerà le lotte dilanianti della sopravvivenza, pericolosamente innescate dalla scarsità e dalla carestia. I residui del corpo, privi di significato simbolico, sono inceneriti, aboliti. Dinanzi allo sguardo impassibile di Medea, si consuma un rito sacrificale atroce, nel quale la vittima primordiale è ancora sostituita con un essere umano. La sopravvivenza di questo rito, come pharmakos della crisi, nel mondo greco del V secolo, è testimoniata dalla tragedia ateniese (ad esempio, sempre da Euripide con Ifigenia in Aulide, ma anche, nella Medea, quando la nutrice di Medea esprime il timore che la regina possa placare la sua ira, appena esplosa, con un sostituto di Giasone).
Per spiegare l’origine dell’appartenenza, del collettivo e dell’umanità stessa, Michel Serres fa riferimento alla catena di assiomi dell’antropologia di René Girard: il desiderio umano è sempre mimetico e triangolare, perché tra il soggetto desiderante e l’oggetto del suo desiderio c’è sempre un mediatore; la violenza è generata dalla rivalità mimetica, acuita da crisi anomiche o da catastrofi improvvise in seno al gruppo; solo la religione può mettere un argine alla violenza mediante il sacrificio di un individuo solo, successivamente sacralizzato perché ha permesso di ristabilire l’ordine, le differenze e la riconciliazione, oppure mediante la rinuncia al sacrificio, come accade con il cristianesimo, che ha rivelato il “meccanismo vittimario” e l’innocenza della vittima. Da qui la consuetudine di Serres a distinguere tra le religioni del “sacro” e le religioni della “santità”, distinzione più adeguata ai suoi occhi di quella tra politeismi e monoteismi: le culture umane provengono tutte dalla religione, ovvero da un “omicidio fondatore”, perpetuato e occultato come tale, nei rituali, nei miti e nelle leggende. E Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini celebra appunto l’avvento di una religione della santità e l’umanità “sublime” e “divina” di Cristo.

La rappresentazione di individui dotati di una ratio naturalis, strategica o strumentale, che si accordano con un “patto di unione” o pactum societatis, perno della tradizione contrattualistica della filosofia politica moderna, è solo un ulteriore fantasma che contribuisce al disconoscimento del sacrificio primordiale: effettivamente, prima dell’atto fondativo vige la condizione descritta dall’homo homini lupus, ma nel senso che, come le fiabe allegoriche rivelano più della filosofia, ogni uomo si candida a essere carnefice o vittima, capro espiatorio o membro del branco assassino. Con Il parassita del 1980 (ora disponibile in versione italiana nelle edizioni Mimesis), Serres ha già scoperto che, nell’ordine del vivente, non solo la relazione precede l’esistenza, ma è il parassitismo che precede le relazioni di scambio, reciprocità, contratto, e la legge antropologica girardiana in base alla quale, per scacciare la peste e il contagio distruttivo della violenza, il gruppo si rinsalda nella violenza del sacrificio, con la scelta di un capro espiatorio, appare un caso speciale e cruciale di parassitismo. Nel film di Pasolini, appunto, la folla simbolicamente mangia le carni e beve il sangue di un suo membro, facendone concime per i raccolti di grano a venire. È un pasto differito nel tempo. Parassita è anche e innanzitutto il gesto di far convergere l’odio e la violenza della molteplicità sull’uno, sul singolo, permettendo così alla molteplicità di ritrovare la coesione e l’unità:
Il collettivo è una scatola nera. Ma, se posso osare: ciò che è più nero nella scatola nera è l’insieme dei passaggi dal molteplice all’uno e dall’uno al molteplice (M. Serres, Roma. Il libro delle fondazioni, Mimesis, Milano 2021).
Lapidazione, linciaggio, diasparagmos (sacrificio del re) sono per Serres il banco di prova per la validazione della teoria girardiana, come emerge dalla sua rilettura dei primi libri della Storia romana di Tito Livio e demistificazione dei miti e delle leggende sulla fondazione di Roma, destinata a diventare il primo grande impero nella storia dell’Occidente. A cominciare dall’esemplare rivalità mimetica dei gemelli Remo e Romolo e dall’apoteosi di Romolo. In più, sulla scia di Simone Weil e sempre alla luce del teorema di Girard, Serres dialoga con quei poeti classici che hanno “intuizioni precristiane” e che anelano a una rifondazione mitica di Roma in grado d’invertire la spirale della violenza e del sacro, di spezzare il giogo del culto di Marte, dio della guerra: Lucrezio e Virgilio.

