Dialogare in dialetto con le ombre

La poesia di Renzo Favaron.
PASQUALE DI PALMO
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Nato a Cavarzere, in provincia di Venezia, ma operante a San Bonifacio, nel veronese, Renzo Favaron si configura come un poeta atipico e originale che si esprime in un dialetto veneto che risente dei vari trasferimenti effettuati e rimanda a una koinè compromessa con una tradizione che si rifà ad esperienze multiformi: da Cavalcanti all’«eretico» Noventa. È uscita, nella collana «Qui e altrove», ben diretta da Matteo Vercesi per Ronzani Editore, la raccolta Teatrin de vozhi e sienzhi / Teatrino di voci e silenzi che, fin dal titolo, dichiara la propria natura programmatica, profondamente incline a investigare la dimensione teatrale o, se non altro, il rapporto dialettico instaurato tra i personaggi del libro. Personaggi che in realtà sono ombre, presenze ectoplasmatiche, proiezioni affettive (e anaffettive) dello stesso autore che si pongono in costante dialogo con quest’ultimo, al fine di trasmettergli qualche sparuta scintilla dell’aldilà, di un mondo ultraterreno in cui «Poco o gnente xe canbià» («Poco o niente è cambiato»). 

In tale contesto si delinea soprattutto il profilo della madre Dolores che, dopo la scomparsa, comunica con il figlio attraverso la stesura di lettere o messaggi in cui la voce diventa elemento caratterizzante del personaggio, facendosi essa stessa personaggio, come si legge in Preferirìa: «Parché te parli e no’ te ghe’ssì? / O forse no’ ti’ssì ti / a essere da ’n’antra parte? / Forse la to vozhe, ’desso, / xe cue’a de cissà chi?» («Perché parli e non ci sei? / O forse non sei tu / a essere da un’altra parte? / Forse la tua voce, ora, / è quella di chissà chi?»). Osserva Maurizio Casagrande nella sua pregnante prefazione: «Più che alla concreta e materica fisicità dei volti o dei corpi, il poeta si affida nell’evocare i propri cari nel suo duetto/duello con la morte allo strumento dei suoni e delle voci, grazie alla mediazione della poesia, come un novello Orfeo». Il medesimo prefatore dichiara che «la chiave della presente silloge è inscritta nel segno del lutto e della perdita irredimibile» e ricorda, in maniera quanto mai pertinente, la lezione di Eugenio Ferdinando Palmieri, in bilico tra esplorazione  poetica e teatrale, di cui, en passant, si segnala il meritorio recupero antologico delle Poesie, edite nel 2020 dal Ponte del Sale. 

Da qui deriva la particolare rivisitazione delle forme chiuse, come nel testo incipitario Cue’a che credo (soneto), dove permane solo lo scheletro dell’originaria architettura del sonetto (due quartine e due terzine), senza il ricorso ad alcuno schema predefinito. Le rime stesse sono state abolite al pari degli endecasillabi: «No’ gò pianto, ma l’inverno / el lagrema ’ncora e no’ son / guarìo dal doore, né dal ragno / imobie che xe la me vozhe» («Non ho pianto, ma l’inverno / lacrima ancora e non sono / guarito dal dolore, dal ragno / immobile che è la mia voce»). Questa sprezzatura si palesa   anche in altri componimenti della raccolta, passando dall’epigramma alla poesia vernacoare e, soprattutto, all’epistola articolata, in cui si descrive «cue’o che sucede lazhò» («quello che succede laggiù»). 

È con tale epistola in versi, «fortemente connotata in chiave antifrastica», come osserva ancora Casagrande, che l’autore tenta di rimuovere il lutto, abbarbicato come manine d’edera a un muro pericolante; i messaggi ultramondani, spesso pubblicati, a causa della lunghezza di versi che aspirano all’estensione prosastica, sviluppandosi sul lato più lungo della pagina, alla maniera di certo Pagliarani, rinviano a una dimensione speculare a quella in cui viviamo o, per citare Lewis Carroll, a qualcosa che si manifesta Trough the Looking-glass. Si pensi alla deambulazione delle ombre lungo un paesaggio imprecisato, come descritto in Vozhe de me mama (su l’aldelà): «Imagino che almanco ’na òlta te gaverè pensà a cue’o / che fasso chi. Eben, pa’ la pì parte camino. Sì, camino / seguendo ‘na unica diression e senza savere ’ndove / che sto ’ndando» («Immagino che ti sia chiesto che cosa faccio qui. Ebbene, / per lo più cammino. Sì, cammino in una sola direzione, / anche se non so dove sto andando né quale sia la meta / di questo mio camminare»). I morti infatti sono spesso condannati a ripetere le azioni che sostenevano in vita, dando l’abbrivio a un altalenante dialogo con l’autore – evidente il richiamo a Sereni – che sembra confinato in una sorta di limbo, cristallizzato nelle inflessioni di una voce «petrosa» che arriva dai precordi in maniera intermittente, a ondate. Sono voci che ricordano un monologo quasi beckettiano, malgrado il tentativo di instaurare un dialogo che si evidenzi oltre le barriere spaziotemporali, tra Lo sbrego e i busi, come si intitola un emblematico testo in cui si formula una riflessione metaletteraria sulla funzione precaria, insufficiente, del linguaggio: «Sì, mama, /che xe sempre calcossa d’inzherto, / d’indicibie che no’ s’intende mai, / calcossa del cua’e no’ so trovare parole / capassi de cusire l’aria strassià, / el dano» («Sì, mamma, / c’è sempre qualcosa d’incerto, / d’indicibile che non s’intende mai, / qualcosa di cui non so trovare parole / per ricucire l’aria lacerata, il danno»).   

