Quotidianità e nobiltà del pomodoro

“Il signor pomodoro” di Franco Avicolli segue i percorsi storici e culturali di uno dei più antichi e multiculturali prodotti della terra e della creatività umana.
ALBERTO MADRICARDO
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Il nuovo libro di Franco Avicolli (Edizioni Archos, 2022, € 20) è tante cose insieme. L’intento generale è dichiarato già nel titolo, nel quale il pomodoro è presentato come “signore”. È quello di compiere quella che nel teatro classico si chiamava un’agnizione: il pomodoro  verrà tratto dall’umile quotidianità della cucina, in cui giace e, come una Cenerentola infine riconosciuta, portato al centro della scena. 

E la scena è la più nobile che si possa immaginare. È quella della poesia. Il libro  è aperto dall’ “Ode al pomodoro” di Pablo Neruda, in cui l’umile ortaggio vi è chiamato “astro della terra”, “stella ripetuta e feconda”. Come un’antica divinità buona che non cela insidie e inganni, esso: “ci consegna il regalo del suo colore focoso e la totalità della sua freschezza”.

Ma il libro è anche una metafora della conoscenza che giunge alla scoperta (al “discoprimento”) di una trama profonda delle cose che inizialmente non era evidente. Vi giunge dopo accurati preparativi, tentativi frustrati, dopo essersi spogliata di pregiudizi, aver adottato nuovi schemi che consentono la risoluzione di quei problemi inizialmente insolubili che Thomas Kuhn chiamava rompicapi. In modo tale – scrive Avicolli citando Remo Bodei – che

anche ciò che è ovvio, banale e ‘a portata di mano’ possa cominciare a esprimersi diversamente e possa parlare con la sua lingua di sé al mondo.

Il libro è anche il racconto di una migrazione e di un’accoglienza difficile ma riuscita. Il pomodoro, come i migranti che provengono da situazioni umili e svantaggiate, rischierà il “respingimento”. Ma assumerà a sua volta il ruolo di marcatore di civiltà, divenendo metro e selettore di quelle con cui entra in contatto: come si vedrà, non tutte le civiltà cui il pomodoro si offre saranno capaci di accoglierlo. 

La migrazione del pomodoro avviene prima tra civiltà diverse dello stesso continente –  l’America, in cui è nato – poi tra due mondi tra loro completamente alieni. Alieni molto più di quanto siano oggi la Terra e Marte: di Marte sappiamo più di quanto – cioè nulla – sapessero gli Europei del Nuovo Continente che scoprirono senza cercarlo (cercavano “le Indie”) alla fine del 1400, o di quanto sapessero dell’Europa quelli che sarebbero stati  poi chiamati Amerindi.  

Questi due mondi di colpo vengono posti l’uno davanti all’altro, tanto reciprocamente incomparabili da non avere in comune nemmeno una loro differenza. E infatti l’autore ricostruisce la formazione, nei primi decenni dopo la scoperta, della linea di demarcazione (ideale, culturale, sociale ) di quella riconoscibile differenza fra Europa e America che diviene possibile  solo quando si dà una relazione comparativa

Solo una volta costituita questa linea (al tempo stesso di contatto e di separazione) i due continenti potranno  formare le loro reciproche intenzionalità e corrispettive identità. I primi contatti tra questi mondi saranno del tutto casuali, avendo però conseguenze definitive, irrevocabilmente fondative. Ciò vale pur dovendosi tenere conto che gli Europei giungono nel continente sconosciuto con una pregiudiziale finalità universalistica (la conversione degli autoctoni al cristianesimo) che li pone fin dall’inizio su un piano di vantaggio rispetto a questi, che non  pensano  nemmeno per un attimo  a convertire gli invasori alla loro religione. 