Nuovo mito d’origine di Roma, l’Enea di Virgilio lega la nascita del futuro Impero e l’inaugurazione del nuovo ciclo storico non al sacrificio dell’altro, ma al sacrificio di sé, che si realizza con la discesa nel regno dei morti e con l’uscita eroica da esso, con la “resurrezione”, come prima di lui hanno fatto Orfeo e Ulisse e dopo di lui Cristo. Animato dalla pietas e dall’accettazione devota del fato, tra la terra promessa dove pianterà il seme di una nuova stirpe e la corona offertagli dal re Aceste, nel nuovo regno eretto dai superstiti di Troia intorno alla venerazione dei caduti della città e al giuramento di odio verso i suoi distruttori, Enea sceglie la prima. Ai messi latini che gli chiedono di sospendere la guerra per seppellire i morti, egli risponde che vorrebbe dare la pace non solo ai morti ma anche ai vivi, lamentandosi del rifiuto delle sue proposte iniziali per trovare un accordo ed evitare il conflitto e i massacri; vinto dalla pietà, nel duello finale, Enea, mai assetato di sangue e di vittoria, è tentato di risparmiare la vita a Turno che lo implora, ma, alla fine lo trafigge, perché vinto da un sentimento di pietà e di giustizia più forte per Pallante, precedentemente vittima giovane e innocente del furor di Turno, che ne aveva fatto il capro espiatorio del tradimento degli Italici.
Enea, che lascia al vecchio Aceste il governo della nuova Troia in Sicilia e affida ai suoi abitanti la memoria dei padri caduti in guerra nelle are edificate, incarna il desiderio di pace e di renovatiodella vita, ponendosi come contraltare alla « vedova nera» Andromaca, che continua ad avvolgere tutti nella sua ragnatela di ricordi dolorosi e mortiferi. Con toni più accorati e acuminati di quelli celebri usati da Nietzsche sui pericoli della «storia antiquaria», nelle Considerazioni inattuali, Serres afferma:
La madre degli Eneadi, Venere, che Lucrezio invoca nel proemio del De rerum natura, affinchéfaccia cessare «le aspre fatiche di guerra» e doni agli uomini la pax tranquilla, è colei che presidia all’equilibrio dell’età primordiale degli uomini: «età dell’oro» nella quale gli uomini si nutrono delle ghiande e dei frutti selvatici, si dissetano con l’acqua dei fiumi e delle fonti, si riparano nelle grotte e nelle foreste, si vestono con il fogliame dei boschi, si accoppiano liberamente, a volte con l’astuzia o la forza. Alcuni di loro erano facili prede di belve feroci, «ma molte migliaia d’uomini in armi/ non si manadavano allora in un sol giorno di battaglia al macello».
L’oblio permette, sovente, di sopravvivere. Se ci ricordassimo di tutto, non potremmo vivere… Se volete che le generazioni future vivano, vivete dunque, non contentatevi di mausolei, musei, stele e commemorazioni… Andromaca custodisce come un tesoro le atrocità della guerra di Troia; io non ho alcun desiderio di conservare, come un reagente velenoso, la minima memoria degli orrori che ho conosciuto durante le guerre della mia giovinezza… Chi lo nega? Senza storia, torneremmo bestie. S’impone dunque un obbligo a ricordare, legame che ci àncora al linguaggio e, senza dubbio, alla coscienza; ma, soprattutto, s’impone un dovere di progettare. Più difficile del primo, il secondo esige immaginazione, discernimento, senso del presente, dell’anticipazione, volontà di sopravvivere per seguire la rotta decisa, entusiasmo, coraggio: virtù trascendentali in rapporto alla ripetizione, che inclina verso l’istinto di morte. (M. Serres, Jules Verne, l’enchantement du monde. Conversations avec Jean-Paul Dekiss, Le Pommier, Paris 2010).
Rotto l’equilibrio originario, arrivano le capanne, il fuoco e la monogamia, il bronzo e il ferro, ma gli uomini conoscono anche il veleno (venenum) del potere e della sopraffazione, dell’invidia e della rivalità. La ricerca ossessiva di piaceri innaturali e di ricchezze illimitate (ovvero, l’ignoranza della vera voluptas, giustamente lamentata da Epicuro) “sospinse via via in alto mare la vita,/ e scatenò dal profondo coi grandi flutti la guerra” (Lucrezio, De rerum natura, I, 30-33; V, 998-999, 1433-1434).

I progressi compiuti nel lavoro, nelle arti e nella musica, non sono mai deviazioni o inclinazioni(quelle che secondo il fisico Lucrezio danno luogo a nuove aggregazioni atomiche e, quindi, a nuove forme di vita) sufficienti a risalire dalla degradazione, a ripristinare, ad un livello superiore, lo stato dell’innocenza e della pace originarie, restituendo a Venere il primato su Marte. Infatti, commenta Serres:
Problema fondamentale che Lucrezio non ha evitato, che forse non ha potuto risolvere e che lo ha sopraffatto. La violenza è il solo problema. Così poco risolto che la nostra cultura è quasi certamente il proseguimento della barbarie compiuto con altri mezzi. La violenza è una delle componenti più importanti delle relazioni fra gli uomini. E lì, corre, forse fatale, il nostro destino e il nostro più grande rischio, il nostro più grande scarto all’equilibrio. Lucrezio conosce bene la purga sacrificale, riconosce la soluzione sacra, la scarta. Conosce la soluzione giudiziaria che è soltanto l’interpretazione della prima attraverso la razionalizzazione delle colpe… Ascoltate ora le lezioni dell’epicureismo. Possono essere ricondotte a questo: riducete al minimo il reticolo delle relazioni in cui siete immersi. Vivete nel giardino, piccolo spazio, con qualche amico. Niente famiglia se possibile e comunque niente politica. Ma soprattutto, ecco l’oggetto, gli oggetti, il mondo, la natura, la fisica. Afrodite è piacere che nasce dal mondo e dalle acque. Marte è nel foro e nella folla in armi… Dimenticate il sacro, questo significa : dimenticate la violenza che lo fonda e dimenticate il religioso, che lega gli uomini tra loro. (M. Serres, Lucrezio e l’origine della fisica, Sellerio editore, Palermo 2000).
Se, lungo la traiettoria dell’ominazione, il cristianesimo stesso è stata una compensazione improvvisa, potente ma ancora insufficiente per tornare all’equilibrio, dobbiamo rassegnarci a scegliere tra il semi-esilio nel giardino epicureo e la vita dolorosa nella società inevitabilmente impastata di violenza? Quale clinamen, angolo o scarto può interrompere il precipizio nella guerra perpetua, far trionfare definitivamente Afrodite su Marte? L’emergenza ecologica planetaria? Un nuovo umanesimo? O siamo condannati al deserto postumano e reificato del “Dopostoria”, come vaticinò poeticamente Pasolini?


Immagine di copertina: Michel Serres (1930-2019) in un intervento all’Espace des sciences, 15 febbario 2011

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