L’estraneità è il sentimento che domina queste sequenze, anche se a tratti prevalgono esiti dall’andamento elegiaco, accorati e strazianti, come in Pi devento rossa (vozhe de mama), con asserzioni lapidarie di una madre che si confessa attraverso il transfert del proprio figlio: «Renzo, mai te guarirè / da mi, anca se no’ son / mai sta ’na maatia prima / e no’ lo son ’desso» («Renzo, non guarirai da me, / anche se non sono / mai stata una malattia prima / e non lo sono adesso»). Favaron cadenza gli interventi teatrali delle singole voci senza soluzione di continuità, alternando quella del padre a quella di un poeta particolarmente amato come Thierry Metz, autore di due splendidi libri quali Le journal d’un manœuvre e Lettres à la Bien-aimée. Il coinvolgimento con il poeta francese che per vivere faceva il manovale, scomparso prematuramente  dopo essere passato attraverso la via crucis del trattamento psichiatrico, è pressoché totale, arrivando paradossalmente a manifestarsi attraverso lo stesso dialetto veneto con il quale Favaron si esprime, in una sorta di empatia linguistica ed esistenziale corroborata dal legame simbolico instaurato tra Vincent, il secondogenito di Metz morto in un incidente stradale, e l’autore orfano che, nonostante l’età adulta, rivendica con orgoglio la propria condizione di derelitto, di paria (si veda anche il testo sui reclusi nel campo di concentramento di Terezín). Sono esemplari alcuni passaggi tratti da La rinuncia (vozhe de Thierry): «Dopo la morte / de Vinzhent, on potin de sete ani, vivo in-te on deirio / dal cua’e no’ son ’ncora vegnù fora. Però, no’ son mato. / Almanco, no’ del tuto» («Dopo la morte / di Vincent, un fanciullo di sette anni, vivo in un delirio / da cui non sono ancora uscito. Però, non sono pazzo. / Almeno, non del tutto»). 

Si creano così improbabili incontri oltre la morte come quello tra Metz e la madre, tra la madre e il padre, tesi a comunicare all’autore qualcosa di cui sfugge il senso, in una catabasi priva di elementi salvifici che sembra rispecchiare il motivo dell’ alterità, dello straniamento, provato durante vicissitudini esistenziali che spingono all’estremo tale dissipazione verbale. Non è possibile giustificare lo scandalo della morte, capire ciò che risulta incomprensibile, nonostante la scrittura rappresenti il tentativo per approcciarsi a essa con il semplice ausilio di un foglio, una matita, compiendo spesso, alla stregua di Isgrò, l’operazione artigianale contraria, tesa a cancellare parole volte a esprimere un’inquietudine che non conosce la redenzione del logos. Piccoli avvenimenti incomprensibili (un’autoradio che si ammutolisce, un’improvvisa nevicata estiva, il miracolo di una peonia fiorita) divengono quel trait d’union che collega il poeta a una dimensione altra, riconducibile a un retaggio memoriale che non lascia scampo: «Xe ’ncora tutto rosso, cofà / ’na ferìa che no’ se inciava» («È ancora tutto rosso, come / una ferita che non si chiude»). Non rimangono che flebili tracce, come la ciotola d’acqua e le tre assi di legno descritte in Pa’ cuando, che, nella loro essenzialità, assurgono a simboli araldici strappati da Orfeo con l’esorcismo del canto a un oltretomba affine alla condizione letargica, liturgica, chiamata impropriamente vita.

Renzo Favaron
Teatrin de vozhi e sienzhi / Teatrino di voci e silenzi
Ronzani Editore, 2021,
Prezzo: euro 12,00. 

                           immagini tratte dal video Bologna in Lettere 10th Renzo Favaron

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Dialogare in dialetto con le ombre ultima modifica: 2022-09-06T18:05:41+02:00 da PASQUALE DI PALMO
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