Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, un’anticipazione del suo intervento al dibattito online di Latinoamericana, che sarà possibile seguire in streaming, il prossimo 20 ottobre, alle ore 20.30 (dettagli a fondo pagina).

Gli accordi di pace firmati nel 2016 tra il governo colombiano, guidato da Juan Manuel Santos, e la guerriglia delle Farc prevedevano l’avvio di una riforma agraria come strumento necessario per eliminare definitivamente le cause dei conflitti che hanno afflitto il Paese. Quello della concentrazione delle terre in mano alle oligarchie, che controllano anche l’economia estrattiva e il commercio, è un effetto che risale alla conquista spagnola, che impose il proprio modello economico sulle forme di organizzazione tradizionale indigena poggianti su proprietà comunitarie.
La conseguenza è che, ancora oggi in Colombia, lo 0,4 per cento della popolazione possiede il 46 per cento della terra coltivabile, mentre degli 11,3 milioni di ettari che potrebbero essere destinati all’agricoltura, solo 3,9 milioni sono attualmente utilizzati. Questa realtà fa sì che il settanta per cento della sicurezza alimentare non derivi dai grandi proprietari terrieri, ma dall’agricoltura familiare, costringendo il Paese a importare dall’estero tra i tredici e i quattordici milioni di tonnellate di cibo all’anno per procacciarsi il restante trenta per cento di quello che consuma. Tenuto conto dell’estensione delle aree agricole, la Colombia potrebbe raggiungere una produzione sufficiente a soddisfare le proprie necessità, senza dover ricorrere all’importazione, se solo fosse in grado di modificare una realtà che si è andata consolidando nel tempo, e che di fatto ostacola lo sviluppo economico, accentuando le disuguaglianze alla base delle violenze.
Il fenomeno dell’occupazione delle terre si manifesta in modo intermittente da decenni, da quando, verso la metà del secolo scorso, le organizzazioni contadine hanno aumentato il loro seguito nelle zone rurali, riuscendo a organizzare i contadini. Il risultato di queste mobilitazioni è stato generalmente modesto sul piano dell’avanzamento verso una riforma agraria, contrastata storicamente dalla destra, fino a poco tempo fa politicamente egemone. Non è certo un caso che l’amministrazione di destra di Iván Duque, che ha preceduto quella dell’attuale, si sia sempre detta contraria agli accordi di pace e a tutto ciò che essi comportavano.
Così, l’attesa riforma agraria che per i negoziatori di allora doveva essere il perno del nuovo sviluppo che si era pensato per il Paese è rimasta lettera morta; e la storia della Colombia ha continuato a scorrere sulla scia di una violenza che ha visto contrapporsi le guerriglie alle formazioni paramilitari di estrema destra. In campagna elettorale, Petro ha posto con forza il problema della mancata riforma agraria. Non poteva essere diversamente, provenendo quella proposta da un uomo che aveva partecipato alla guerriglia. L’allora candidato ha chiarito che, qualora avesse vinto, il suo governo avrebbe puntato sull’autosufficienza alimentare, e perfino sull’esportazione delle eccedenze agricole, ovvero su una riforma agraria che restituisse dignità al lavoro contadino, prevedendo la donazione delle terre improduttive. Ciò avrebbe consentito, secondo le promesse, di trasformare l’agricoltura nel nuovo petrolio dell’economia colombiana. Con la “pace totale” come scopo, Petro ha fatto sue le raccomandazioni provenute dalla Commissione della Verdad, prevista dagli accordi del 2016, la quale, per quanto riguarda la questione agraria, pose come obiettivo prioritario la distribuzione di almeno tre milioni di ettari di terra ai contadini che ne erano privi, indirizzandoli verso un tipo di agricoltura rispettosa dell’ambiente.
La vittoria di Petro ha creato una forte attesa di cambiamento in tutto il Paese, alla quale il presidente finora è sembrato corrispondere, imprimendo al suo governo un ritmo accelerato. È quindi del tutto naturale che abbia creato una forte aspettativa anche nei movimenti contadini, che da qualche tempo hanno intensificato le occupazioni delle terre, con il proposito di spingere il governo ad attuare i suoi progetti in tema di riforma agraria. Sulla spinta delle occupazioni di terre, il governo ha risposto accelerando l’avvio del suo progetto di riforma, preoccupato anche dalle reazioni degli allevatori, le cui terre sono esposte al pericolo di essere occupate. Una reazione che per certi versi può far temere la rinascita di organizzazioni paramilitari, come già successo in passato. Innescando così un processo che non farebbe che alimentare quella violenza e quella illegalità, a cui il nuovo esecutivo vuole porre fine.

Il governo ha annunciato di volere consegnare un totale di 680.000 ettari di terreno entro il 15 novembre di quest’anno in diciannove dipartimenti a contadini, comunità indigene e afro. Mentre la nuova ministra dell’Agricoltura, Cecilia López Montaño, ha sottolineato che “la massiccia titolazione delle terre è un riflesso dell’impegno del governo per la riforma agraria e il rispetto dell’accordo di pace”.
Nonostante le accuse di castro-chavismo che gli sono state rivolte durante la campagna elettorale dalle destre, e pur contemplando la Costituzione colombiana la possibilità di esproprio, Petro farà fronte alla necessità di terra ricorrendo ad acquisti di terreni improduttivi. Imponendo più tasse a quei proprietari che non vorranno venderli, o obbligandoli a realizzare progetti che mettano a frutto i loro terreni. Il 7 ottobre è stato reso pubblico un accordo con la Federazione degli allevatori colombiani che prevede la vendita di tre milioni di ettari di terra dei cinquantacinque che sono di proprietà privata in diverse parti del paese.
La trattativa è stata condotta in gran segreto da José Félix Lafaurie, presidente dell’associazione degli allevatori (Fedegan) e dall’incaricato del presidente, Iván Cepeda, con la partecipazione della ministra dell’Agricoltura Cecilia López.
Gli ettari oggetto dell’accordo saranno pagati probabilmente con i fondi che il governo otterrà con l’approvazione del suo progetto di riforma tributaria. Grazie ad esso, Petro può portare avanti il suo progetto di riforma agraria e rispettare il primo punto dell’accordo con la ex guerriglia delle FARC, disatteso dalla presidenza Duque. Sorprendente è stata la dichiarazione di Lafaurie che guida una categoria politicamente contraria all’attuale presidente, che ha detto che con questo atto Petro rispetta “l’accordo di pace e questo è fare democrazia”. Le terre saranno distribuite ai contadini che ora coltivano le foglie di coca, contribuendo in tal modo alla lotta contro la produzione di droga.

