Tre-cinque-due. Non è solo un modulo con cui si schierano in campo le squadre di calcio, e il modulo preferito ad esempio da Antonio Conte, allenatore del Tottenham Hotspur (squadra di Londra, attualmente terza nella Premier League inglese). Ma sorprendentemente, data la tradizione decisamente diversa, 3-5-2 indica anche il numero di primi ministri (3), ministri dell’economia (5) e sovrani (2) che si sono succeduti (o si potrebbero succedere) in Gran Bretagna nel 2022 (al momento i ministri dell’economia sono stati quattro, ma è possibile che il nuovo premier, Rishi Sunak, che è appena entrato in carica, ne nomini uno diverso da Jeremy Hunt).
I tre primi ministri precedenti a Johnson erano stati in carica per un totale di dodici anni, con Brown, Cameron e May (2007-19); i cinque ministri dell’economia che hanno preceduto gli ultimi quattro, 23 anni (da Brown a Javid, 1997-2020). E ovviamente l’ultima volta che due monarchi si erano succeduti a Buckingham Palace correva l’anno 1952.
Specialmente nelle ultime settimane, i conservatori sono piombati nel caos. A luglio vi sono state le dimissioni forzate di Boris Johnson, che ha visto il governo sgretolarsi sotto i suoi piedi dopo l’abbandono in rapida sequenza di ministri e sottosegretari. La campagna elettorale estiva ha poi visto molti candidati contendersi la leadership del partito e la conseguente poltrona di primo ministro. La prima selezione è stata fatta dai parlamentari conservatori (membri della House of Commons), con il ministro dell’economia, Rishi Sunak, rimasto sempre in testa alle preferenze e con Liz Truss, allora ministra degli esteri, che solo all’ultimo round a eliminazione ha sopravanzato Penny Mordaunt, ministra del commercio. La parola è poi passata ai membri del partito conservatore che hanno ribaltato la situazione, dando una netta maggioranza a Truss. Quando si parla dei membri del partito conservatore, si deve pensare a circa 150-200.000 elettori (ovvero lo 0,3 per cento degli elettori britannici): un campione tutt’altro che rappresentativo, tuttavia, in quanto mediamente più maschile, più benestante, più bianco, più anziano, e più favorevole alla Brexit rispetto alla media della popolazione.

Lo scollamento tra gli iscritti del partito e i parlamentari, d’altronde, è bi-partisan: anche fra i laburisti, infatti, nel 2010 a David Milliband non era stato sufficiente il supporto parlamentare per battere il fratello Ed nel ballottaggio fra gli iscritti; e nel 2016 la sfiducia parlamentare a Corbyn era stata ribaltata dalla consultazione della base. È evidente, insomma, che la “pancia” del partito tende a supportare leader più partigiani ed estremisti (o carismatici, come qualcuno potrebbe sostenere), mentre l’establishment tende a propendere per una guida più moderata e centrista. Altrimenti non si spiegherebbe come mai, nell’attuale caos seguito alle dimissioni di Liz Truss, Boris Johnson sia stato seriamente considerato un’opzione per succederle.
La procedura per la nuova nomina a leader dei tories prevedeva infatti che potessero correre tutti coloro che avessero ottenuto l’appoggio esplicito di almeno cento parlamentari del partito. Calcolando che essi sono 357 in totale, il massimo possibile era di tre candidati. La presenza di più di un candidato avrebbe implicato ancora una volta il ricorso agli iscritti, mediante un voto online che si sarebbe dovuto concludere venerdì. Fino a domenica sera (23 ottobre) i papabili erano Sunak, Mordaunt e Johnson, anche se solo il primo aveva superato ufficialmente la fatidica soglia. Domenica sera tuttavia Johnson, pur dichiarando di aver ottenuto il sostegno degli almeno cento parlamentari necessari per candidarsi (conteggio peraltro non verificabile), e pur sostenendo che sarebbe stato “well placed” per vincere le elezioni politiche del 2024, ha annunciato che non si sarebbe presentato, consapevole che – pur dato per favorito in un’eventuale consultazione della base – gli sarebbe stato impossibile governare senza l’appoggio dei propri parlamentari. Nella stessa serata, molti parlamentari che si erano in precedenza dichiarati fedeli a Johnson si sono prontamente ricollocati nel campo di Sunak (ad esempio Nadhim Zahawi, uno dei cinque ministri dell’economia, in carica per due mesi nell’estate, il quale, dopo aver dichiarato in mattinata che “Britain needs him [Johnson] back”, aveva twittato in serata che “Rishi [Sunak] is immensely talented […] and will have my full support and loyalty”). Nella mattinata di lunedì 24 ottobre, poi, pure Penny Mordaunt ha rinunciato, non essendo stata in grado di garantirsi un supporto sufficiente e accondiscendendo anche alle pressioni dei molti parlamentari che facevano appello all’unità. Rishi Sunak è quindi diventato leader del partito conservatore e, di conseguenza, primo ministro.

