Acquerelli

“Oltre una certa età non si riesce a mentire. L’imbarazzo è andato in scena per troppo tempo. Speriamo che il futuro sia migliore. E che due uomini, due donne, un terzo sesso, possano baciarsi. Nei caffè, davanti a tutti. O camminare mano nella mano. Forse, saremo liberi quando dei generi non si parlerà più e della sessualità, la si darà per scontata e ognuno vivrà come crede”.
LUCIO FAVARETTO
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PARTE PRIMA

Se sapessi dipingere, mi piacerebbe scrivere sull’acqua. Farlo senza che resti nulla. Un po’ per pudore, un po’ perché credo che a parità di condizioni socio-economiche la vita sia uguale per tutti.
Proviamo.

 Avevo bei voti alle elementari, tranne in disegno dove ero negato. 

Amo le cose quando sgusciano via e resta solo ciò che è voluto o potuto restare dentro di noi incluse le fantasie che fanno da elemento rifrangente…  i ricordi personali spesso sono imprecisi come un cucchiaino dentro un bicchiere d’acqua.  

Appartenevo a una famiglia operaia, mio padre era bravissimo nella pittura ma voleva fare solo quella. Sono il figlio nato per caso grazie al metodo Ogino-Knaus, dieci anni dopo mia sorella. 

Fino ad allora, dai racconti che ho sentito, le cose andavano benino. Poi, uno altro dopo l’altro i miei genitori morirono: mio padre, che era un donnaiolo, e poco prima mia madre.  

La mamma morì di trombosi. Non la vidi mai più. Ricordo solo il pronto soccorso e la corsa che feci abitando in centro correndo sino all’allora triste ricovero ospedaliero. Non avevano la rianimazione e uscì il medico: disse che non c’era più niente da fare. La portarono a Vicenza dove se ne andò per sempre.

Da allora ho odiato Vicenza, i suoi portici da pettegolezzo parrocchiale, il Veneto. Andai a vivere, mal voluto, da mia sorella e dal marito (a quindici anni un rivoluzionario che ascolta musica con gli amici a tutto volume non è gradito). 

Durante l’adolescenza, mi mandarono nell’immobiliare di mio cognato perché “non dovevo andare in giro”. I pomeriggi erano una scansione del tempo tediosa. Non avevo niente da fare se non scrivere racconti che mandai in Rai a Roma dove mi chiamarono per nove mesi di trasmissione. 

Sempre a proposito di mio padre, da bambino ricordo che non si potevano nominare carote e patate. Era stato nel campo di concentramento di Birkenau, riuscendo a evadere e a scappare a piedi con un amico. Tornò con un orecchio forato, gli aguzzini volevano provare con il trapano la sua resistenza al dolore, tornò con la tbc, dicono che pesasse quaranta chili e che fosse un uomo distrutto.

Piano piano si riprese ma in casa erano bandite patate e carote: nel campo di concentramento andavano a prendere le bucce nei bagni per riuscire a stare in piedi. Grazie a Dio tornò.

Non ci parlò mai di quel terribile evento, ne parlava piano con mia madre, ma un bambino quando sente parlare piano aguzza le orecchie.

Io già sapevo di essere gay, ma aspettavo in solitudine che mi passasse, come una malattia, come una sbornia.

Ma non passava e io mi innamoravo.. 

Ero gay, orfano, insomma appartenevo a una pletora di minoranze.

La Treviso bene era allora più interclassista e meno isolata (tutti si conoscevano anche senza frequentarsi). Forse per l’età che avevo, forse perché tra campagna e città c’erano chilometri di spazio, tali da fare di una cittadina un piccolo paese isolato dagli altri) le frequentazioni sparirono e nessuno mi diede una mano, prima dell’università ,per trovare un lavoro, per poter vivere da solo. 

Alle elementari ero in una sezione mista, così durante le scuole medie, che furono un piccolo incubo. 

Sappiamo chi siamo e cosa ci piace, ciò che ci’innamora, ma, senza retorica, non è così facile capire cosa ti succede. (Sandro Penna, Confuso sogno)

 A Roma, mi sentivo più libero, bastava cambiare quartiere, ma nemmeno allora avevo fatto il cosiddetto outing.

