Quante volte ho sentito dire che “Tel Aviv è la Grande Mela del Medio Oriente: eccitante, divertente, cosmopolita, innovativa e quasi completamente indipendente”. Il paragone con New York, dove sono nato, con la città israeliana che ho frequentato assiduamente per lavoro negli ultimi quaranta anni ha molte spiegazioni e giustificazioni. Trovo difficile comprendere, invece, il suo parallelismo con Venezia raccontato con un’aria più romantica che realistica da Fiammetta Martegani su ytali. La “città che non dorme mai” – così Tel Aviv viene venduta ai turisti – “il paradiso dei gay” (altra sua conquista nei fatti e sui social) ha una storia complessa, affascinante ma molto distante, per ovvi motivi di età, da quella della nostra splendida città lagunare.
Nasce, grazie a un gruppo di ebrei europei nel 1909 non distante dall’antica città di Giaffa, abitata in maggioranza da arabi palestinesi, pochi ebrei e una ricca colonia di cristiani tedeschi – Templari – che furono i primi a coltivare (insieme e grazie ai contadini arabi) e pubblicizzare le arance diventate famose in tutto il mondo. A costruire Tel Aviv, come racconta Martegani, furono architetti europei famosi grazie a contributi economici arrivati dalle comunità ebraiche della diaspora, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Il 14 maggio 1948 durante la guerra tra ebrei e arabi, che ha portato alla creazione dello Stato d’Israele, cadde in mano ebraica la città di Giaffa.

Vi rimasero meno di quattromila arabi dei centomila palestinesi (buon parte finita a nei campi profughi di Gaza) che avevano vissuto nella città fino a quel momento. Furono inizialmente sottoposti a un rigido governo militare e nel 1950 Giaffa fu annessa ai confini municipali di Tel Aviv, per creare un comune unificato “Tel Aviv-Jaffa”.
Facciamo un salto veloce a oggi o appena ieri. Sul battagliero quotidiano israeliano Haaretz si leggeva il 27 aprile 2021:
La tensione che è esplosa di nuovo nelle strade di Giaffa la scorsa settimana non è stata il risultato della crisi del COVID-19 o della violenza localizzata. Ciò che sta provocando le proteste dei residenti di questa parte più meridionale di Tel Aviv sono problemi a lungo termine per i quali non è in vista alcuna soluzione: negligenza deliberata, assenza di infrastrutture, criminalità, violenza della polizia, insieme alla mancanza di opportunità e una realtà in cui i residenti veterani vengono cacciati dalle loro case.


Martegani, salvo errori di lettura da parte mia, non menziona nemmeno la parola arabi nel formulare il suo intrigante ritratto di Tel Aviv, dei suoi residenti, dei suoi valori storici e paragonare il tutto a Venezia. Si riferisce giustamente ma senza entrare nel dettaglio al fenomeno comune alle grandi città, la gentrificazione. E qui, probabilmente, sta l’elemento principale, determinante, della differenza. Nello stesso periodo dello scorso anno l’importante, sempre cauta, agenzia di stampa internazionale Associated Press lanciò un lungo articolo molto dettagliato sul problema.
L’incipit non lasciava dubbi:
La gentrificazione nella storica città portuale di Tel Aviv-Giaffa, viene utilizzata da Israele come strumento per spingere la popolazione araba fuori dall’area per far posto a ricchi israeliani e stranieri, in un altro esempio di politiche discriminatorie volte all’ingegneria demografica.
E ancora.
“Stiamo raggiungendo un punto in cui gli arabi non possono comprare case a meno che non siano molto ricchi”, ha affermato Youssef Masharawi, nativo di Jaffa e professore di terapia fisica all’Università di Tel Aviv per il quale i giovani arabi di Jaffa non hanno un posto dove andare, non possono permettersi di mettere su famiglia nella loro città natale e subiscono discriminazioni nelle vicine città israeliane con una popolazione prevalentemente ebraica. Il lungo articolo cerca di spiegare il perché di questo fenomeno.
La scorsa settimana sono esplose lunghe e cocenti tensioni dopo che il rabbino e direttore di un seminario religioso pre-militare nel quartiere a maggioranza araba di Ajami sono stati aggrediti da due residenti arabi mentre visitavano un appartamento in vendita. Moshe Schendowich, amministratore delegato del seminario Meirim B’Yafo, è rimasto ferito nell’incidente. Ha detto che mentre ci sono stati alcuni disaccordi con i vicini arabi, quei conflitti “dovrebbero essere risolti con la parola, con il parlare, non con la violenza.
Sebbene il seminario affermi che non è intenzionato a cacciare nessuno, alcuni residenti lo vedono con sospetto. Il suo rabbino capo è un ex colono della Cisgiordania ed era formalmente affiliato ad Ateret Cohanim, un gruppo che si impossessa delle proprietà arabe a Gerusalemme per far posto ai coloni ebrei. Il sito web della yeshiva afferma che il suo scopo è “rafforzare l’identità ebraica e la voce della Torah, (e) rafforzare le comunità” a Giaffa.

Ossia, come ho raccontato nel mio recente volume su Gerusalemme, l’urbanistica in Israele, non solo nei luoghi sotto occupazione come la città santa, viene spesso gestita da quei gruppi nazionalisti che con il dichiarato consenso della maggioranza della popolazione ebraica del paese non nascondono il loro progetto di avere, prima o poi, uno stato ebraico con un numero sempre più limitato di non ebrei, ossia arabi, musulmani o cristiani che siano.

Immagini tratte da A Guide to Gentrification, docufilm di Keren Shayo e Lavi Vanounou

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!
1 commento
Ma come mai difronte a questo articolo pacato e ragionevole la rivista Ytali considera accettabile l’articolo citato di Fiammetta Martegani?
E’ inquietante come l’autore faccia notare la superficialita’ della martegani nella lettura storica e sveli uno strano rigetto dell’autrice all’uso del termine “arabo/arabe/arabi”…