Keir Starmer, leader del partito laburista, invoca a gran voce le elezioni. D’altronde, nei sondaggi di opinione sulle intenzioni di voto, la distanza tra labour e tories è passata in un mese da 43-31 per cento a 54-21 per cento. All’indomani delle dimissioni di Truss, sondaggi di opinione mostravano come Starmer sarebbe stato preferito in un testa a testa rispetto a tutti e tre i potenziali candidati conservatori (anche se c’è da chiedersi se la sua crescita sia dovuta ai meriti propri o ai demeriti altrui). Tuttavia è il governo che convoca le elezioni, ed è difficile pensare che – forti di un’ampia maggioranza parlamentare – i tories vogliano sottoporsi al giudizio dell’elettorato in queste condizioni, potendo aspettare i circa due anni rimanenti di legislatura (il termine ultimo per le prossime elezioni è gennaio 2025 anche se è considerato probabile un voto a metà 2024).

Gli ultimi mesi, si diceva, sono stati disastrosi per il partito conservatore, e Truss ci ha indubbiamente messo del suo. Già nel corso della battaglia per la leadership conservatrice molti avevano sottolineato i suoi “u-turn”, ovvero inversioni di rotta: da giovane attivista liberal-democratica aveva partecipato a manifestazioni contro la Thatcher ma poi, divenuta conservatrice, aveva iniziato a prenderla a modello sia nel modo di presentarsi che nella politica; fervente sostenitrice del “remain” nella campagna referendaria per l’uscita del Regno Unito dall’UE del 2016, all’indomani della vittoria del “leave” aveva cambiato idea e, nel discorso di insediamento come primo ministro, aveva persino ringraziato Johnson per aver “got Brexit done”.
Il suo mese e mezzo a Downing Street, di fatto abbreviato dalle due settimane di lutto nazionale seguito alla morte di Elisabetta II, avvenuta due soli giorni dopo l’entrata in carica di Truss, è stato fin da subito controverso. Il primo atto, annunciato dal cancelliere, Kwasi Kwarteng, è stato coerente con quanto sostenuto in campagna elettorale: una politica fiscale di taglio delle aliquote (in particolare le più alte), a cui si aggiungevano la rimozione dei limiti ai bonus per i banchieri e la rinuncia ad alzare la “corporation tax” dal 19 al 25 per cento, oltre ad altre disposizioni più generali quali sgravi sull’acquisto della prima casa. Si trattava di un “mini-budget” da 45 milioni di sterline interamente finanziato a debito. La reazione dei mercati, tuttavia, è stata disastrosa: la sterlina è crollata e la Bank of England si è trovata costretta ad intervenire per cercare di stabilizzare la situazione.
Mentre anche il malcontento dei deputati conservatori aumentava, Truss ha tentato di salvarsi chiedendo le dimissioni di Kwarteng ma di fatto rifiutandosi di assumersi le proprie responsabilità (qui estratti della sua breve conferenza stampa). La nomina di Jeremy Hunt come sostituto di Kwarteng è stato il preludio all’ennesimo “u-turn”, in quanto il nuovo ministro dell’economia si è affrettato a tornare indietro rispetto alle misure annunciate dal predecessore. Con il partito in subbuglio, pochi giorni dopo sono intervenute le dimissioni (forzate) di Suella Braverman, ministra dell’interno, che aveva usato il proprio account personale per inviare via email informazioni riservate.
Così come aveva fatto pochi giorni prima Kwarteng, anche Braverman ha sottolineato il proprio “accept responsibility” per gli errori fatti (implicitamente sottolineando che qualcun altro – leggi il primo ministro – non lo faceva). La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato un voto sul fracking, ovvero la fratturazione idraulica della roccia per favorire l’estrazione di petrolio o gas. Tale pratica, molto controversa dal punto di vista ambientale, è stata sospesa nel Regno Unito nel 2019, ma il governo (andando contro quanto dichiarato dallo stesso manifesto del partito conservatore) spingeva per allentare le restrizioni. Volendo costringere i parlamentari a esprimersi positivamente, e presentando il voto essenzialmente come un voto di fiducia al governo, Truss ha provocato una vera e propria rivolta. La sua posizione è diventata intenibile e il 20 ottobre si è dimessa. Ora l’entrata in carica del più moderato Sunak, che già nella campagna estiva che lo vedeva contrapposto a Truss aveva dichiarato l’impossibilità di perseguire le politiche fiscali da lei propugnate, dovrebbe riportare una maggiore stabilità. Il 31 ottobre il (nuovo?) ministro dell’economia dovrebbe presentare il “Medium-Term Fiscal Plan”, e sapremo dunque presto quale sarà l’orientamento in termini di finanza pubblica.