Il libro di Avicolli è anche la storia della formazione di una “quotidianità profonda”, di quella lunga durata di cui parlavano Ferdinand Braudel e la scuola degli Annales. Questa quotidianità “senza tempo” si  forma con lo stabilizzarsi di abitudini sociali che riguardano le esigenze vitali più originarie degli uomini, come l’abitare, il mangiare, ecc. Tali abitudini per quanto nuove, divengono così intime, si connaturano talmente con le pratiche essenziali della vita, da diventare indistinguibili dai suoi ritmi biologici, appunto “senza tempo”. Anche se sono di recente diffusione, queste abitudini elementari – come accade per i miti – retroagiscono e “assorbono” il passato, venendo ben presto percepite come se fossero sempre state.   

Il protagonista del libro – il pomodoro come lo conosciamo noi – ha una storia complessa, incerta e travagliata, ma relativamente recente. Eppure è così profondamente compenetrato con noi da sembrare aver fatto sempre parte della nostra identità italiana. Ma la sua storia è più antica: comincia ben prima della scoperta dell’America da parte degli Europei e della sua migrazione nel Vecchio continente.

Maggie Siner, © 2022, Pomodori verdi, olio su lino

Antefatto precolombiano 

Se il centro della trattazione di Avicolli riguarda la vicenda del pomodoro nel suo passaggio in Europa e in particolare in Italia, essa non trascura l’importante antefatto precolombiano: il pomodoro esisteva da lungo tempo come pianta spontanea cresciuta molto probabilmente nella zona andina che al tempo della venuta degli Europei era dominata – peraltro non da molto –  dagli Incas. 

Per le caratteristiche fisiche di questo territorio in cui era nato – molto accidentato e chiuso, abitato da popolazioni che  avevano scarsi contatti tra di loro – la domesticazione della bacca non poté andare oltre le valli in cui spontaneamente cresceva. Probabilmente nella vasta area Inca che dall’Equador andava all’attuale nord del Cile, il vegetale venne domesticato episodicamente e localmente, usato come ingrediente di salse al peperoncino per rendere più accettabile al palato il gusto piccante di questo. Ma l’uso sociale del pomodoro nell’area Inca non divenne mai  generalizzato e definitivo. 

Era nato insomma “nel posto sbagliato”: nell’area della sua diffusione spontanea, per le caratteristiche fisiche e culturali che abbiamo detto, non avrebbe mai potuto realizzare le sue potenzialità espansive. Verrà domesticato pienamente in uno spazio culturale diverso da quello Inca, nella parte meridionale dell’America del Nord abitata dagli Aztechi o “Mexica”, il cui impero esisteva da circa due secoli, all’arrivo dei conquistadores di Cortes.  

Esistono evidenze  – scrive Avicolli – per affermare che le due più importanti aree culturali dell’America del tempo, intrattenevano – anche se non direttamente – una qualche relazione che si concretizzava verosimilmente in un punto intermedio e con il contributo di popolazioni che vivevano lungo la costa.

Poiché nella loro zona i grandi animali come i cavalli, le mucche e le pecore erano da gran tempo estinte, la dieta alimentare degli Aztechi aveva dovuto rivolgersi soprattutto agli ortaggi. Questa necessità aveva sviluppato nei Mexica, sia ricchi che poveri, l’interesse e la sensibilità per orti e giardini, ai quali tutti dedicavano una grande cura, anche con l’importazione di piante straniere. Ai tempi dell’arrivo degli Europei, gli Aztechi facevano un largo uso del pomodoro (insieme al mais, ai fagioli, alle melanzane, ecc.), soprattutto per diluire il sapore piccante del peperoncino con cui condivano molte vivande (anche quelle a base di carne umana, che veniva consumata particolarmente per usi cerimoniali).  

L’ambiente presentava dunque quelle due condizioni che  Avicolli ritiene indispensabili per l’integrazione di successo in una civiltà di una pianta straniera: un’agricoltura strutturata e una cultura del cibo sviluppata. Queste due condizioni la civiltà  Azteca le aveva. Quella Inca no. “Il caso – osserva l’autore – agisce a tutte le latitudini ma non diventa storia dappertutto”. 

Proprio in area Azteca perciò era avvenuta la domesticazione permanente della bacca andina e lì avrebbe ricevuto il nome che (tranne che in Italia e parzialmente in Russia) sarebbe stato universalmente accettato: tomate o jitomate. Tra le tante specie di pomodoro di vario colore (giallo, verde, blu, ecc.) disponibili in natura, solo quella rossa e quella verde – ancora usata in Messico – si sarebbero imposte. 

