A Lionel Messi per essere Maradona manca solo una cosa: il Novecento. È un aspetto non di poco conto, un elemento decisivo per spiegare le differenze fra i due. Differenze che non sono né tecniche né di mentalità: parliamo di due fenomeni che, in epoche diverse, hanno egemonizzato la scena e conquistato un posto di diritto nella leggenda dello sport. Solo che Diego si portava dietro le ferite dell’Argentina di Videla, l’ideologia guevarista, le battaglie contro la FIFA in nome di una sorta di lotta di classe contro i potenti del pallone e della Terra; era, insomma, un alterglobalista ante-litteram, cresciuto nella polvere di Villa Fiorito, col il mito di un altro rivoluzionario come il cubano José Martí, ben cosciente della tragedia dei desaparecidos e pronto a battersi al fianco di tutti i sud del mondo, come una sorta di Gianni Minà (non a caso, suo grande amico) che, però, al posto della penna, utilizzava i tacchetti.
Leo, al contrario, è figlio della modernità, della globalizzazione senza regole e delle ideologie colpevolmente accantonate, specie dalla sinistra, eccezion fatta per il liberismo selvaggio che ha regalato un Mondiale al Qatar, in mezzo al deserto, fra stadi costruiti al prezzo del sangue di migliaia di operai e scandali d’ogni genere di cui, proprio in questi giorni, stiamo capendo la portata e le possibili conseguenze. A differenza di Diego, che a Barcellona vi rimase poco e non riuscì a dare il meglio di sé, Leo è cresciuto ed è stato valorizzato nel cuore della vecchia Europa, fra contratti faraonici e lusso sfrenato.
Non ha fatto in tempo a maturare una coscienza politica e civile, se non su alcuni temi particolari come, ad esempio, i diritti dei minori, per i quali si batte da sempre in prima linea. Diego era il popolo, il riscatto delle periferie degradate, la battaglia contro l’oppressione dei ricchi e dei potenti, la sinistra realizzata, una sorta di diario della motocicletta perenne, fra irrequietezza ed eccessi, prese di posizione nette e inequivocabili e ingiustizie tremende cui venne sottoposto affinché nessuno provasse a imitarlo, per giunta non essendo Maradona.
Leo è il calcio di oggi, fra business e affari, telecamere ovunque e spettacolo spinto all’estremo. Diego, probabilmente, avrebbe rifiutato con sdegno l’incoronazione in diretta, con tanto di vestito posto sopra la maglia albiceleste al momento della premiazione. Leo si è lasciato incoronare dagli emiri con una naturalezza quasi imbarazzante. Se l’uno era lo scugnizzo per eccellenza, il genio che si reca a giocare nel fango di Acerra per ragioni umanitarie, generoso fino all’ingenuità più assoluta ma comunque dotato di un cuore grande così, l’altro sa badare bene ai suoi introiti.
Non a caso, di fronte alla crisi del Barcellona, il buon Lionello non ha esitato a fare le valigie e ad accasarsi nel club artificiale degli organizzatori di questo Mondiale, divenendone di fatto uno dei testimonial.

L’altro era Mbappé, e qui bisogna aprire una parentesi. Perché è vero che ha perso, dopo essersi caricato sulle spalle una Francia per quasi ottanta minuti in disarmo, ma è altrettanto vero che una tripletta messa a segno nella finale dei Mondiali ti proietta in un’altra dimensione a prescindere dal risultato. E Kylian si è preso la corona, in attesa di tornare a vincere trofei, lui che, ricordiamolo, a soli diciannove anni si è laureato campione del mondo e che ha sfiorato un clamoroso bis a ventiquattro anni non ancora compiuti. Intanto, è stato capocannoniere del torneo e ha lasciato chiunque a bocca aperta: per la sua classe cristallina e per come ha saputo spronare e prendere per mano la squadra nei momenti più difficili.
Ora che l’era Messi volge inesorabilmente al termine, non c’è dubbio che l’avvenire sia suo e con pieno merito. Senza scomodare il Padreterno, vogliamo immaginare che dietro quest’esito ci sia una specie di giustizia divina, capace di regalare al re del presente e del futuro la consacrazione definitiva e al fuoriclasse giunto all’ultima grande recita la soddisfazione di poter sedere finalmente al fianco dell’idolo di tutti gli argentini, di cui adesso può essere considerato l’erede senza che nessuno inarchi il sopracciglio.Quanto alla kermesse nel suo insieme, una finale così intensa, avvincente e a tratti folle, conclusasi ai rigori dopo innumerevoli colpi di scena, ci ricorda quanto avesse ragione Eduardo Galeano, quando sosteneva che ovunque ci sia un bambino che prende a calci un oggetto per la strada, lì ricomincia la storia del calcio. Qualcuno obietterà che è uno sport come gli altri. Lasciamoglielo dire, tanto il cuore di miliardi di persone sa come stanno le cose.

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