I mesi passavano e le cose andavano sempre peggio. La popolarità del presidente era scesa sotto il quaranta per cento e tutti gli analisti politici davano per certa la sconfitta dei democratici nelle elezioni di midterm di novembre, con la perdita della maggioranza sia alla camera che al senato. Certo era scoppiata la guerra in Ucraina e le guerre di solito favoriscono il presidente in carica, almeno all’inizio. Questa volta no. L’opinione pubblica americana sembrava abbastanza distratta e non prestava orecchio più di tanto ai proclami che provenivano dalla Casa bianca sullo scontro epocale tra democrazie e autocrazie e sulla necessità di difendere il piccolo e coraggioso popolo ucraino aggredito dal dittatore russo. A distrarla era l’inflazione che cresceva ogni giorno superando il nove per cento, i salari bassi, il prezzo della benzina e i timori ventilati da più parti di una recessione alle porte.
Ed è a questo punto (siamo alla fine di luglio 2022), di fronte alla prospettiva di una catastrofe elettorale che avrebbe di fatto posto fine alla sua presidenza, che Biden si è deciso ad agire. E l’ha fatto mettendo a segno due colpi di sicuro effetto, mentre un terzo lo hanno assestato per lui i repubblicani.
Il primo colpo si chiama “Inflation Reduction Act”, una legge per la riduzione dell’inflazione che per la verità con l’inflazione ha ben poco a che fare, almeno nell’immediato; ma, si sa, se le parole non sono sempre conseguenza delle cose, talvolta le cose sono conseguenza delle parole, almeno in politica. Per capire di che si tratta bisogna fare alcuni passi indietro.
Fin dalla campagna elettorale del 2020 Biden aveva annunciato che, se eletto, avrebbe fatto approvare un gigantesco piano da cinquemila miliardi di dollari chiamato Build Back Better Plan per ricostruire il paese e rilanciare l’economia dopo la recessione provocata dalla pamdemia, un piano che prevedeva massicci investimenti nelle fatiscenti infrastrutture (ponti, strade, ferrovie), nel risparmio energetico e, soprattutto, nel “sociale”: asili nido, primi due anni di college gratuiti, congedi parentali, aumento del salario minimo, edilizia popolare agevolata, e altro ancora. Naturalmente i repubblicani si sono opposti con tutte le forze e hanno accettato soltanto la parte relativa alle infrastrutture ben vista dalle associazioni dei costruttori, che infatti nell’autunno del 2021 è stata approvata. Il resto del pacchetto da oltre 3.750 miliardi invece è rimasto bloccato al senato anche per l’opposizione di alcuni democratici che lo giudicano troppo “ambizioso”.
A questo punto l’ultima versione della legge prevede “solo” 2.200 miliardi; Biden giura e spergiura che grazie alle sue qualità di grande mediatore sarebbe riuscito a farlo approvare entro dicembre, ma niente, il senatore democratico Joe Manchin rimane irremovibile e non se ne fa nulla. Da quel momento la trattativa tra il capogruppo democratico Chuck Schumer e Manchin va sotto traccia e non se ne parla più. Fino al luglio scorso quando dalla Casa bianca parte l’allarme rosso per la débacle prossima ventura e l’ordine di chiudere la trattativa a qualsiasi costo.
E così Schumer ha potuto annunciare trionfalmente un nuovo pacchetto di ben 769 miliardi di dollari chiamato, appunto, Inflation Reduction Act. Solo che in realtà i soldi da spendere sono poco più della metà perché trecento miliardi andranno a ridurre il deficit. La parte più importante andrà alla riduzione dei gas serra, agli investimenti in fonti energetiche rinnovabili e ad incentivare la produzione di veicoli elettrici. Una parte andrà ad estendere i benefici dell’assistenza sanitaria, un’altra parte a rifinanziare l’IRS (l’agenzia delle entrate praticamente smantellata sotto Trump). Tutto il resto, cioè gli aiuti alle persone e il sostegno dei redditi più bassi, è rimandato a tempi migliori. Certo, meglio che niente, ma poco più di un topolino rispetto alla montagna che era stata promessa.