Maggie Siner, © 2022, Pomodori, olio su lino

L’incontro  con gli Europei 

Dopo il prologo precolombiano, l’autore passa alla ricostruzione, con robusti riferimenti documentari, del primo incontro del pomodoro con gli Europei. Egli dedica ampio  spazio alle vicende accadute nei primissimi decenni dopo il primo viaggio di Colombo, che avrebbero portato alla dominazione della civiltà europea sul Nuovo Mondo e alla distruzione di quelle autoctone. 

Avicolli descrive lo sbarco degli Spagnoli comandati da Cortez sulla costa dello Yucatan, la loro marcia verso la capitale azteca, il timore dei locali, la politica di alleanza dei nuovi arrivati con le popolazioni sottomesse agli Aztechi, le incertezze di Montezuma, gli equivoci, le menzogne, i tranelli, i massacri. Senza perdere mai di vista la pista che più gli interessa: quella del pomodoro. 

Il primo  esplicito riferimento degli invasori all’ortaggio è di Hernan Cortes, nel 1519 (intorno al 20 ottobre). In una situazione di estrema drammaticità e pericolo, egli accusa i capi aztechi di aver organizzato un complotto per massacrare tutti gli Spagnoli in marcia verso  la loro capitale, avendo già perfino preparato le pentole per cucinare i loro corpi e mangiarli “conditi con pomodoro e peperoncino”. 

Dopo aver rilevato questa prima citazione del pomodoro in una testimonianza europea – che se non si fosse verificata in una circostanza tanto tragica potrebbe suonare ai nostri orecchi perfino comica –l’autore ricerca testimonianze nelle relazioni dei cronisti, religiosi, funzionari e viaggiatori che dalla penisola iberica già dai primi decenni del Cinquecento arrivavano sempre più numerosi per prendere possesso della “Nuova Spagna”. Nelle prime liste di piante inviate al re di Spagna ancora il pomodoro non compare ma dopo quel fatidico 20 ottobre 1519 per il pomodoro – come si dice – “un’altra storia è cominciata”. 

Maggie Siner, © 2022, Pomodori ciliegino e stoffa, olio su lino

Il passaggio in Europa. 

Nella crisi europea del Cinquecento irrompe la notizia della scoperta del Nuovo Mondo, alimentando le fantasie e cominciando a produrre quella rivoluzione della percezione sociale dello spazio terreste, per  la quale “l’altrove” lontano terreno, avrebbe  gradualmente, e parzialmente, sostituito il “lassù” celeste medievale. Le conseguenze di ciò per l’Europa saranno profonde su tutti i piani: identitario, culturale, politico, sociale, psicologico e anche alimentare. 

Mais e fagioli entrano nell’alimentazione molto presto (il mais – per esempio – è coltivato in Veneto nel 1554, come da testimonianza di Ramusio). Non la stessa fortuna avranno la patata e il pomodoro. Sull’adozione di quest’ultimo, in particolare, peseranno pregiudizi “scientifici”.

Per tale ragione, paradossalmente, la popolazione rurale che non ha accesso alle conoscenze scientifiche gode di maggior libertà, almeno in materia alimentare, perché è più condizionata dalla fame che dalla conoscenza scientifica alla quale, fra l’altro, non ha la possibilità di accedere. Osserva l’autore.

Nel primo Rinascimento europeo non ci sono ancora le condizioni culturali per una piena ricezione delle novità che provengono dal nuovo continente, anche se l’invenzione della stampa favorisce molto la diffusione delle notizie che arrivano dal Nuovo Mondo. I saperi sono ancora quelli rigidamente organizzati dalla scolastica e dall’aristotelismo. A questi non bastava la semplice descrizione delle cose, come facevano i primi testimoni di Oltreatlantico. Le novità entravano a fatica nei loro schemi. Perciò prevalse il “banale pragmatismo” degli umili e dei poveri.

