Venezia – Tel Aviv. O viceversa. A dividerle c’è solo il Ponte della Libertà, ciò che, per parafrasare Mario Stefani, collega Venezia al resto dell’Europa che, altrimenti, sarebbe rimasta “un’isola”. Aldilà della battuta del rinomato poeta veneziano, vero è che Venezia, come Tel Aviv, è uno dei più antichi porti del mondo. E assieme, ancora oggi, sono i due grandi porti, o meglio ancora, le due grandi porte, del Mediterraneo: dai tempi in cui Jaffa, la città vecchia di Tel Aviv, era il principale scalo del Medio Oriente durante il Regno di Re Davide a quelli in cui la Serenissima, con i suoi possedimenti, raggiungeva quasi la Terra Promessa.
Per la loro natura, se fosse loro consentito, oggi sarebbero probabilmente due Città Stato perché, come dicono i telaviviani, “Tel Aviv non è Israele” e come dicono i veneziani “Venezia non è Italia”. Sono entrambe due città dall’identità e dall’anima molto forte. Due “città-kibbutz”, dal forte senso comunitario, in cui tutti conoscono tutti e tutto funziona in modo organico, perché di un organo si tratta. Se, ancora oggi, i sei sestieri di Venezia e le sue principali istituzioni affondano le loro radici in quelle della Repubblica, la “Città Bianca” – così chiamata per gli oltre quattromila edifici Bauhaus grazie a cui nel 2004 è stata dichiarata patrimonio dell’Unesco – fu fondata dai pionieri, scappati dai pogrom della Vecchia Europa, che nel “kibbutz urbano”, basato sul modello socialista-Bauhaus, scrissero la storia e il destino non solo della città, ma dell’intero Paese.

Entrambe città di mare e “porti di mare”, luoghi di incontro e di dibattito acceso: nelle strade, nei bar, in spiaggia. Come racconta il celebre direttore d’orchestra Itay Talgam “la vera scuola era la spiaggia. Ho imparato più di politica e di cultura sulla sabbia di Tel Aviv che non sui banchi di scuola”. Quanti veneziani hanno trascorso gran parte della loro infanzia, fino all’età adulta, crescendo – culturalmente, emozionalmente e politicamente – tra le capanne del Lido? E quando d’inverno il mare è in tempesta, l’agorà si sposta verso il centro della città: nei campi di Venezia e nelle piazze di Tel Aviv, perché entrambe le città sono a “portata di mano”. E di piede. Si arriva a piedi dappertutto. O al massimo in bicicletta, grazie alle preziose piste ciclabili che caratterizzano la Città Bianca e che collegano molte delle isole della Laguna.
Oggi come allora, la loro dimensione di hub ha fatto sì che centinaia di culture diverse attraversassero e arricchissero questi due luoghi influenzandone tanto la produzione culinaria quanto quella musicale. Dalle sarde in saor, in salsa agrodolce, alla musica “polifonica” della Scuola Veneziana; dalla cucina israeliana “fusion”, incontro di Europa e Medio Oriente, alla musica contemporanea mizrachi, “mediorientale”. Tel Aviv e Venezia sono il frutto di un incontro – e un incrocio – di popoli, la cui influenza balza agli occhi anche solo camminando tra le calli e i mercati di queste città: dal Ponte dei Greci a Venezia al mercato greco a Tel Aviv; dall’Isola di San Lazzaro degli Armeni al quartiere armeno a Jaffa; dal Fondaco dei Turchi al Levinsky Market, fondato dai turchi a Tel Aviv; dal Ghetto ebraico della Serenissima al quartiere cristiano a Jaffa. In entrambe i luoghi non sorprende incontrare per strada un rabbino, un prelato e un imam, magari seduti allo stesso tavolo di un bar. Perché è il caffè a unire queste genti alle prime ore del mattino fino allo Spritz – ormai importato anche in Terra Santa – con il calar del sole.