(Un non secondario elemento di contorno è che l’assenso del senatore Manchin è stato ottenuto dando il via libera ad un oleodotto molto contestato dagli ambientalisti, ma fortemente voluto dall’industria petrolifera che finanzia le sue campagne elettorali; mentre quello di un’altra senatrice anche lei inizialmente ostile, Kyrsten Sinema, lo si è ottenuto introducendo una norma che indennizza i suoi elettori dell’Arizona per i danni provocati dalla siccità.)

Il secondo colpo assestato da Biden si chiama “Cancellazione del debito studentesco”. Di cosa si tratta? Come si sa, le università americane sono molto costose, non solo quelle private, ma anche quelle pubbliche: per laurearsi ad un giovane occorrono centinaia e centinaia di migliaia di dollari ed evidentemente la maggior parte delle famiglie non può permetterselo, così si fa ricorso a prestiti (lo fa il settanta per cento degli studenti) garantiti dal governo federale e da banche convenzionate. Il prestito va poi restituito entro un certo numero di anni dopo la laurea. E così è stato per la maggior parte dei beneficiari fino agli anni 2000. Poi è arrivata la crisi finanziaria, la “grande recessione”, la riduzione dei salari e infine il Covid, con la conseguenza che sempre più studenti, che magari non avevano completato il ciclo di studi per motivi economici o altro, si sono trovati a non potere ripagare il debito.
La proposta di Biden, che intende emanare con un ordine esecutivo per aggirare l’opposizione repubblicana, non prevede la cancellazione di tutti i debiti per tutti gli ex studenti, ma solo fino a ventimila dollari e solo per chi guadagna meno di 125.000 dollari l’anno. Sono state sollevate varie obiezioni, anche di parte democratica, a questa gigantesca sanatoria che costerebbe alle casse dello stato dai quattrocento ai seicento miliardi di dollari, e che non si rivolge certo agli strati più poveri della popolazione ma va a premiare giovani che, pur non essendo ricchi, non se la passano troppo male. Ma tant’è, quello dei giovani è un sottogruppo elettorale importantissimo per i democratici che negli ultimi anni, e soprattutto mesi, si è allontanato dal partito e c’era quindi bisogno di fare qualcosa per riconquistarne i consensi.
Un altro gruppo altrettanto importante per i democratici sono le donne, che da sempre votano a maggioranza per loro. Qui l’aiuto a Biden è venuto dai repubblicani, o meglio dalla loro scelta sconsiderata di costituire una maggioranza conservatrice blindata alla Corte suprema, maggioranza che pochi mesi fa con la sentenza Dobbs ha negato la protezione della Costituzione al diritto di aborto (che era invece stato riconosciuto nella sentenza Roe del 1973). La maggior parte degli analisti pensava che dopo la prima ondata di proteste da parte delle associazioni femminili l’attenzione per la questione sarebbe scemata. Ma così non è stato. A parte una minoranza di donne repubblicane ideologicamente antiabortiste, molte altre, – non solo le democratiche, ma soprattutto le indipendenti e anche qualche repubblicana – sarebbero orientate a votare per il partito democratico come unico argine per evitare che i repubblicani diano seguito alla sentenza con norme sempre più restrittive (come peraltro stanno già facendo in vari stati).
E così in queste ultime settimane, grazie ai due colpi assestati da Biden e a quello involontariamente assestato dai repubblicani, il gradimento nei confronti del presidente è risalito attestandosi intorno al 45 per cento, e gli analisti politici che fino a poco tempo fa davano per spacciati i democratici hanno ricominciato a fare i conti collegio per collegio. Al momento i repubblicani sarebbero ancora in vantaggio sia alla camera sia al senato, ma adesso con un margine di soli pochi seggi. Insomma c’è ancora speranza sulle rive del Potomac.

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