I semi delle piante americane arrivavano in gran parte con i marinai, i funzionari, i religiosi, sulle navi che facevano la spola tra le due rive dell’oceano: raggiunsero prima quegli ambienti umili per i quali il problema principale era di calmare ogni giorno la fame. Il primi riferimenti scritti al pomodoro in Europa sono di un fiammingo e di un belga (di zone, cioè, allora soggette all’influenza spagnola), mentre l’italiano Mattioli nel 1544 gli assegna un nome, per la prima volta in Europa: “mala aurea”.   

Per tutto il secolo XVI – in base al trattato di Tordesillas – i contatti con il nuovo mondo sono mantenuti da navi spagnole o portoghesi. I traffici andavano dall’America all’Europa, ma anche in senso opposto. L’Italia meridionale era sotto la corona di Spagna e parte integrante del suo sistema economico: da là partiva il grano per il Messico e lì anche arrivavano le piante americane. 

L’interesse per la botanica di Filippo II stimola la conoscenza, l’importazione e la classificazione delle piante americane, tra cui i pomodori. Ma la Spagna all’inizio del secolo XVI non è un ambiente particolarmente accogliente. 

Molte piante americane sono usate solo a scopo ornamentale. Per trovare il pomodoro nei ricettari spagnoli, bisogna aspettare il 1745. Come scrive Avicolli:

Il pomodoro troverà infine la legittimazione alimentare con l’opera di Juan de la Mata “Arte de Reposteria” pubblicata a Madrid nel 1791.

Ci sono voluti più di due secoli e mezzo per il pieno  inserimento  del pomodoro nella cultura alimentare spagnola.  

La conoscenza del pomodoro in Germania pare avvenuta nel XVI secolo, come anche in Inghilterra, ma in ambienti colti, non a livello di popolo. Ovunque in quegli ambienti persiste la convinzione che il pomodoro sia nocivo alla salute o non nutriente. Negli stessi Stati Uniti, il pomodoro resta a lungo circondato di una cattiva fama: ancora nel 1860 in un manuale per le cuoche si raccomandava di bollire sempre i pomodori per almeno tre ore. Anche in  Francia il pomodoro è accolto con gravi pregiudizi.  

Una cultura degli orti e dei giardini si sviluppa in Italia nel Cinquecento. Vengono creati orti botanici, i primi dei quali sono quello creato in Toscana, e a Padova dalla Repubblica di Venezia nel 1545. In Italia nel 1544 si ha “la prima descrizione del pomodoro in Europa”.  È a opera di Pietro Andrea Mattioli, lo stesso che – come abbiamo detto – gli conferisce il nome che in Italia sarebbe diventato ufficiale dell’ortaggio americano. Per quanto  animato da grande interesse scientifico, Mattioli condivide i forti pregiudizi del suo ambiente verso la bacca, al punto da avvicinarla alla mandragora. Definisce i pomodori “mele insane”, e dice che, maturando, essi diventano rossi, altri gialli.  Da quelli  di questo colore viene il loro nome italiano.

Maggie Siner, © 2022, Pomodori ciliegino, olio su lino

L’ambiente italiano 

Malgrado l’ostilità scientifica iniziale e la scarsa considerazione dei ricettari riservati ai ceti sociali di rango più alto – osserva Avicolli –  nel giro di pochi secoli la bacca di origine andina raggiunge un tale successo culinario, una così evidente importanza gastronomica ed economica da collocarla sul piano dei prodotti alimentari di base, come il grano, il riso, o il mais

e aggiunge che ciò è tanto più significativo  in quanto l’uso del pomodoro non è dettato da ragioni di sopravvivenza, “ma dal gusto”. 

Il pomodoro entra in un ambiente italiano in cui lo spirito rinascimentale è giunto al culmine della sua fioritura. Negli ambienti raffinati delle corti e nelle case patrizie si coltiva  la “perfezione” della vita.  Anche il cibo e il pranzo sono organizzati a fini non solo di soddisfare i bisogni di sostentamento, ma anche come occasioni di socializzazione, caricandosi  di valenze estetico – cerimoniali, culturali e politiche. 