Spesso, sul bancone di un bar, sono state concepite una delle numerose startup che fanno di Tel Aviv la Silicon Valley della cosiddetta “Startup Nation”: il Paese con la più alta percentuale di startup pro-capite al mondo. Eppure, il mondo fin-tech che ha fatto impennare lo Shekel israeliano ai massimi storici – al punto che nel 2021 Tel Aviv è stata dichiarata dall’Economist la città più cara al mondo – non rappresenta affatto l’israeliano medio, il cui salario non cresce affatto in modo proporzionale rispetto alla crescita della bolla del real estate. Proprio come per il veneziano, il cui potere di acquisto non riesce a star dietro ai prezzi degli affitti di una città che è diventata un immenso Airbnb per turisti in cerca di selfie.

Due imperi senza eredi che, pur portando sulle proprie spalle millenni di storia, faticano a lasciare un posto alle future generazioni, che non sanno dove andare a sbattere la testa – se non su improbabili soppalchi recuperati da vecchie dimore dai soffitti ancora alti – per poter uscire di casa e cominciare la propria vita da adulti.
Così, sempre più spesso, oltre a lasciare la casa, lasciano anche la città, alla ricerca di luoghi dal fascino discutibile ma dove scuole e cinema aprono invece di chiudere. Anche se per raggiungerli, ahimè, questa volta ci vuole l’automobile, il traffico, lo smog. Il prezzo da pagare è un one-way ticket da cui, molto raramente, si riesce a fare ritorno. Così la città viene “abbandonata” ai turisti, sempre più in cerca di ristoranti e negozi di souvenir, ricavati nelle sedi di quelli che un tempo erano piccoli negozi alimentari o ferramenta.
Da un lato si assiste al processo di gentrificazione, inesorabile, che riguarda ormai tutte le grandi città, da un capo all’altro del mondo. Dall’altro, per il loro ruolo storico e il loro delicato equilibrio, questi due ecosistemi andrebbero salvaguardati con un occhio di riguardo e politiche ad hoc che ne garantiscano l’integrità sia fisica che spirituale. Non solo, anziché essere svendute al libero mercato dovrebbero diventare “città modello” a cui guardare, su scala globale. Perché, come ricorda Paola Liani – architetto formatosi allo IUAV di Venezia, che da oltre vent’anni vive e lavora a Tel Aviv presso lo studio Paritzki&Liani –
se non esiste una città ideale, esiste sicuramente la ‘città modello’: Venezia. Non solo per la sua bellezza ma perché rappresenta la città del futuro, a partire dal fatto che è percorribile interamente a piedi, modello che dovrebbe essere adottato ovunque. Pur essendo immersa nel passato, Venezia, potenzialmente, si è già adeguata alle esigenze ambientali contemporanee. In questo senso, anche Tel Aviv si sta lentamente orientando su questo modello, grazie, soprattutto, alla scelta delle piste ciclabili e, negli anni, attraverso un’attenta pianificazione territoriale che prevede l’inserimento di parchi in modo diffuso, e di nicchie verdi nei luoghi interstiziali della città. Come era nello spirito originale della casa Bauhaus, che tanto ha segnato il destino e il panorama della Città Bianca, quando si costruivano i giardini anche sui tetti, rendendo Tel Aviv una città molto intima, proprio come Venezia.
Forse solo rileggendo il passato, che fece grandi queste città – quando ancora non esistevano navi da crociera e bitcoin – saremo in grado di “ricostruirle”, a partire dalle loro fondamenta.
Salvaguardando il passato, per guardare al futuro.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!
1 commento
l’autrice ha evidenti difficolta’ di contestualizzazione temporale: secondo lei Venezia e Tel Aviv hanno una storia millenaria pero’ poi cita come periodo fondativo il XX secolo. L’autrice confonde Tel Aviv con Jaffa, che appare nel testo solo come citazione senza invece esser essa il soggetto storico (con storia millenaria) del testo. Tel Aviv puo’ esser Porto Marghera (nate entrambe nello stesso secolo) mentre Jaffa (romana, ottomana, cristiana,araba, e infine conquistata il 14.05.1948 dall’Haganah ebraico) puo esser vicina a Venezia. Pare che gli abitanti di Jaffa dicano a quelli di Tel Aviv: ma ti vien dal dolo? (inteso come termine giurisprudenziale)