 Le paure che viviamo continuano indipendentemente dai luoghi in cui ci troviamo. 

A Treviso, l’unico ad avere rapporti con me era il suocero di mia sorella: mi portava sempre al cinema alle 20 ma poi si spaventò per paura che lo prendessero per un pedofilo e sparì.

I genitori di molti amici non mi accettavano nella case perché orfano.

Eh sì, essere orfano era una condizione di sottomissione ulteriore a quella gay che pochi conoscevano. Un orfano senza una “famiglia classica” è incontrollabile secondo i luoghi comuni.

In buona fede, a casa di mia sorella e mio cognato, cercavano di proteggermi avrei potuto essere portato allo sbando sbandato di  “cattive compagnie”.

La protezione era la cattività. La ricerca d’amore la mia storia. Facevo tutto perché mi volessero bene, uno stato di passività psichica che i gay, molti gay conoscono a menadito.

Mio padre, negli anni in cui sopravvisse a mia madre cambiò varie donne (era bello) fino a trovarne una donna fissa e stare con lei. Non l’ho mai conosciuta. Era l’età dell’intransigenza.

Si formò una compagnia, che si sciolse alla prima vacanza. Un tempo, si andava in bici per fiumi e ville venete.

Venezia era un miracolo continuo di scoperte, spesso andavamo anche solo per fare una passeggiata portando qualcosa da casa per mangiare perché non avevamo soldi. 

Nei week-end la nostra salvezza era una chitarra e un amico che aveva un ottimo giradischi. La musica, i libri, ci salvarono dal nulla. Ce li passavamo come preziosi gioielli scoperti dall’uno o dall’altro. 

Ma torniamo indietro come nei cerchi d’acqua. Era il figlio inaspettato, riparatore di un matrimonio che balzellava per le donne di mio padre a Venezia dove imparò da Felice Manin prospettiva, pittura, quadri densi di calori di cui aveva riempito casa.

La casa era piena di avi dipinti con punte di colore molto forte. 

C’era  un ché di compulsivo nell’uso del colore. Erano ritratti dei nonni che non ero riuscito a conoscere (non era una famiglia longeva), la medicina non era quella di oggi.

Vivevamo in centro in un condominio, ma la notte che sparì mia madre, fu quella notte che andai a vivere da mia sorella e mio cognato…

Roma, dove  fui chiamato in Rai, diventò un terreno più libero. Non fu facile.

L’ironia romana, finché non non si entra nella capacità di prendere di mira qualcuno (bonariamente) non ti  salva; ti senti straniero e timido.

Se da una parte era una battuta continua, dall’altra insegnava a difendersi dalle battute con altre battute, dall’imprecisione, dal caos dal traffico (a Roma non si poteva calcolare un orario, un tempo di spostamento, un preciso appuntamento).

Lì conobbi un sacco di gente interessante, sempre senza esporre la mia omo-affettività.

Frequentavo  persone fuori dal giro dello spettacolo, a parte gli appuntamenti di lavoro dovuti (cinema-teatro-concerti da recensire) con le cene che finivano alle tre di notte. Le cene del dopo-teatro.

Durante i periodi di pausa Rai, obbligatori per legge, mi davo da fare per uffici stampa, lavorai in un’agenzia di Pubblicità inconsapevole che questa fase avrebbe cambiato la mia vita. 

In cambio di una serie di lavori su vari prodotti, un amico giornalista tedesco, mi mise un lungo articolo su un giornale internazionale.

Tornai, e dopo un periodo di relativa tranquillità, mi ritrovai ad essere chiamato in tutta Europa, negli Stati Uniti, a Tokyo, Hong Kong come responsabile del marketing. 

Erano lunghi voli e riunioni continue. Poi mi ammalai di un cancro, preso in tempo, e diventai anticipatore del lavoro a casa.