Si tratta di piani dove il gusto non è fatto solo di papille – osserva Avicolli – ma è preparazione, parte di processi conoscitivi, di memoria, di imitazione e competizione, di ritualità dialettica alla quale partecipano insieme i cibi, le bevande, i commensali e gli ambienti. E le pulsioni biologiche. 

In questo mondo dei nobili, dei ricchi e dei colti il pomodoro è esaminato, descritto, ma ancora tenuto a distanza, considerato non adatto a una alimentazione armoniosa e “nobile”.

A fronte e sideralmente lontano da questo mondo “alto”, in una società segnata da disuguaglianze abissali, sta quello “basso” dei contadini e dei poveri  che devono combattere con una fame ancestrale.   

L’autore ricorda però che questi due mondi, pur idealmente così lontani, sono fisicamente molto vicini: i fornitori della campagna, gli inservienti, gli sguatteri delle cucine dei ricchi, ecc. sono contadini o popolani. Nelle cucine delle famiglie  nobili e ricche. divenute importanti laboratori, questi due mondi s’incontrano  e si intrecciano: 

Intorno alle mense e alle cucine si forma una visione e si sviluppa un’operosità complessa alla quale partecipano i mercati urbani, luoghi fondamentali dell’incontro tra la campagna e la città, spazio della contaminazione culturale che conferma il valore della cosa in sé, incontri fra entità della vita, della fame, del gusto.

Vi è anche un altro mondo, “terzo”, che per sua posizione e vocazione si pone a mediare tra quello dei ricchi e quello dei poveri: è quello ecclesiastico e dei monasteri, votato alla penitenza e all’umiltà. Le sue mense non disdegnano la cucina vegetale e gli alimenti dei poveri, pur non condividendone l’ignoranza. 

L’autore ricorda anche un altro  importante aspetto, ambientale, che arricchisce e rende tanto peculiare l’ambiente italiano: la compresenza in esso di tre zone climatiche, l’alpina, la continentale e la mediterranea, che favorisce la grande varietà di piante e di cucine locali. 

La bacca americana, insomma, passa dalla civiltà azteca, che le aveva offerto un contesto favorevole alla sua prima sistematica domesticazione, all’Italia, trovando qui – nell’ambiente fisico, economico e culturale  del Rinascimento italiano – il luogo più degno in Europa per la sua “ridomesticazione”.

Maggie Siner, © 2022, Pomodori ciliegino, olio su lino

Bertoldo 

A questo punto il nostro autore fa entrare in scena un personaggio che ha un ruolo chiave nella sua costruzione, quello di Bertoldo. “La storia è quella di uno stravagante contadino che conquista con le sue arguzie la benevolenza dei padroni e allorchè egli si ammala, essi se ne prendono cura come fossero loro stessi”, scrive Avicolli. 

I medici che vengono chiamati a curarlo sono medici dei ricchi, non conoscono la “complessione” contadina di Bertoldo. Lo curano come curerebbero un nobile cavaliere, resistendo alle sue richieste di nutrirsi di rape, fagioli e cipolle. Così Bertoldo muore. 

Bertoldo è un personaggio archetipico, di origine medievale. La sua storia mostra come la polarizzazione sociale, quando è estrema e plurisecolare – come nella società italiana del Cinquecento – possa giungere a un punto tale da far apparire le differenze tra nobili e ricchi e poveri e villani non più solo  sociali, ma addirittura  differenze naturali: tra tipi biologici e diverse specie umane. 

E’ tra  “l’umanità bassa” che, aggirando le diffidenze della cultura “alta”, si fa strada il pomodoro: entra nella società italiana attraverso l’orto, risalendo a poco a poco dalla umile dieta di verdure e ortaggi dei poveri alle tavole dei ricchi.