Nel suo primo discorso da presidente, Petro aveva anche detto che “la pace è possibile se si cambia la politica contro le droghe vista come una guerra, per una politica di prevenzione forte del consumo nelle società sviluppate”. La conseguenza è stata la decisione di sospendere la eradicazione forzata delle colture di coca e gli studi per riprendere la fumigazione aerea delle piantagioni con glifosato, anche se il neo presidente ha precisato che ciò non significa che sia permesso seminare piante di coca. Dal momento che le preferenze del governo vanno verso l’implementazione del sistema di sostituzione delle colture illecite attuato attraverso progetti di agro industrializzazione. Anche qui, un netto cambio rispetto alle politiche di Duque che era in linea con l’uso delle misure militari.
La Colombia è uno dei paesi più pericolosi al mondo per i difensori della terra e dell’ambiente. Il bilancio degli ultimi dieci anni è tremendo e registra l’uccisione di 332 difensori della terra e dell’ambiente tra il 2012 e il 2021. Solo lo scorso anno, gli assassini sono stati 33, il che l’ha resa il secondo paese più letale per i leader ambientalisti a livello mondiale. Oltre a ciò, la regione è anche altamente vulnerabile ed esposta agli impatti irreversibili dei cambiamenti climatici.
Come si legge in “A Decade of Defiance”, il recente rapporto di Global Witness, l’organizzazione che si batte per un pianeta più sostenibile, giusto e uguale, gli omicidi di ambientalisti sono solo la punta dell’iceberg. I difensori della terra e dell’ambiente sono infatti esposti anche ad innumerevoli minacce, molestie; a sorveglianza e alla criminalizzazione. Quando un ambientalista protesta contro una società mineraria che opera senza consultare le comunità locali, quando denuncia l’inquinamento idrico prodotto da una compagnia petrolifera, o quando si oppone allo spostamento forzato di una comunità, ne paga un prezzo.
Il governo colombiano aveva aderito all’accordo di Escazú nel 2019. Un trattato che ha un respiro regionale e che mette in atto nuove protezioni per coloro che difendono il loro diritto alla loro terra e a un ambiente sano. I suoi tre obiettivi principali sono l’accesso alle informazioni, la partecipazione e la giustizia ambientale, ma esso è giustamente più noto perché si propone di proteggere i difensori dell’ambiente. La sua adozione aveva quindi rappresentato una grande vittoria per l‘ambientalismo. L’accordo richiede ai governi di prevenire e indagare sugli attacchi contro i difensori ambientali, e affronta anche questioni cruciali come l’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico, l’accesso alla giustizia e la garanzia di un ambiente sicuro per i difensori dell’ambiente.
L’ex presidente colombiano Iván Duque aveva cercato di farlo approvare, ma la discussione era stata alla fine boicottata dal suo partito, il Centro Democrático. Il risultato è stato che, nonostante l’urgenza segnalata dal presidente, non se ne è fatto nulla. Finalmente il 10 ottobre il Congresso colombiano ha approvato con un solo voto contrario il disegno di legge che permette al paese di ratificare l’accordo di Escazú, che è stato firmato da 25 paesi e ratificato da 14 di loro, tra i quali Messico, Bolivia, Ecuador, Cile e Argentina. Il Cile lo aveva approvato solo recentemente, nel giugno di quest’anno con voto parlamentare.
Ora il governo di Petro ha uno strumento in più con cui dimostrare se il suo impegno a protezione di chi difende l’ambiente è reale, segnando finalmente un allontanamento da un passato in cui la violenza contro i difensori è stata ignorata dalle autorità, che si sono rifiutate di intraprendere qualsiasi azione a tutela. Prima di essere firmato dal presidente, l’accordo passerà alla Corte costituzionale che deve stabilire che non contenga nulla contro la costituzione. Un processo che si valuta durerà sei mesi.
Nelle sue scelte politiche in materia, Petro potrà essere aiutato dalla decennale esperienza di organizzazioni della società civile e dei popoli indigeni che hanno sviluppato una profonda riflessione sulle molte riforme necessarie in Colombia. Una di queste organizzazioni, Somos Defensores, si è spesa per garantire una protezione efficace ai difensori dei diritti umani, ritenendo responsabili le istituzioni statali, condividendo le conoscenze con le organizzazioni partner e aumentando la consapevolezza pubblica. Con altre realtà simili, Somos Defensores ha recentemente presentato un piano di emergenza per proteggere i leader sociali, i difensori dei diritti umani e i firmatari dell’accordo di pace del 2016, che include azioni per i primi cento giorni di governo.
La scelta che pare affermarsi con la ratifica dell’accordo di Escazú è quella di mettere definitivamente alle spalle le pratiche e le politiche che sono già costate la vita a troppi ambientalisti, gettando le basi per la pace e lo sviluppo sostenibile, obiettivo dichiarato del nuovo presidente colombiano.



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