Il titolo è accattivante: “open your art”. Gioca sull’omofonia tra cuore e arte (ma si poteva farlo anche con terra/earth), a far comprendere d’immediato la correlazione tra progetto umanitario d’integrazione dei giovani rifugiati presenti del territorio veneziano e il patrimonio artistico/culturale della città. Il progetto si articola in un ricco programma di attività e incontri con realtà cittadine, non solo museali e monumentali ma anche artigianali, professionali e artistiche, per far conoscere ai giovani rifugiati il patrimonio culturale materiale e immateriale della città. L’obiettivo, si legge nella brochure di presentazione, è di favorirne l’inserimento culturale, linguistico e sociale” auspicando un’interazione con la città non solo ed esclusivamente turistica e temporanea ma finalizzata ad una futura residenzialità. Futuri veneziani, “giovani che abiteranno, lavoreranno vivranno a Venezia e che chiameranno casa la città”. Veneziani per scelta, insomma.
Si comincia dunque con una trentina di ragazzi, inizialmente ucraini dai 14 anni in su, che avranno la possibilità per un periodo di tre mesi a partire dalla seconda metà di settembre (la programmazione per il momento si arresta a fine anno) di mettersi a confronto (utilizzo questo termine non a caso) con spazi altamente evocativi quali l’ex chiesa sconsacrata di San Lorenzo a Castello, sede delle iniziative per la sensibilizzazione climatica e del mare di Ocean Space, della Fucina del Futuro (spazio gestito dall’associazione Sumus), Giardinetti Reali a San Marco, i principali musei cittadini, nonché partecipare ad attività quali la “caccia degli antichi Graffiti di Venezia” dal libro di Alberto Toso Fei. Il programma è chiaramente soggetto a implementazioni e aggiornamenti, tenuto conto dell’interesse suscitato dall’iniziativa e dal desiderio delle molte realtà presenti nel territorio di contribuire fattivamente al progetto (si attende anche Fondazione di Venezia).
Sottesi all’ambizioso progetto, par di scorgere, assunti pienamente condivisibili: in primis l’indiscussa vocazione veneziana all’accoglienza dei popoli, porto di mare aperto agli scambi e all’integrazione e dunque luogo deputato a un progetto di questo tipo. Inoltre, un concetto di residenzialità e di ripopolamento di Venezia incentrato, piuttosto che sul ritorno dei veneziani autoctoni “esodati” in terraferma, sull’appeal che la città può suscitare sulle nuove generazioni, nate anche altrove, culture lontane che in città dovrebbero trovarvi una dimensione di vivere privilegiata, unica rispetto agli altri posti del mondo. Vivere e lavorare in mezzo all’acqua e alla bellezza nella CITTA’ SOSTENIBILE, dove prevale il contatto tra le persone e la comunità e il ritmo che scandisce gli appuntamenti del giorno è necessariamente lento. Si adegua ad una mobilità urbana esclusivamente pedonale o con la barca, mezzi di trasporto sostenibili, a impatto zero. Utopia?
È contagioso l’entusiasmo di Carla Toffolo, nel board di Europa Nostra e a capo dell’ufficio permanente dei Comitati Privati Internazionali per la Salvaguardia di Venezia. Ci accoglie con Emma Ursich (in collegamento zoom), responsabile e presidente di The Human Safety Net nella prestigiosa sede della fondazione promossa da Generali, al terzo piano delle Procuratie Vecchie in Piazza San Marco.
Insieme, attorno ad un tavolo, siedono i players e i promotori dell’iniziativa: Sebastiano Cognolato, presidente di VeniceCalls, a.p.s. che promuove Venezia città sostenibile, attraverso “progetti, eventi ed azioni in grado di generare un modello di città più consapevole e solidale agendo sul territorio tramite il volontariato, la cultura e la divulgazione” e che di fatto ospita attualmente giovani rifugiati ucraini, primi destinatari e fruitori del progetto.
Lo affianca Michele Gottardi, presidente degli Amici dei Musei. Infine, Gianfranco Bonesso, La casa di Amadou, il più meditativo dei relatori, forse perché a più stretto contatto con la realtà dell’accoglienza e le criticità del sistema.
Il suo intervento colpisce per la profondità di una riflessione: l’approccio da adottare con giovani che oltre che provenire da realtà drammatiche quali l’Africa subsahariana o le zone di guerra, non hanno alcuna esperienza della città d’acqua.
Vivono principalmente a Marghera o nella terraferma veneziana, negli appartamenti che – tra mille difficoltà – l’associazione gestisce e rende disponibili ai migranti. Quegli stessi che incontriamo nelle strade di Dolo o di Cavarzere, (sedi di due centri di accoglienza) e che ricopriamo di improperi perché attraversano agli incroci senza curarsi delle auto: banalmente, nessuno ha mai insegnato loro che cosa siano le norme di circolazione stradale e come muoversi in un centro urbano. Giovani con barriere linguistiche e culturali in quanto mai destinatari e fruitori di alcun progetto di integrazione.

