Cos’è, in realtà, la Nuova Via della Seta – o Belt & Road Initiative (Bri) – cara al presidente cinese Xi Jinping?Si parla di centinaia di miliardi di investimenti, di miliardi di persone coinvolte in 120, 140, 160 paesi. Ferrovie, centrali elettriche, porti, strade ma anche accordi sul commercio, sulla diffusione di tecnologie digitali, prestiti e finanziamenti.
Ogni tanto spunta un paese, o un progetto, che vorrebbe “entrare a far parte” della Via della Seta. Fanno parte della Bri tutti gli investimenti cinesi all’estero? O solo alcuni e in questo caso, quali?
Xi Jinping parlò per la prima volta di una “nuova via della seta”, in un discorso tenuto nel 2013, all’Università Nazarbayev di Astana, nel Kazakhstan. In quell’occasione, parlò di un “approccio innovativo” per costruire “una cintura economica lungo la Via della Seta”. Il leader cinese indicò cinque punti come quelli portanti dell’iniziativa:
primo: rafforzamento della comunicazione sulle politiche per lo sviluppo seguite dai vari paesi;
secondo: miglioramento della connettività via terra;
terzo: promuovere il commercio senza impedimenti;
quarto: rafforzare la circolazione monetaria (in valute locali, cioe’ senza necessariamente passare per il dollaro);
quinto: migliorare la comprensione tra i diversi popoli.
Al discorso del presidente-segretario del Partito Comunista-capo dell’esercito fece seguito una valanga di articoli, idee proposte, da parte di vari organismi cinesi – ministeri o altri organi governativi, governi provinciali, imprese – su vari aspetti o proposte legati al megaprogetto.
Secondo Giacomo Natali, un giornalista che sulla rivista Atlante Treccani ha seguito con costanza le varie evoluzioni della Bri:
Alla costante ubriacatura di notizie e comunicati stampa sul tema (…) corrisponde un’ incredibile opacità riguardo a cosa ci sia davvero di concreto nell’iniziativa cinese.
Gli esperti e le diplomazie mondiali – prosegue Natali – si dividono sull’essenza stessa del progetto. È un piano di infrastrutture per una rotta commerciale tra Oriente e Occidente? E, se sì, segue allora itinerari definiti? Oppure è un marchio dietro al quale raccogliere tutte le iniziative estere cinesi? Oppure, come denunciano gli statunitensi, è in realtà una trappola cinese per riempire di debiti i paesi che aderiscono?

Anche in Italia la Nuova Via della Seta ha avuto e probabilmente ha ancora i suoi sostenitori, tanto che il primo governo di Giuseppe Conte firmò un Memorandum of Understading per “l’adesione” dell’Italia all’iniziativa cinese. Ora il Memorandum – un tipo di documento vago per sua natura – è finito nel dimenticatoio dopo la svolta impressa alla politica estera italiana dal governo di Mario Draghi.
Nel corso dei quasi dieci anni trascorsi dal discorso di Xi Jinping sono comparse almeno cinque mappe di Vie della Seta terrestri che corrono attraverso l’Asia Centrale (compreso, ahinoi, l’Afghanistan), la Siberia, il Nord e il sud Europa e non mancano quelle marittime, che passano dal Mar della Cina, dall’Oceano Indiano, dal Mediterraneo e che collegano tutto il mondo. A volte, sembrano illustrare il sogno di una “globalizzazione alternativa” sotto l’egida cinese a quella realizzata negli ultimi decenni dai paesi “capitalisti”, l’Europa e gli Stati Uniti. Una sorta di enorme mercato comune dominato dalla Cina, nuovo centro del mondo.
Negli ultimi anni, complici la pandemia di Covid-19 e il forte rallentamento della crescita economica cinese, il progetto sembra essersi ridimensionato.
Quello che avrebbe dovuto essere il “gioiello” della Nuova Via della Seta è il China Pakistan Economic Corridor (Cpec) che dovrebbe unire la provincia cinese del Xinjiang – nella quale la persecuzione della minoranza musulmana degli uighuri è stata denunciata da numerosi gruppi umanitari e dalle stesse Nazioni Unite – al “mare caldo” dell’Oceano Indiano, col porto di Gwadar. Invece, la costruzione del porto batte la fiacca, gli attentati dei secessionisti della minoranza etnica dei balochi contro le strutture e gli impiegati cinesi si sono moltiplicati e i tecnici cinesi sono costretti a vivere isolati e sotto protezione senza potersi muovere liberamente. La scorsa primavera tre cittadini cinesi e il loro autista pakistano sono stato uccisi a Karachi in un minibus attaccato da una terrorista suicida che apparteneva alla Baloch Liberation Army (Bla), un gruppo terrorista attivo nel Balochistan (la provincia nella quale di trova Gwadar), che accusa pakistani e cinesi di sfruttare le risorse “del popolo balocho” e che si batte per l’indipendenza del territorio, che confina con Iran e Afghanistan.
Altri attentati sono stati sono stati compiuti dai secessionisti del Balochistan negli anni scorsi. Nel 2018, la Bla ha attaccato il Consolato cinese a Karachi e nel 2021 un commando ha cercato senza successo di colpire l’ambasciatore cinese mentre si trovava in un albergo di Quetta (la capitale del Balochistan). L’ ultimo attacco, quello al minibus a Karachi, sembra aver scosso la fiducia della Cina nell’ambizioso progetto di usare il porto di Gwadar per collegare attraverso il Cpec il proprio territorio al Medio Oriente. I media cinesi, in testa il Global Times, hanno chiesto a gran voce agli “amici pakistani” di garantire la sicurezza dei cittadini cinesi che lavorano nel loro paese. Non solo la minaccia del terrorismo ma anche la disorganizzazione del Pakistan e la diffusa corruzione hanno portato al ridimensionamento dell’ intero progetto del Cpec.