Non mi piaceva lavorare da casa: non si capisce come suddividere le gli spazi, non si sa  se è il caso di incominciare in pigiama parché non sia una teleconferenza. Ho la vaga impressione che s’inventino un sacco di bugie sul lavoro da soli. Manca lo scambio, anche di uno sguardo che approvi o disapprovi. 

Tanto più in un mestiere, il pubblicitario, dove collettivamente non c’era paura di distruggere e rifare. Bastava una battuta che bocciasse un’idea, e si riprendeva, sempre costantemente in ritardo sui tempi di consegna.

A Roma ho vissuto la mia prima forma di innamoramento forte, in una casa sui Fori imperiali.

Mi venne suonato Satie (era un giovane coetaneo direttore di orchestra e accompagnava al piano le cantanti liriche internazionali) e da lì non riuscivo che a barcollare uscendo verso il Colosseo. Non ricordo nemmeno che ora fosse, sicuramente stava imbrunendo. Avevo cuore cervello vista capovolti. Vi sarà capitato. Capita anche a noi.

Ci vedevamo in capoluoghi  d’Italia e quando lui aveva spettacoli, se ce la facevo  lo raggiungevo. 

Non sono gay per via di mio padre, o madre o famiglia. Si nasce così: nella varietà del mondo ci siamo anche noi. Ma è così difficile da capire? 

Come scrisse Isherwood, da cui è stato tutto un brutto modaiolo film (Un uomo solo).  “Non è perché Lui era il padre mancante, mai l’urtarsi in cucina era la cosa che mi mancava dopo che la sua vita cominciò ad esitare e finire”

Tornando alle classi sociali e alle diversità, alcune cose sono cambiate.

Mai visto tanti giovani gay palestrati, perfetti, belli. Non ragionano per incontrare per luoghi: bar gay o misti o altro. Ho notato che questo accade anche nella vita eterosessuale. Ormai è prassi: telefonino, fototessera e chat di incontri aridi e promiscui poiché privi di contesto sociale.

A Montreal, parlando con un amico che ha la cattedra all’università, i luoghi di sereno incontro sono spariti per far posto a deludenti, chiamiamole con il loro nome “scopate” senza nemmeno conoscere il nome dell’interlocutore o interlocutrice.

La notte è sempre stata per me una lunga novena di celebrazioni, tra lettura, ascolti in cuffia, preparazione dei lavori. Le città grandi sono più belle di notte. New York, dove andai decine e decine di volte la sera acquisiva un’improbabile capacità di stare in piedi senza crollare, tanto mi sembrava grande e alta. 

Non sentivo a Manhattan alcun pericolo, avevano – come si dice – cancellato  la cenere dei derelitti sotto il tappeto cacciando barboni e tenendo i lustrini di cui sono colmi i marciapiedi.

Ebbi la fortuna di avere un amico che faceva il concierge al Waldorf Astoria (ora trasformato in appartamenti) e mi godetti la parte più interessante.

Mai in vita mia avrei pensato di andare al “Blue Note”. Il baratto era: tu ci mandi un po’ di vip (i suoi clienti andavano da Madonna a altre star) o di amici e noi ti offriamo la serata (costava allora settecento dollari un drink all’ultimo piano del Rockefeller Center, con musica inimmaginabilmente perfetta).

Tutti i camerieri e le cameriere erano bellissime. Il motivo, che scoprii solo più avanti, era che erano tutti attori dell’Actor’s Studio che per sopravvivere e pagarsi rette e affitti lavoravano nei bar e nei ristoranti.

Non c’era un rimorchio da strada, per lo meno non lo vidi affascinato da tante imponenti opere ingegneristiche, e nei momenti di lavoro intenso (è faticoso viaggiare Viaggiare stanca). 

C’era il Village che era un quartiere dove, come racconta in un’intervista Patti Smith, “allora potevo concedermi di vivere e fare i miei reading (letture con sottofondi musicali) più un piccolo appartamento al Village solo facendo la commessa in libreria. 

