Prendendo spunto dall’esergo collocato in apertura di volume (“Riempire un secchiello di ferro di acqua. / Tornarlo a vedere dopo alcuni anni”, p. 9), vale senz’altro la pena di tornare su questo cestello metallico ricolmo d’acqua per saggiarne la sapidità del contenuto. Già in questa metafora ad un tempo liquida e compatta, infatti, si potrebbe condensare l’intera poetica di Munaro, da sempre disciplinata entro solide forme sulla scorta dei classici nella fascinazione per i mari, le isole e le sonorità omeriche, ma in pari misura aperta più che mai alla dimensione ludica e onirica. Si celano in tale simbologia apparentemente giocosa chiavi di lettura insospettabili giacché se è naturale associare l’immagine del secchiello alla paletta e ai giochi dell’infanzia sulla spiaggia, è altrettanto vero che il medesimo strumento può valere anche da aspersorio nella liturgia non solo cristiana e pertanto l’acqua che esso custodisce è ad un tempo votiva e sacrificale, dimensioni cruciali nella poetica come nel vissuto di Munaro.

Ambivalente per sua natura è la stessa poesia o il poeta che se ne fa voce nell’oscillazione perpetua fra le icone della fiammella di una candela, con chiara eco montaliana, o di una maschera deforme, guardando probabilmente al modello di Artaud: “Sono questa scorza d’anguria / scavata, piantata su un palo / nell’orto, per impaurire i bambini. / Mi balugina dentro la fiammella / di una candela. Mi vedi? Sono io. / Io sono questa maschera deforme» (Ma come, non mi vedi? Sono qui, p. 67), testo in cui compaiono fra l’altro alcuni degli stilemi più ricorrenti in Munaro, dal palo conficcato in terra, agli orti, ai bambini; duplice, d’altra parte, risulta anche il valore semantico della voce “falistre”, che vale sia per “faville/scintille” sia per “fiocchi di neve”, la stessa neve del mulino che funge da titolo nella prima delle cinque sezioni, e anche i numeri qui non arrivano a caso se consideriamo che erano altrettanti i sassi nel titolo della raccolta omonima del 1993 per le Edizioni della Cometa (Cinque sassi, appunto), con implicito rimando sia al nucleo familiare composto da cinque fratelli, sia al gioco degli astragali e quindi all’arte divinatoria nella sua componente infera: “Abbiamo i pantaloni corti / e cinque sassi in tasca” (Siamo in fuga dalla colonia, p. 74).
Che non si tratti di un innocuo divertissement lo confermano i riferimenti nella prima sezione ad alcuni momenti della vita in famiglia o ad alcuni dei suoi componenti (Francesco, Simonetta, fratelli dell’autore, la madre; più avanti il fratello Massimo e il padre: “Quanti chiodi hai piantato, papà?”, p. 56): “è l’ora di andare a dormire, mamma. / “Il sapone m’è caduto nell’acqua”. / Non pensarci, sei stanca vero? / Domani lo ritroverai. / Un altro scalino, dài. / Un altro scalino e poi: dormi, dormi…” (Spegnete le luci, ora, è tardi, vieni, p. 27). Né il poeta ci nasconde alcuni lati oscuri e contraddittori della propria personalità, a mezza strada tra pulsioni sadiche e masochismo, ricondotti tuttavia ad equilibrio e misura dalla severa disciplina dell’endecasillabo e con parziali, ma rivelative aperture di credito al dialetto anche nelle forzature sintattiche: ”Lo senti l’odore fresco dell’erba / premere contro la faccia schiacciata / per terra? Fa male? Prendimi il braccio, / stòrzamelo dietro la schiena / fino a quando se non grido, pietà!» (p. 37). O ancora, sempre tornando sulla “strada di casa” (Di cosa andavi in cerca, dimmi, quando, p. 59), quasi a preconizzare la propria vocazione all’insegnamento maturata ad Ostiglia alla scuola di maestri come Gianfranco Maretti Tregiardini: “Ma prima di salire in classe / stràppati le vesti di dosso” (p. 38), anche se il futuro resta avvolto nell’indeterminatezza: “Chissà dove ci porta / questo binario, la pioggia… / Al capolinea, scommettiamo?, / si scende e troviamo / un caffè, si apre una porta: / chissà dove ci porta… ” (p. 39).

Già a questo stadio si palesa l’importanza accreditata da Munaro ai luoghi, alla natura e in particolare ai vegetali: “Salta il cancello chiuso ed entra dove / camminano le magnolie e le querce […] Ti batte il cuore ad ogni passo? Ascolta” (p. 41). Altrettanto vale per la familiarità coi morti, pur se in modalità lievi e stemperate dalla rima baciata (Tra la chiesa e il campanile, p. 42), o per l’inclinazione al canto nella piena consapevolezza del prezzo da pagare per arrivare alla poesia: “Ma non lo sai / che saranno randellate sul muso / e sulla schiena, echi, stritolamenti / di foltissime mani accese, insonni, / feroci, e lei, madre – matrigna – zia, / con le sue golose ustionanti lingue / di drago, ti leccherà fino all’osso?” (Qui NON ENTRARE NON AVVICINARTI, p. 43), per un’idea della scrittura poetica intesa fin dall’inizio, alla maniera di Rimbaud, quale ustione e dono gratuito: “Scrivevo le mie poesie su pacchetti / di Gauloises che, vuoti, abbandonavo / donavo per le strade” (p. 47), arrivando a condensare in questo distico incandescente un bilancio provvisorio della propria sofferta giovinezza: “Ricorda il male che, / per il tuo bene, ti hanno fatto” (p. 52); ma anche, a titolo di liberante compensazione, giungendo alla chiara coscienza della necessità di intraprendere un cammino di ascesi quasi monastico: “L’ultimo esercizio ancora, e poi un altro. / Ragazzi, ore e ore sospese… / Sul suo tavolo miniato / di scritture, palinsesto” (Latino, matematica, francese, p. 61).
Tornando per un momento alla fascinazione per la natura, un testo centrale e quasi programmatico è la falistra Questa, che in un’ansa, dal ponte, quasi, dove ricorrono buona parte dei timbri e dei contesti più distintivi del polesano, dal fiume eponimo con le sue sabbie e golene, alle sue acque ora fluenti ora melmose, alle isole, ai mulinelli, ai fontanazzi, alle canne e ai pioppi:
Si guada la palude, si sprofonda / a piedi nudi nella melma in mezzo / alle buche e ai mulinelli, poi: l’erba. / E poi altre polluzioni d’acqua tra acqua / e terra, erezioni di pioppe, terra. / Chiatte semisommerse nella sabbia (p. 71).
È il poeta stesso a precisare nelle note che i testi della silloge vengono da lontano e seguono, nel tempo, la composizione de L’Urlo (1990) e di Ionio (2003), due pietre miliari nella sua produzione. Una raccolta, pertanto, che va senz’altro intesa come un passaggio intermedio, e necessario, fra queste prime opere e l’approdo più recente a Ruggine e oro (2020) e ad Un tempo nel tempo (Poesie 1983-2021) (2021).

Le falistre
di Marco Munaro,
MC Edizioni, 2021,
Prezzo: euro 12,00.


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