Chissà che impressione farà loro vedere Venezia e i suoi canali? Forse l’acqua, più che la pietra e la monumentalità, potrà costituire un momento identitario con il loro vissuto, ma anche la pedonalità. Ben venga allora il suggerimento di coinvolgere anche le remiere veneziane nel progetto. L’acqua, il mare unisce, è uguale dappertutto. Certo l’approccio con la città sarà diverso con i primi destinatari del progetto, giovani rifugiati ucraini. Sarà forse più semplice con siriani o mediorientali che ritroveranno in Venezia, (con mutua reciprocità) una cultura dalle radici comuni.
In ogni caso, ritornando alla riflessione di Bonesso, l’incontro con i giovani dovrà tradursi in un confronto reciproco, senza alcuna presunzione di insegnare o imporre un modello culturale a loro in toto estraneo. Allora l’interazione dovrà essere la chiave per avvicinarli alla città. Bonesso cita al proposito la visita promossa ad una mostra di arte africana, dove le sculture e le maschere ispiratrici di Picasso, hanno costituito occasione per riflettere e far parlare i giovani circa funzione e significato dell’oggetto nel loro specifico contesto culturale.
Riflessione chiama riflessione: la mia attuale lettura è il bel saggio di Toby Green Per un pugno di conchiglie (Einaudi) che ripercorre la storia sociale, economica e culturale degli antichi regni dell’Africa Occidentale dal trecento all’età moderna in un’ottica, finalmente non eurocentrica. A parte la sorpresa di scoprire l’esistenza di realtà economiche e culturali altamente evolute, mi ha colpito lo straordinario lavoro di ricerca delle fonti storiografiche compiute dall’autore. Ricerca che si è rivelata particolarmente ardua in quanto prevalentemente basata su fonti orali, narrazioni di aedi che hanno reso necessario un’interpretazione e una loro decodifica. Questo lavoro eccezionale di decifrazione presuppone curiosità e capacità di ascolto scevre da pregiudizi (anche inconsci) verso mondi diversi dal nostro. Le conchiglie di ciprea, che abbonda(va)no sulle spiagge delle isole Maldive, costituivano la valuta per gli intensi scambi commerciali di merci e manufatti. Poi lo scambio è diventato impari perché a fronte di manufatti privi di valore intrinseco, i “nostri amici” esportavano “capitale umano” e oro; commodities che hanno consentito lo sviluppo economico di interi continenti. Ma questa è un’altra storia…
Ecco, il progetto “Open your art” costituisce un’occasione irripetibile per i fruitori ma anche per gli stessi ideatori e per le istituzioni coinvolte, un momento di crescita reciproca. Un confronto tra mondi e culture diverse da approcciare con un atteggiamento di meraviglia e autentico interesse. Solo così potranno nascere rapporti duraturi e fecondi e si scongiurerà il rischio di ridurre il tutto ad una serie di gite turistiche, seppur qualificate.

immagine di copertina: Procuratie vecchie (photo Roberto Povero)

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