Oggi questo non è possibile, è quasi come se, sessualmente, emotivamente, dal punto di vista delle divisioni per classe sociale, NYC si fosse sempre più indurita. Ma senza questo amico che lavorava al Waldorf e al Plaza,  non avrei mai pensato di andare a bere qualcosa in Penn Station? Bere in stazione? C’erano i bar del periodo proibizionista ed erano tutto un fiorire di decó, di anni Trenta. Bellissimo. E a me sconosciuto… 

Vidi, in qualche modo il vitello d’oro, poiché tutto era relativo ai soldi, money, ma quando questi sono l’unico argomento per non finire per strada, comprensibilmente si comprendono le ragioni di tanta ossessione. Una domanda tipica era “come ti chiami e quanto guadagni?”

Gli studenti avevano debiti spaventosi con le università, si nasceva e si andava avanti con i debiti. Fui sia a Roma che a New York che in tre quarti degli Stati Uniti colto di sopresa da un trafiletto che parlava della “malattia degli omosessuali che conduce alla morte”.

 L’Aids spiazzò le migliori menti della città.

 Non v’erano cure , e questo è il punto, perché  non erano stati fatti investimenti.

Provai un brivido sinistro a San Francisco nel vedere tanta gente acciaccata, e, chiacchierando, mi dissero che li mettevano in ospedali pubblici, accuditi da gente volonterosa.

Lazzaretti  di fortuna finché morivano. L’Aids era, ripeto, un trafiletto sui giornali.

Poi la comunità cominciò a muoversi. Riempirono la città di Washington con una specie di quilt fatto dalle bandiere di tutti quelli che erano morti. Lo videro i Clinton che decisero di investire nella ricerca medica

Ora non si muore più di Aids, non servono, mi dicono, tante pastiglie e ci sono situazioni per cui basta prenderne una per essere immunizzati ed immunizzanti nei rapporti sessuali. 

Questa malattia, relagata solo ai gay nei gossip giornalistici, diede un’ulteriore batosta alla comunità.

 Amici liberal che fingevano di affittare case per tenersi i malati senza farlo sapere, soprattutto dalle famiglie (tutto il mondo è paese) e dare loro una morte dignitosa.

 Ho conosciuto un’umanità straordinaria che, grazie a Dio e alle lotte, risolse la situazione.

Bastavano dei fondi, dei soldi per salvare migliaiaia di vite umane. Su una tediosa televisione a pagamento  (dove tutti i  gay sono belli e ricchi) fecero una serie (tolta) As we were dove viene raccontata con dovizie di particolari tutta la storia. È tra le dieci cosa che si salvano da una televisione noiosa: ripresa di una città con un drone, non luoghi così si pagano poco le location, e gente squartata. Sempre la stessa storia. Un ripetersi continuo, ripeto a parte qualche caso, che si conta nelle dita al massimo di due mani. 

Da noi le cose andavano un po’ diversamente. 

Ricordo lo shock (i miei c’erano ancora) della morte di Pasolini. Non sono mai stato d’accordo con lui, trovavo il suo cinema un poderoso grumo personale dove realtà e pulsioni si confondevano. Mi raccontavano in sala montaggio a Roma (la vice montatrice) che arrivava alle 9, se ne andava alle 6, non dava confidenza e tornava il giorno dopo pieno di lividi. 

Non mi stupisce la prostituzione, è sempre esistita, ma trovarsi gente che per un piatto di pasta ti fa supporre di leggere la realtà lo trovo difficile.

 Dissero alla radio che lo trovarono morto di botte in un luogo squallido della periferia romana. C’era anche mia madre che sentiva la notizia. Non disse nulla. 

Se  Pasolini ebbe una funzione, fu quella di tirare fuori tutto, se c’era un limite era di confondere il suo piacere in cambio di un piatto di pasta  una lettura nostalgico forse reazionaria della realtà. 

Con tutti i limiti del capitalismo e della nascita della classe media, grazie al progresso tecnologico che liberava donne e uomini da lavori massacranti, c’era qualcosa da non rimpiangere. E quel rimpianto di bocche sdentate si sentiva nel cinema, negli scritti corsari. Lui viveva in una casa borghese. 