“Che cos’è il gusto e come si forma? C’è differenza tra gusto e sapore?” si chiede a questo punto l’autore. Il gusto si forma nell’incontro di istinto ed educazione, è la sua risposta. In un rapporto dialettico fra fattore culturale e istinto nel quale la cultura prepara la strada all’adattamento biologico, si incontrano l’utile e il piacevole, il funzionale e l’estetico: “la sensazione è che nel Cinquecento il gusto esprima una qualità della vita e non il semplice rapporto tra palato e cibo”, egli osserva. 

Infatti fa da cornice a questa straordinaria concentrazione di intensità vitale un’inebriante consapevolezza, diffusa nella società italiana del Cinquecento. Quella di trovarsi a un culmine dell’umano, in quella posizione che offre a chi lo occupa la possibilità di fare da battistrada e da modello. Il  sapere che “gli Italiani sono primi in tutti i campi” – come avrebbero riconosciuto Montaigne e molti altri nell’Europa del tempo – avrebbe reso la società  rinascimentale della penisola la più adatta a recepire ed elaborare in modo originale il nuovo, anche nel campo dell’alimentazione. 

Maggie Siner, © 2022, Calabrese, olio su lino

L’ordito  complesso delle cose 

L’ultimo capitolo riguarda la consacrazione del pomodoro in Italia come onnipresente nella sua cucina. Le origini di questo successo  – a parte la speciale ricettività dell’ambiente italiano di cui si è detto – rimandano principalmente alla duttilità (esso si adatta ad accompagnare molte pietanze, specie della “cucina povera”) e all’aspetto allegro del pomodoro. Questo è particolarmente importante per i contadini e i poveri, che riescono – almeno in questo caso – a “insegnare ai maestri” di una cultura accademica troppo altezzosa e paludata:

La familiarità che hanno il mondo rurale e i ceti popolari con i pomodoro – scrive l’autore – mostra che l’uso della popolazione più legata al sistema alimentare costituito da farinacei, dalle verdure e dagli ortaggi precede di molto la registrazione ufficiale dei libri. 

Segue l’inventario delle citazioni del pomodoro in opere italiane del XVII e XVIII secolo. Nel secolo XIX l’uso del pomodoro e abbastanza diffuso nelle diverse cucine regionali italiane e si accoppia a fettuccine, lasagne, e maccheroni. Più in quelle meridionali, che – come si è detto – hanno fatto parte dell’influenza economica e culturale della Spagna. Finché il pomodoro compare su tutte le tavole e entra nel novero degli ingredienti considerati da Artusi essenziali  per quella dieta alimentare imperniata sul grano, l’olio, la vite, che sarà chiamata “mediterranea”. 

L’ultima riflessione dell’autore è in controluce, metodologica. Egli la riserva al rapporto tra caso, possibilità e divenire. 

Il pomodoro nella sua realtà naturale biologica – afferma Avicolli – si è offerto nel tempo a diverse culture e  ambienti. La possibilità che restasse una bacca naturale o – entrando nella storia degli umani –  diventasse un frutto, non dipendeva solo da lui ma anche dalle caratteristiche e dalle peculiari situazioni delle civiltà e società con cui è  via via entrato in contatto:

la domesticazione è appunto la filiera in cui avvengono questi passaggi con l’intervento di più soggetti e si configura, pertanto, come un sistema relazionale in cui tutti gli attori subiscono modificazioni genetiche e sociali. Il caso opera tuttavia nelle possibilità, nelle condizioni favorevoli e nulla può contro il vuoto e l’assenza.

Ma una volta  entrato nella storia umana, conclude Avicolli, il pomodoro ne diventerà definitivamente parte ed esso stesso agente della sua evoluzione.

Una riflessione importante, preziosa. Che evoca la trama della complessità e pone l’esigenza di una nuova etica della conoscenza e dell’azione a questa ispirata, in un tempo, come quello attuale, minacciato da regressivi semplicismi e  da pericolosi manicheismi.

Immagine di copertina dell’articolo: Maggie Siner, © 2022, Pomodori ciliegino, olio su lino

Ringraziamo Maggie Siner per averci concesso il diritto di riprodurre le sue opere.

Quotidianità e nobiltà del pomodoro ultima modifica: 2022-11-02T14:41:59+01:00 da ALBERTO MADRICARDO
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