La galleria-spettacolo di un Paese da osservare

I simboli per le elezioni politiche.
GABRIELE MAESTRI
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Centouno per 98, da 75 a 11+5 ma probabilmente 16+5, su per giù. Non si stanno dando i numeri (anche se il rischio c’è sempre) e non si tratta di numeri a caso: sono quelli relativi ai simboli depositati in vista delle elezioni politiche del 25 settembre e a quelli che saranno effettivamente impiegati

I contrassegni presentati al ministero dell’interno sono stati 101, da un totale di 98 tra partiti e federazioni elettorali (l’Alleanza Verdi e Sinistra ha presentato pure due varianti in tedesco-ladino e sloveno e il Partito democratico ha differenziato il simbolo per l’estero); il Viminale ne ha ammessi 75, scartando gli emblemi “doppi” o confondibili, quelli presentati da chi non aveva titolo o con difetti nella documentazione. 

Di questi 75 sono finiti dritti sulle schede elettorali, perché esentati dalla raccolta delle firme, solo undici fregi – i quattro del centrodestra, i quattro del centrosinistra, più quelli del MoVimento 5 Stelle, di Azione-Italia viva e della coppia Svp-Patt per il Trentino-Alto Adige – e i cinque simboli per la circoscrizione Estero (Maie, Usei, Movimento delle libertà, centrodestra unito e Pd-estero). Le altre formazioni, per presentare liste, dovevano raccogliere le firme (sarebbe la norma, ma i partiti cercano di evitare questo onere da anni, a maggior ragione in questa pre-campagna elettorale d’agosto): in pochi ce l’hanno fatta almeno in buona parte dell’Italia (Italia sovrana e popolare, ItalExit con Paragone e Unione popolare con De Magistris; sono meno presenti Vita, legata alla deputata uscente Cunial, e Alternativa per l’Italia, che unisce il Popolo della Famiglia di Adinolfi ed Exit di Di Stefano), mentre altri simboli, come quello storico e rinnovato del Pci, avranno una presenza sparsa.

Al Viminale, la presentazione del simbolo di Fratelli d’Italia.

Ben oltre metà degli emblemi, dunque, non raggiungerà le schede, ma molti si sono presi la briga di andare fino al ministero, magari stando in fila a lungo. L’hanno fatto esponenti di vari partiti minori, che hanno aderito ad altre liste o attendono tempi migliori per presentare le proprie, ma hanno voluto depositare il loro fregio per tutelarlo da usi indebiti o per non farlo dimenticare; si sono visti i loghi di microgruppi o perfino singoli cittadini, senza l’intenzione di candidarsi. C’è una sicura componente di protagonismo e di ricerca della famigerata fama per quindici minuti (sperando nell’attenzione di giornalisti, fotografi e telecamere), come c’è chi sogna che esporre il simbolo in bacheca frutti candidature in extremis in liste nazionali (in passato accadde). 

Il Partito pirata, tra i simboli accettati dal Viminale.

Non è però giusto liquidare il deposito dei simboli come una pagliacciata inutile e stantia: è invece una galleria di ritratti o uno spettacolo che si ripete a ogni elezione politica (ed europea). Chi visita la galleria o assiste allo spettacolo, anche grazie ai media, vede sfilare davanti a sé un’immagine completa del Paese, fatta di idee in gioco (ora strutturate, ora confuse), di battaglie settoriali o solitarie, di persone che vogliono raccontare le loro storie: certi aspetti possono incuriosire, far sorridere o non piacere, ma sono tutti parte di noi e non vanno trascurati. I simboli dei partiti e i contrassegni elettorali non esistono solo in Italia, anche se vari Stati ne fanno a meno: sulle schede statunitensi, per dire, non ci sono simboli, nonostante la tradizione dell’asino democratico e dell’elefante repubblicano, nati in chiave satirica; in India c’è invece un’esplosione simbolica, a livello federale e statale. Difficilmente, però, altrove il fenomeno è vissuto con la nostra “carica umana”.

Giuseppe Conte, con Vito Crimi, presenta personalmente il simbolo di M5S al ministero degli interni.

In Italia il deposito dei simboli è, innanzitutto, un rito di democrazia consolidato: chi sceglie di parteciparvi anche con ruoli marginali, autoreferenziali o “creativamente folli” (come suggerisce il nome di uno dei partiti visti in bacheca) merita in ogni caso rispetto: fa senz’altro di più rispetto a chi si astiene e si lamenta di continuo prima e dopo l’astensione. Per i partiti maggiori di solito il rito del deposito era officiato dai rispettivi funzionari, dalla lunga formazione “sul campo”: un piccolo gruppo di persone, che spesso si conoscevano tra loro (e si stimavano per la loro competenza, a di là delle distanze ideologiche) ed erano depositari quasi esclusivi del rispetto rigoroso di tutte le norme in tema di presentazione di simboli e – soprattutto – di liste. 

Clemente Mastella con il suo simbolo appena depositato.

Molte di quelle persone non ci sono più (Luciano Gesuelli, che per decenni ha curato i depositi per Dc, Ppi, Margherita e Pd, è morto nel 2020), mentre il taglio dei finanziamenti alla politica e la difficoltà di creare e mantenere strutture stabili ha ridotto gli spazi per quelle figure. Da anni, in compenso, al Viminale si sono affacciati alcuni leader di partito, specie di quelli più piccoli o in cerca di rilancio: la testimonianza personale di un impegno diretto si coniuga al tentativo di (ri)ottenere visibilità anche grazie alla partecipazione a quel rito. Sono scelte legittime e comprensibili; certo, non era mai accaduto prima di quest’anno che un simbolo appena nato fosse depositato da un ministro degli esteri in carica, ma soprattutto per la prima volta si è visto un emblema (di una formazione protagonista da una decina di anni della politica nazionale, pur molto mutata nel tempo) messo in bacheca direttamente da un ex presidente del consiglio. In questi casi il peso della photo opportunity rischia di prevalere sul valore politico del gesto e sulle reali ricadute in termini di consenso e voti.

Riccardo Magi e Benedetto Della Vedova al Viminale per la presentazione del simbolo di +Europa.

Non si tratta delle uniche modifiche che il mondo dei simboli porta con sé. Per decenni le schede sono state ricche di immagini chiare e riconoscibili, in bianco e nero, capaci di comunicare il bagaglio ideologico di una forza politica (che di solito si chiamava proprio “partito”). Dagli anni Novanta, con il venir meno delle ideologie classiche e le modifiche alla legge elettorale in senso maggioritario, i simboli tradizionali si sono via via ridotti, ma chi è legato alle idee passate cerca di mantenerli; si sono invece diffusi i colori nazionali (il tricolore e l’azzurro/blu), la parola “Italia” (come se bastasse a connotare una posizione politica) e, soprattutto, i nomi dei leader di partito. Nell’era delle idee e del proporzionale nessuno li avrebbe inseriti; dopo l’avanguardia uninominalista della Lista Pannella (nel 1992) e una volta innestata la torsione maggioritaria, l’uso dei nomi nei simboli è cresciuto, per cercare di offrire un messaggio semplice e diretto di identificazione del “capo” col suo partito e sperare di ottenere più consensi. Uno sguardo attento ai simboli racconta anche questo.

I simboli della discordia, il blog di Gabriele Maestri, e qui di seguito la vetrina dei suoi libri.

La galleria-spettacolo di un Paese da osservare ultima modifica: 2022-08-27T16:58:10+02:00 da GABRIELE MAESTRI
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