La maggior parte dei fondi è andata nella costruzione di centrali alimentate a carbone per ovviare alla cronica mancanza di energia del paese. Gli altri importanti progetti dell’ iniziativa, secondo il think-tank americano Council of Foreign Relations, erano il rinnovamento della ferrovia da Peshawar a Karachi, due centrali idroelettriche nel Kashmir pakistano, la costruzione di una rete di metropolitana a Lahore, l’istituzione di una serie di “zone economiche speciali” e la creazione da parte della cinese Huawei di collegamenti in fibra ottica tra i due paesi. Oggi nessuna nave commerciale passa dall’ insicura Gwadar, la metropolitana di Lahore appare un progetto irrealizzabile e gli altri stagnano in attesa di investitori cinesi che appaiono sempre meno propensi a rischiare di partecipare al Cpec. Il Pakistan, già oberato dai debiti e in trattative con il Fondo monetario internazionale (Fmi) per un pacchetto di salvataggio non sembra in grado di assorbire nuovi debiti con la imprese cinesi.
Quello dei debiti è stato uno dei principali fattori della drammatica crisi economica dello Sri Lanka dove il porto di Hambantota – costruito con prestiti cinesi e successivamente consegnato in gestione alla Cina stessa dato che i locali non erano in grado di ripagare i debiti – è diventato il simbolo di un rapporto politico/economico perverso e fallimentare. A Gwadar e Hambantota di aggiunge il porto di Payra nel Bangladesh: una Via della Seta che appare più orientata ad accerchiare l’India – rivale regione di Pechino – che ad altri obiettivi. È quella che i media di stato cinesi hanno chiamato la “collana di perle”, cioe’ una serie di paesi filo-cinesi che circondano l’India e della quale fa parte anche il Nepal.

L’altro “corno” della Via della Seta è l’Africa, l’immenso continente nel quale l’impegno economico e politico della Cina e’ forte da molto tempo prima che Xi Jinping lanciasse la Nuova Via della Seta. I massicci investimenti cinesi sono stati spesso apprezzati e a volte criticati dagli interlocutori africani di Pechino, soprattutto per quanto riguarda la cosidetta “trappola dei debiti”, cioè il fatto che per realizzare i progetti di sviluppo gli attori africani erano forzati a indebitarsi con le banche cinesi.
Secondo Duncan Miriri, della Reuters,
la Cina ha prestato a paesi africani centinaia di miliardi di dollari nel quadro della Bri del presidente Xi Jinping, che prevedeva il finanziamento da parte di istituzioni cinesi della creazione di una base di infrastrutture in molti paesi in via di sviluppo. Però negli ultimi anni i crediti si sono asciugati.
Secondo Miriri,
analisti e accademici attribuiscono il rallentamento a fattori come la sparizione dell’interesse cinese per grandi investimenti all’estero, un crollo dei prezzi delle materie prime che ha complicato la restituzione dei debiti da parte dei paesi africani e la riluttanza (degli africani) a concludere accordi garantiti dalle loro risorse naturali.
Il giornalista cita poi la società internazionale Baker McKenzie secondo la quale gli investimenti cinesi nelle infrastrutture africane sono calati dagli undici miliardi del 2017 ai 3,3 del 2020.
Oggi la Cina di Xi Jinping, stretta tra i lockdown anti-Covid e la recessione economica, sembra sempre più ripiegata su sé stessa: la Via della Seta può aspettare.

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