Va rimarcato tuttavia che neppure Sunak è esente da critiche: in particolare gli si imputa un distacco dalla gente comune, dato l’enorme patrimonio che condivide con la moglie (una ricca ereditiera indiana) e che gli è valso il soprannome di “maharajah dello Yorkshire”; ma soprattutto è stato criticato per l’elusione fiscale della consorte la quale, fino ad aprile scorso, non aveva pagato nel Regno Unito le tasse sui guadagni milionari ottenuti all’estero, grazie all’utilizzo dello status di “non dom” (non domiciliato): una pratica legale, ma che certo mal si conciliava con il ruolo del marito, allora ministro dell’economia.

Molti osservatori hanno sottolineato come governi di così breve durata facciano sempre più assomigliare il Regno Unito all’Italia: insomma una “Britaly” (copyright The Economist) caratterizzata da instabilità politica, bassa crescita e ricorso al debito pubblico. Addirittura, i 45 giorni di Truss hanno battuto per brevità tutti i governi dell’Italia repubblicana: infatti, fatti salvi alcuni esecutivi che non hanno mai ottenuto la fiducia (Andreotti I e V, Fanfani I e VI, De Gasperi VIII), nell’Italia repubblicana il governo più breve fra l’entrata in carica e le dimissioni (o voto di sfiducia) è durato 82 giorni (governo Spadolini II nel 1982). Somiglianza per somiglianza, i tifosi del Tottenham possono forse sperare che il 3-5-2 dia loro in Inghilterra i medesimi successi che, adottando lo stesso schema di gioco, Conte ha ottenuto in Italia da allenatore della Juventus.
Dall’altro lato, proprio nella domenica decisiva per presentare le candidature conservatrici (23 ottobre), in Italia è entrato in carica un governo guidato da una donna (come Truss), di destra (come Truss), nata a metà anni Settanta (come Truss). Se ora è l’Italia ad assomigliare al Regno Unito, quella metà di tifosi italiani che non tifa Juventus spera che – somiglianza per somiglianza – la squadra bianconera ottenga in Italia gli stessi risultati che il Tottenham ha conseguito negli ultimi anni in Inghilterra (ultima vittoria: una Coppa di Lega nel 2008).

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!