Me lo ricordo ancora il giorno in cui morì Gianluca Signorini (era il 6 novembre 2002), galantuomo e capitano del Genoa degli anni d’oro, i primi Novanta, devastato dalla SLA a soli quarantadue anni. Ricordo anche quel giovedì, era il 24 maggio 2001, in cui apparve allo stadio Ferraris, là dove aveva scritto le pagine più belle della sua carriera, in condizioni disperate. Ricordo la commozione, le lacrime, il dolore sincero del suo pubblico che era venuto a rendergli omaggio con il cuore spezzato, sapendo che sarebbe stata l’ultima volta. E ricordo la dignità di quest’uomo sconfitto ma non arreso, condannato ma non disposto ad abbattersi, vinto ma comunque colmo d’amore per il prossimo.
Signorini era stato fra gli eroi di Anfield, quando il Genoa aveva battuto addirittura il Liverpool, una potenza del calcio mondiale asserragliatain un fortino pressoché inespugnabile. Era stato uno degli alfieri di una compagine fra le più nobili del calcio italiano, la più antica e senz’altro dotata di un fascino senza eguali. Oggi, non a caso, la sua maglia numero 6 è stata ritirata.
Non abbiamo ancora sufficienti informazioni in merito alla maledetta malattia che l’ha stroncato, nota anche come morbo di Lou Gehrig, dal nome del noto campione di baseball che ne fu affetto, e purtroppo, al momento, non esiste una cura in grado di sconfiggerla. Sappiamo solo che abbiamo visto diversi fuoriclasse affetti da questo incubo: basti pensare al povero Stefano Borgonovo, protagonista nel Milan e nella Fiorentina, grande amico di Baggio, il cui calvario visse un’unica grande serata di festa, al Franchi di Firenze, l’8 ottobre 2008, con il Divin Codino e Maldini ad accompagnarlo di fronte a un pubblico incredulo e commosso.

Tornando a Signorini, ne ricordiamo il garbo, l’eleganza, la dolcezza e, ahinoi, la tragica fine e il nostro senso di smarrimento. Osservando il Ferraris gremito per rendere omaggio al suo idolo straziato, per la prima volta, in quell’anno che avrebbe cambiato per sempre le nostre vite, entrai in contatto con questo morbo e con le sue conseguenze. Fu la prima volta che vidi un mito dello sport ridotto in condizioni drammatiche. Fu la prima volta che mi resi conto del fatto che non esistono eroi invincibili, anche se da bambini tendiamo erroneamente a crederlo. E non è un caso, almeno così mi piace pensare, che la fine dell’infanzia e la nascita in me di una seria coscienza civile, sia iniziata due prima che tutto si compisse, a poche settimane da una tragedia collettiva che avrebbe sconvolto per sempre ogni discorso, fissando gli occhi di un uomo ormai prossimo alla fine ma ancora in grado di trasmettere un senso di bellezza, di umanità, di tenerezza.
Mi torna spesso in mente quest’uomo intrappolato da un male indescrivibile, destinato a spegnersi di lì a poco ma ancora dotato di un’empatia fuori dal comune, al punto che riuscì a renderci protagonisti del suo dolore, lasciando in ciascuna e ciascuno di noi un senso di vuoto. Era come se tutta la sofferenza del mondo si fosse concentrata sul suo viso quella sera a Genova, una città in attesa, sconvolta dalla disarmante agonia di uno dei suoi simboli più belli.

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