Sandro Penna era sostenuto dalle offerte degli amici. Era un poeta puro. (“Ogni cosa è pura per chi è puro”). Andammo a trovarlo con un gruppo di amici che lo sostenevano (cibo compreso). Viveva nel degrado, gli bastava scrivere.

La rete sociale cita sempre l’adorabile Alda Merini, ma di Penna piano piano si sono perse le tracce, è molto meno citato a parità di talento.

Quello che la scoperta di questa “malattia degli omosessuali” creò fu, come dice un amico,” la perdita della dimensione dell’abbandono”. Mille precauzioni, e la paura divenne parte integrante della pulsione fino a farle equivalere. Questo ha limitato di molto la vita affettiva e sessuale, o entrambe, di molti gay.

La storia scritta sull’acqua è una storia di paure, i ricordi li fanno il tempo e dall’esperienza.

So che avrei potuto liberare di più i miei istinti, la voglia di giocare un po’, ma era pericoloso e c’era in me un andare con il freno a mano tirato per non finire come ciò che vi ho raccontato

Degli etero, promiscui (senza che questo rappresenti un giudizio) e morti per Aids non si parlava. Non faceva notizia ed era comodo relegare ad una minoranza tutta la responsabilità di un disastro mondiale. (i continenti poveri , come sempre dimenticati e abbandonati a loro stessi).

Oggi, a differenza del matrimonio tra persone dello stesso sesso, non è possibile adottare in due un figlio (e se manca un genitore dove finisce un bambino?). 

Il figlio appartiene solo a uno dei due “uniti civilmente”, per l’altro non è nessuno. In tutta Europa, e incominciarono in Olanda i matrimoni sono parificati. Da noi il cosiddetto “naturale” non è che l’ovvio.

Sembra che io voglia blasonare le convenzioni (matrimonio etc) di ogni relazione omo-erotica. Il problema è diverso: ognuno ha il diritto, nei limiti del buon senso, di vivere come gli pare: vuoi sposarti, non lo vuoi, vuoi avere una relazione oggi definita poli-amorosa? L’importante è che non si tocchino e invece si amplino i diritti rispettando le scelte di ciascuno.

Perché ognuno, se non fa del male, vive come crede e come meglio pensa di agire, l’importante è che nessuno si faccia male

Cercavo solitariamente indizi letterari che mi aiutassero a comprendere questo atlante muto, tutto da fare. Nessuna strada era stata descritta e ognuno si arrangiava. Cercavo i Maledetti, gli indizi su Sartre, Malreaux, Proust, Freud… Volevo trovare qualcosa che mi desse un indizio per incominciare a vivere la mia vita, ma bisognava scartabellare in varie lingue, in vari autori, in vari libri per trovare qualcosa che incominciasse a disegnare la carta della mia vita. 

Questa è una piccola parte di una storia scritta sul nulla. Ci sarebbe molto altro da raccontare, ma aspettiamo per non tediare i lettori. Senza dimenticare che molti gay, e va detto, stavano con gente più ricca perché dove c’era cultura,  nasceva una maggiore facilità nell’accettare la situazione. 

Oggi, una buona parte della comunità è andata a lavorare negli ospedali (prendersi cura degli altri per avere una dimensione di dedizione), altri sono, come dicono in Spagna “ancora dentro l’armadio (nascosti)”.

Ma oltre una certa età non si riesce a mentire. Ti chiedono di tua moglie, dei figli, e tu, balzellando e tentennando non sai cosa rispondere. Non rispondi perché non conosci i segni geografici della tua vita.

L’imbarazzo è andato in scena per troppo tempo. Speriamo che il futuro sia migliore. E che due uomini, due donne, un terzo sesso, possano baciarsi. Nei caffè, davanti a tutti. O camminare mano nella mano.

Forse, saremo liberi quando dei generi non si parlerà più e della sessualità, la si darà per scontata e ognuno vivrà come crede.

Immagini: Opere di Paolo D’Orazio, 1944-2022

Acquerelli ultima modifica: 2022-11-14T17:33:20+01:00 da LUCIO FAVARETTO
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